Gli appassionati di Fantascienza già lo conoscono, Max Gobbo non ha bisogno di molte presentazioni, essendo da anni uno dei protagonisti del Fantastico italiano e autore di opere pubblicate da prestigiosi editori. Qualche dettaglio sulla sua attività comunque non guasta: tra i suoi interessi principali: la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema. È autore di diversi romanzi e di racconti fantastici come Garibaldi e i mostri meccanici e la Maschera nera, che rileggono in chiave “retrofuturista” la storia d’Italia. Nel 2010 esordisce con Protocollo Genesi edito da Aracne editrice presentato al XXIII Salone internazionale del libro di Torino.
Nel 2012 è finalista a Giallolatino col suo racconto La palude dei caimani.
Nel 2013 ha presentato al festival internazionale di fantascienza, Sticcon di Bellaria il suo Capitan Acciaio supereroe d’Italia edito da Psiche e Aurora editore, con prefazione di Gianfranco de Turris.
Maggio 2014, sulla prestigiosa rivista “Robot” (Delos Books) appare il suo racconto a tema steampunk, L’incontro di Teano.
Luglio 2014, sulle pagine di “IF – Insolito e Fantastico” rivista edita da Solfanelli compare il suo Aeronavi Italiche.
Nel 2015 un suo romanzo L’Occhio di Krishna, Bietti Editore.
Collabora con diverse riviste: “Skan Amazing Magazine”, “Politicamente.net”, “Letteratura Horror”, e col quotidiano on line “Barbadillo”. È curatore della sezione narrativa per la rivista “Antarès”.
DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. ospita un suo racconto. Nell’edizione primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, cattura l’attenzione. Tema principale dell’edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna esaustiva di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo, Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.
Il racconto di Max Gobbo su DIMENSIONE COSMICA:
SEMBRA UN CONIGLIO
Il deserto si dispiegava all’infinito come una coltre d’oro sotto il sole cocente. L’auto impolverata si fermò con un sussulto accanto alla locanda calcinata dai dardi di luce. Padre e figlio scesero impolverati pure loro, il padre tossì. Tutti e due si sedettero a un tavolo sgangherato senza dire una parola. Faceva molto caldo e l’aria riarsa seccava la gola e impastava la bocca di sabbia.
Un cameriere con un grembiule sudicio e l’aria d’un gatto sornione si avvicinò e domandò: «Cerveza?»
Il padre sorrise e fece cenno di sì con la testa riccioluta dai riflessi di cenere:
«Dos Cervezas.»
Il cameriere dall’aria sorniona sparì dietro una vecchia tenda di perline di legno ingiallite dal sole.
Il figlio, poco più d’un ragazzo, si mise a fissare le montagne che davano a Ovest.
«Quella è la Sierra Madre occidentale,» disse il padre indicando con un dito le cime bianche che riflettevano i raggi solari come piramidi di ghiaccio.
«Perché siamo venuti in questo deserto?» domandò il figlio senza staccare lo sguardo dai monti.
«Bisogna attraversarlo se vogliamo arrivare a Veracruz prima di notte.»
Il cameriere ricomparve con un vassoio di latta con sopra un paio di boccali di birra con due dita di schiuma. Mise sul tavolo i sottobicchieri di cartone e vi posò i bicchieri con la birra. La schiuma colò dalla cima dei bicchieri e bagnò i sottobicchieri.
«Ah, ci voleva proprio!» esclamò sorbendo la birra il padre mentre il cameriere tornava nella locanda di mattoni giallastri e scrostati.
«E’ buona,» osservò il ragazzo con la bocca sporca di schiuma. Se la ripulì con la manica della camicia con un gesto goffo.
«Sì, è fredda al punto giusto, la birra deve esserlo, soprattutto nel deserto.»
«E’ la prima volta che bevo birra,» disse il figlio guardando la schiuma densa e bianca come neve che ondeggiava. «Non me lo hai mai permesso.»
«Be’, che vuoi è roba da uomini.»
«Allora sono un uomo?»
«Lo sei, quasi.»
«Perché bevo birra?»
«Perché ora lo puoi fare.»
Il ragazzo meditò su quelle parole, si sentiva confuso. Tutto di quel lungo viaggio lo aveva frastornato.
«Pa’, non sembra anche a te che abbia la forma d’un coniglio?»
«Che cosa?»
«Quella grossa nuvola laggiù,» e indicò un fronte nuvoloso che s’arrampicava sulle vette montuose.
Era una nube imponente arrossata come la fucina d’un fabbro dalla luce del tardo pomeriggio. Aveva proprio la forma d’un coniglio, o almeno così pareva.
Il padre sogguardò distrattamente la nuvola, si grattò la barba di due giorni e sogghignò:
«Mah, non saprei, a me sembra più un cane, però è la tua nuvola e se ci vedi un coniglio, allora è un coniglio.»
«E’ la mia nuvola?»
«Certo che lo è, se guardi bene ci vedrai scritto sopra il tuo nome.»
Il ragazzo sorrise; ma poi tornò serio. Stava per aggiungere altro quando un rombo di tuono lo fece trasalire. Improvvisamente, proprio tra le orecchie del coniglio di vapore, saettò una scia di fuoco.
«Che cos’è?» fece spalancando gli occhi.
«Un razzo, direi,» rispose il padre aggrottando la fronte.
«E’ il cargo del pomeriggio,» gracchiò con la sua voce nasale il cameriere ricomparendo da dietro la tenda. «Qui ne passano in continuazione. Oltre la Mesa, in direzione di Veracruz ci sono le piattaforme di lancio.»
«Ne decollano molti?» domandò il figlio rimirando il cargo che scintillava ai raggi del sole come una punta di diamante che tagliava il cielo.
«Ve l’ho detto señor, quei bolidi non la finiscono mai di decollare. Oggigiorno sembra che tutti muoiano dalla voglia d’andarsene sulla Luna,» rispose il cameriere e si ritirò nella locanda come una lumaca nel suo guscio.
Il figlio fissò ancora per un poco il razzo finché questo divenne un punto indistinto nell’azzurro del cielo. Rimase solo una lunga scia biancastra a testimoniare il suo passaggio.
« Pa’,» chiese mandando giù un altro sorso di birra, «farà male?»
Il padre fissò il tavolo e con una mano rigirò il suo bicchiere, disse:
«Ma no, è una cosa da nulla, vedrai.»
«Sì, ma che mi faranno?»
«Non vuoi aiutare la tua famiglia?» grugnì l’uomo sollevando lo sguardo severo, «non ti piacerebbe far star bene i tuoi fratelli e le tue sorelline più piccole?»
«Sì, certo…» balbettò il ragazzo.
«Senti un po’ figliolo,» disse il genitore rabbonendosi. «Se fossi più giovane l’avrei fatta io questa cosa, ma lo sai, quelli della mia età non li vogliono. Sono troppo vecchio per certe faccende.»
«Dici che dopo posso compramela una macchina?» domandò il ragazzo tornando improvvisamente allegro.
«Sicuro, potrai comprati un sacco di cose.»
«E i miei fratelli avranno abiti nuovi?»
«Ci puoi scommettere.»
«E andranno a scuola?»
«Sì, se lo vorranno.»
«E mangeremo tutti quegli hamburger con le cipolle, la salsa agrodolce, e poi anche il gelato alla fragola?»
«Certamente e ci potrai mettere su in cima una montagna di panna fresca.»
Il figlio non disse più niente, stava immaginandosi tutto quel gelato con la panna e via dicendo. Entrambi non parlarono per un bel po’. Un altro razzo prese il volo sfrecciando come un gigantesco fuoco d’artificio tra le nuvole.
Il coniglio s’era ormai dissolto assumendo contorni vaghi e indistinti. Pareva un’immensa massa di cotone sparsa sulle cime delle montagne.
Il ragazzo si riparò gli occhi con il palmo d’una mano per vedere il razzo che s’innalzava fiero verso le stelle.
«Dove sarà diretto?» chiese infine riabbassando lo sguardo.
Il padre piegò le labbra con fare incerto.
«Hai sentito anche tu quello che ha detto il cameriere: probabilmente andrà sulla Luna o su una sua stazione orbitale. Chi può dirlo?»
«Forse non lo sa nessuno,» disse il figlio.
«Sì, che lo sanno,» rispose il padre.
«No, che non lo sanno, nessuno lo sa mai.»
«Che vuoi dire?»
«Io non so dove sto andando.»
«A Veracruz, te l’ho detto, no?»
«Non so dove sia.»
«Presto lo scoprirai. E’ un gran bel posto, non sei curioso?»
«Non sono sicuro di volerlo sapere.»
Il padre annuì con la testa, aveva capito che era inutile insistere.
«Riguardo quella faccenda,» disse poggiando le mani grosse e nodose sul tavolo, «se non vuoi, non è che devi farlo per forza.»
«Sentirò male?»
«No, te l’ho già detto, non ti farà male. Quando dormi non senti niente.»
«Come fai a saperlo?»
«Lo so e basta.»
Il figlio bevve un altro sorso di birra, quel sapore amarognolo non gli piaceva troppo, però era sempre una novità. Guardò la strada che s’allungava come un lungo serpente nel deserto messicano. A un certo punto, gli parve, che piegasse verso una collinetta riarsa. Pensò che forse il coniglio di prima ci si era nascosto dietro. I conigli alle volte lo fanno, si disse.
«Credi che mi permetteranno di andare a caccia di conigli?»
«Là non ci sono conigli,» rispose il padre un po’ seccato.
«Metti che uno ce li porti?»
«Allora, ma è solo un’ipotesi, li si potrebbe cacciare.»
«Ne ero sicuro,» concluse il ragazzo tutto soddisfatto. «Allora si va?»
Il padre sembrò non ascoltarlo. Per la prima volta da quando si erano fermati pareva dubbioso, esitante. Nella sua mente, forse, si agitavano strani pensieri. Improvvisamente aveva l’aria triste. Sollevò il mento ponendosi le mani sullo stomaco prominente. Con lo sguardo vagò su per le montagne che davano verso Veracruz, vaghi, indifferenti giganti di pietra, e sospirò.
Il figlio si alzò dal tavolo, aveva finito la sua birra e adesso era ansioso di ripartire.
«Pa’, che facciamo, andiamo?»
«Ah sì, certo,» mormorò l’uomo riemergendo dai suoi pensieri con una strana luce negli occhi. «Però prima di rimetterci in viaggio dobbiamo assolutamente fare una cosa.»
«Cosa, Pa’ ?»
«Farci portare altre due birre gelate.»
Poco dopo, quando la macchina s’era già allontanata tra le sabbie roventi lasciandosi una densa cortina di polvere alle spalle, il cameriere sbucò fuori dalla locanda per recuperare i bicchieri.
Sul tavolo notò un volantino pubblicitario lasciato dai due clienti. Lo prese in mano e vi lesse:
La compagnia estrattiva lunare cerca nuovi minatori.
Requisito di base: essersi sottoposti alla procedura chirurgica di riadattamento organico alle condizioni ambientali del satellite.




beh, il racconto di Alex Gobbo lo meritava! a quando un tuo racconto!? pal saluta da questa desolata landa di Albione