te lo facevano studiare a scuola?

MACHIAVELLI IL PRINCIPE . Entra questi pidocchi traggo il cervello di muffa, scrive il nostro uomo. Te lo ricordi quanto volte ci dicevano: studiatelo ragazzi, è uno degli autori italiani ed europei più importanti. E io e immagino anche te, non capivamo come Niccolò Machiavelli potesse essere così importante. A cosa si dovesse la sua grandezza non ci era per niente chiaro. Eppure è conosciuto più all’estero che in Italia. Si vede che fuori dal nostro Paese ne sanno fare buon uso. Gioca in taverna partite a cricca, a trichetrac, in compagnia di un oste e un beccaio, tra contese e bestemmie per la posta di un quattrino. Aiuta litigiosi boscaioli a tagliare alberi per arrotondare il gruzzolo e chiacchiera per strada con alcuni passanti. Qualche ora di lettura e il ricordo di passati amori e poi subito a nanna presto.

E intanto l’Italia se ne va in malora, cadendo letteralmente a pezzi, contesa tra Francia e Spagna, mentre la Chiesa temporale ne approfitta, appoggiandosi ora qua, ora là, dimenticando i suoi impegni evangelici. Un disastro insomma i cui effetti devastanti e la sua cattiva e nefasta eredità si possono riscontrare ancora oggi. Lo avevano cacciato via con ignominia il gran Niccolò, e destituito da ogni carica politica, sospettandolo di congiura, poi incarcerato e quindi persino torturato. Era il 1532, una manciata di secoli fa. Cioè ieri. Ma chi era che litigava all’osteria, covando acredine e vendetta? Chi era che, costretto a un forzato esilio nel suo podere di Sant’Andrea in Percussina, dopo la restaurazione del regime dei Medici, conduceva quell’esistenza umile, degradata e tuttavia partecipe, coltivando un fervore culturale e umanistico davvero inestinguibile? Era il grande, intrepido, intramontabile Niccolò Machiavelli, alle prese con la nuova scienza della politica, fondata sulla scoperta delle leggi e delle dinamiche che la regolano da tempo immemore ma che sono da sempre mascherate o confuse per i più. Una scienza vera e propria che continua a far scalpore ancora oggi. Nella stesura di quel capolavoro che è IL PRINCIPE, da lui stesso definito: opuscolo, c’entrano papi, principi, eserciti invasori e truppe mercenarie e potenze straniere e logiche di potere tutte perfettamente riscontrabili. In quell’Italia più schiava degli Ebrei di allora, senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, oltraggiata e vilipesa, egli delinea le sue spericolate teorie. In quelle vicende, riferendosi a fatti precisi e noti del passato remoto e recente della storia, attraverso analisi puntuali e oggettive si esalta e si delinea il vero soggetto dei suoi studi, il naturale protagonista di tutte le sue analisi e confronti, ovvero: LA POLITICA. Lo Stato che propone è disegnato per l’emergenza politica del suo tempo e fa riferimento a Borgia che nutriva un disegno complesso e ardito riguardante la riunificazione degli stati italiani. Di Borgia, si sa che è stato scritto di tutto e il suo contrario fino a farne un film con Orson Welles (Borgia) e Tyrone Power dove si capisce che il regista della pellicola, spettacolarizzando il film, aveva capito sì e no delle intenzioni del Borgia. Ma non divaghiamo! Nell’accurata introduzione di Nino Borsellino, l’edizione integrale de IL PRINCIPE nell’edizione della newtoncompton si legge inoltre: Si è detto che Machiavelli mette allo scoperto le leggi della politica, ma l’arte del politico va appresa valutando le circostanze, misurandosi con le difficoltà della conquista, del dominio e del governo. E ancora: IL PRINCIPE non è un opuscolo per politici di parte. È un libro per lettori liberi, disposti a confrontarsi da soli con le sue verità talvolta assai scomode, aggiungiamo noi. E il grande Niccolò che cos’ha da dire? A pagina 26 leggiamo: Gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere: perché si vendicano delle leggiere offese, delle gravi non possono; sì che l’offesa che si fa l’uomo debba essere in modo che non tema la vendetta. Parole valide ancora oggi, che fan riflettere tanto son crude e, probabilmente, valide ancora per molto tempo a venire. Machiavelli muore nel 1527 in povertà, ancora in tempo, ahimé, per constatare le condanne che si stavano addensando come nubi minacciose su di lui.

Mezzo euro per cento pagine! in quella straordinaria collana del 1995 della NEWTON COMPTON quando di editori veri e che si occupavano di diffondere cultura in Italia ce n’erano ancora.

c’erano le razze?

Ho deciso di utilizzare uno scambio di vedute vivaci tra un “uomo moderno” e me che si trascina da molto sulla diversità degli umani e sulle razze. Unica premessa: baso le mie idee su fatti riscontrabili, incontri in prima persona che nel tempo, stratificandosi, si sono fatti convinzione e su ciò che sostengono studi scientifici, storici e antropologici vecchi e recenti non sprprio concordanti.
Le sue affermazioni contestano le mie e sono certo che egli vorrà spiegare ciò che, talvolta con foga, egli sostiene a spada tratta. In questi casi spesso ci si accalora solo per spirito di polemica. Cosa sostiene l’uomo moderno?

Egli sostiene l’uguaglianza fra le razze umane (e sin qui non ci piove), ma poi va oltre dicendo che esiste una sola razza, quella appunto umana. Che tutti gli uomini sono identici e che la loro apparente diversità è dovuta al 90% a fattori esterni, all’educazione e alle condizioni dell’ambiente. Ma a te sembra plausibile? Le opportunità offerte a ciascuno sarebbero determinanti. Sostiene che l’intelligenza è omogenea, nel senso di uguale per tutti gli esseri (?!) e che, obbedendo al concetto onnicomprensivo di uguaglianza non esiste il tonto o il dotato naturalmente, come natura decreta, il geniale o il meno adatto ad apprendere la fisica delle particelle e che la sua fatica a capire è esclusivamente o prevalentemente condizionata da fattori socio ambientali, salvo quel dieci per cento di cui parla, e che non so a cosa si riferisce, è anche convinto che non esistono propensioni per materie, soggetti di studio, (i test attitudinali per lui non esistono) che indifferentemente possiamo diventare tutto ciò che desideriamo, se fossimo stati sollecitati in modo appropriato. Indica insomma nelle condizioni ambientali e nelle opportunità della società gli unici fattori di condizionamento e crescita dell’individuo causa delle disuguaglianze, che stando a quello che lui sostiene tutti potremmo essere, (ma il fattore genetico ereditario che fine ha fatto?). Einstein o il più esperto cuoco della storia.

Arriva a dire che il ruolo di Marlon Brando nel Giulio Cesare di Mankiewitz potrebbe essere impersonato con uguale veemenza daI primo che passa per strada se solo questi avesse frequentato l’Actor Studio. Ovvero se fosse, come dice lui, io avrei potuto essere come il grande Totò, o Lawrence Olivier nei panni dell’Amleto. Anche il postino o lo spazzino avrebbero potuto interpretare il comandante del Bounty, tanto per capirci, con tutto il rispetto per loro. Tali sono perché non è stato loro offerta sufficienti opportunità. In ultima analisi egli sostiene che siamo tutti uguali e che non esistono esseri più o meno dotati di intelligenza, che non ci sono differenze fra individuo e individuo e che, se ci sono come davvero appare, esse non sono biologiche, ereditarie, intellettive, e che tutti apparteniamo a un’unica razza, quella umana. L’insalata è servita. In poche parole, come dicevano i vetero comunisti un tempo, siamo tutti uguali al punto che, per rispettare questo assioma non esiste più il singolo uomo pensante ma il pensiero collettivo unico, in sostituzione dell’uomo autentico e pensante ecco l’uomo massificato e collettivizzato che non DEVE pensare in autonomia, se no il Comunismo si squaglia, come in effetti si è squagliato. Qualcosa che la loro fallita rivoluzione voleva dimostrare. Ma l’evidenza di queste aberrazioni ha poi detto il contrario, inevitabile. Ricordo confusamente che l’amico Aldo conte di Ricaldone un tempo mi disse che proprio i comunisti russi nella convinzione genuina che tutti gli uomini fossero uguali avevano ideato un esperimento “scolastico” per dimostrare il loro assioma, esperimento fallito miseramente com’era logico prevedere. Perché? Perché nessuno è uguale a un altro, nemmeno se piovessero elefanti. Ora, cosa rispondo io, inorridito, dalle affermazioni di costui? Che non esiste un essere, dico uno (nemmeno fra i gemelli) che possa dirsi uguale ad un altro, forse simili, forse… Che esistono le differenze, causate dall’ambiente e che sono importanti, ma non le uniche e non assolutamente ed esclusivamente determinanti. Che esistono vari gradi di intelligenza, innata, ereditata, che poco hanno a che fare con i condizionamenti dell’ambiente. Che le razze (vorrei sapere chi reputa insultante o avvilente dire che le razze sono diverse una dall’altra, non inferiori, ma diverse! Per attitudine, cultura e tradizioni. Ci andrei molto cauto nel dire che esiste una sola razza, frutto di una insostenibile e fumosa convinzione astratta, visto anche che neri, indiani, pellerossa e sudamericani potrebbero sentirsi (e a ragione) offesi dall’essere equiparati ai bianchi, considerati soprattutto i soprusi e le turpitudini che questi hanno perpetrato fino a ieri nei loro confronti. Ma non divaghiamo.

Non so se siete stati in mezzo ai Turkana o ai Dinka o ai guerrieri Shilluk, come ho fatto io con Paolo Novaresio, (viaggio un po’ diverso dal recarsi a Rimini) o ai pastori afghani o fra i cammellieri di Goulimine, tanto per capirci. Io non mi sento per niente uguale a loro e loro non si sentono uguali a me. Per tradizione, inclinazione, ereditarietà, cultura, condizioni ambientali, sociali e indole. Perché dunque ridurre tutto a un unico broccolo senza sapore di diversità, cos’è che dobbiamo dimostrare o difendere o sostenere? Ci hai mai pensato che dicendo che siamo tutti uguali, che l’intelligenza è uguale per ogni uomo e che esiste solo una razza, milioni di persone potrebbero risentirsi. Meglio? Peggio? Tonto? Genio? Fanno parte del concetto di diversità sancito da evidenze quotidiane e verificabili in ogni momento. Non indifferenziazione fra le razze ma la loro diversità intesa come bene prezioso, come frutto di complessi processi storici e bio evolutivi, escludendo una volta per tutte il concetto nefasto di superiorità di una razza sull’altra, che porta come è accaduto per secoli, allo sfruttamento di beni, genti e territori da parte di chi si sente superiore e oggi invoca democrazia. Al contrario di quanto sostiene l’uomo moderno io affermo che ogni uomo ha le sue inclinazioni, propensioni, preferenze. Non esiste un essere uguale all’altro, che la matematica mi fa venire l’orticaria, perché mi costringe a essere quello che non sarò mai: logico, eppure astratto, e non è certo colpa di traumi infantili o dell’educazione se non so fare due o più due ma di una naturale, profonda, innata avversione per cifre ed equazioni, amando io esclusivamente le lettere. Sostenere che ogni uomo è assolutamente uguale all’altro è un affronto alla sua stessa essenza di uomo, un non senso, in quanto psiche, fisico, spirito, che si basa su fattori ereditari, attitudini, caratteristiche e propensioni a varia intensità, introiettati nel corso dei millenni nello spirito e nel corpo di ogni razza. Non ammetterlo è come dire che la luna è uguale a Saturno è che Saturno è uguale a Giove. Che non occorre scomodare Julius Evola e quello che scrive il filosofo sulla razza. Dico semplicemente, documenti se richiesti alla mano, è un errore scientifico, storico e antropologico sostenere l’uguaglianza fra gli uomini. Se l’uguaglianza deve e può esserci va solo letta e sostenuta nella diversità. Che tutti, quello certo che va sostenuto con forza, devono godere di stessa dignità, di rispetto e attenzione in quanto esseri umani. Tutti uguali? Certamente, ma solo nel rispetto della diversità degli esseri. E se proprio devo dirla tutta: io non mi sento affatto superiore a chi ho visto scaricare balle di cento chili di alghe secche sulla spiaggia di Bali, ma solo diverso e che nel sentirmi diverso non è affatto implicito il concetto di superiore a quei nerboruti facchini fatti d’acciaio. Così come una pescatrice di perle non è affatto simile a una manager della City, ma solo diversa, non migliore o superiore…Il concetto di diversità nell’uguaglianza e nel rispetto della dignità degli esseri a me pare cosa ovvia, così come sono ovvie le differenze psicologiche e attitudinali, indole, inclinazioni, le quali esistono da sempre e fanno dell’umanità un affascinante mosaico, incredibilmente variegato perché non uguale a se stesso. Una materia umana scolpita dal tempo, l’ambiente, il clima, le abitudini…Ma se l’uomo moderno sostiene ancora l’insostenibile non dimostrabile, basato su una uguaglianza astratta e fumosa fra gli uomini e per il timore (lecito) che avvengano ancora soprusi di una razza sull’altra io lo invito a spiegarsi meglio, lui, o i suoi amici, colleghi, datori di lavoro o altri. Do il benvenuto a chi volesse confrontarsi su questo tema. La biodiversità anche umana, ovviamente, è la cifra saliente che natura, evoluzione, lotta per la sopravvivenza e condizioni ambientali che hanno decretato per ognuno di noi. Temere l’evidenza di riscontrabili diversità e attitudini NON LEGATE solo alle condizioni socio ambientali non porta a nulla, anzi confonde le idee. Evviva dunque le diversità, patrimonio inalienabile delle razze umane e non, vero autentico sale della terra (retorica a parte).

Nostra sorella Wikipedia riporta sull’intelligenza: “Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), alcuni identificano l’intelligenza (in questo caso l’intelligenza pratica) come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti; nel caso dell’uomo e degli animali, l’intelligenza pare inoltre identificabile anche come il complesso di tutte quelle facoltà di tipo cognitivo o emotivo che concorrono o concorrerebbero a tale capacità. Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.

E sulla razza: “Nel linguaggio comune, la razza identifica l’appartenenza degli esseri umani a determinati raggruppamenti in base ai loro tratti fisici, alla discendenza, alla genetica, o alle relazioni tra tali caratteristiche. È comunemente accettato che le categorie razziali siano dei costrutti sociali di uso comune pur non risultando concettualmente corrette e che dunque i gruppi razziali non possano essere definiti biologicamente. Alcuni studiosi suggeriscono che le categorie razziali possano essere comunque collegate ai tratti biologici (fenotipi) e a certi marcatori genetici che si trovano con una certa frequenza in talune popolazioni umane, alcuni dei quali corrispondono più o meno a gruppi razziali, ma sotto tale aspetto non vi è consenso universale sull’uso e la validità delle categorie razziali.

Mia la foto del signore con la lancia in mano, scattata in Sudan.

il Gran Vecchio…

C’è chi lo chiama affettuosamente Gran Vecchio o fratello maggiore, chi Maestro, mecenate e guida, altri ancora ispiratore e mentore, ma in primis, per tutti è l’Amico. Personaggio (quasi) mitico, ecco un (altro) libro che lo riguarda. Considerazione, gratitudine, commozione e affetto per un giovanotto di 80 anni traspaiono dalle pagine. Il tutto si ridurrebbe a peana di consenso un poco stucchevole verso l’uomo e il suo lavoro di una vita che sconfinerebbe nella celebrazione. Il soggetto, indovino che rifiuterebbe tale cornice. Gli apprezzamenti riuscirebbero indigesti anche al festeggiato -tuttora attivissimo e impegnato culturalmente in nuovi progetti.- Il volume, invece, è sorprendentemente ricco, vivace e di facile lettura e sa svincolarsi dall’aspetto privato e di encomio. Sa insomma farsi racconto. Spaccato culturale della vita di destra, per molti versi ignoto, degli ultimi 50 anni. Il volume in questione pubblicato da Oaks edizioni  costituisce una miniera di informazioni, molte delle quali di prima mano. Aneddoti, amarcord, riferimenti a opere, citazioni ti fanno capire quanto vivace e attivo sia stato ed è tuttora il macrocosmo di destra dagli anni ‘50 ad oggi. E su quanti uomini di valore abbia potuto contare quella cultura; ancora oggi demonizzata dai brandelli marxisti leninisti (chi scrive ricorda le “occupazioni rosse” degli anni ‘70 delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo a Torino). Volume denso di citazioni, riferimenti a opere, personaggi, filosofie, convegni, forum, mostre come quella recente, sui dipinti di Evola. Gli argomenti: da Julius Evola “all’imbecille” D’Annunzio, dai Manga a Tolkien, da Lovecraft alla passione politica, e poi la miriade di riviste e pubblicazioni cult, la Storia ucronica e la magia.
La cura maniacale del dettaglio, l’attenzione scrupolosa di citazioni e riferimenti a garanzia di esattezza filologica e semantica sono una delle cifre distintive del lavoro di GdT, (il baffuto individuo col sigaro della copertina). Un’esistenza diversa da quella che conduce, un’esistenza ucronica, ad esempio, per lui non avrebbe alcun senso avendo egli perseguito tutto ciò che animo, cultura e sensibilità gli suggeriscono.
In Fisica Quantistica si è soliti affermare che tutto ciò che potrebbe accadere, sicuramente accadrà. Il giovanotto di 80 anni sembra rappresentare tale assioma. 

Difficile la spigolatura del testo che si legge tutto d’un fiato, come se fosse l’avventura galoppante dello spirito ribelle; si desidererebbe ancora più dettaglio. Ho dovuto scegliere solo alcuni brani per ragioni di spazio, ma tutti gli interventi meriterebbero citazione.

Dall’introduzione: “è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Il volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e quindi da Luca Gallesi che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di una «festa a lungo attesa» in una controstoria della cultura italiana.”

“In tempi non sospetti, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco ci hanno detto che i capolavori del Fantastico non hanno nulla da invidiare ai grandi classici della letteratura convenzionale e, pertanto, come tali devono essere trattati.” Giuseppe Aguanno

“GdT ha continuato e continua nella sua opera di divulgazione, instancabile facitore di conoscenza in un mondo di ignoranti, con la consueta curiosità unita all’umiltà propria delle Grandi anime… i primi ottant’anni spesi bene, sono certo che i successivi saranno spesi benissimo! Mario Bortoluzzi

“Non esistono molte persone capaci di ragionare di questi tempi. Qualcuna l’ho incontrata. Gianfranco de Turris è una di loro.” Alessandro Bottero

“Tra mille incontri e telefonate ha sempre manifestato l’entusiasmo e la pazienza, l’attenzione, la fiducia e la complicità, nei tratti distintivi di un padre.” Giorgio Calcara

“Amico di una vita, grazie per essere stato un così prezioso compagno di strada …mi auguro di poter, ancora insieme, percorrere molte miglia sul sentiero affascinante della conoscenza, scrivendo e pubblicando tante pagine che nutrono l’anima.”  Giovanni Canonico

“il rischio di cascare a piedi uniti nella celebrazione è seriamente tangibile. Non lo farò: in troppi siamo debitori a GdT, a vario titolo …non nutro sensi di colpa, ma, semmai, un’immensa gratitudine per il mio intrattabile mentore.” Marco Cimmino

“Gianfranco, l’augurio migliore che posso farti per il tuo compleanno è che tu possa continuare ancora per molto tempo a donarci l’irrazionale, linfa insostituibile per lo spirito e per il cuore, per sognare e per costruire mondi.” Alessandra Colla

“Merito di Gianfranco de Turris è il recupero di un patrimonio spirituale e culturale enorme. Ma aggiungerei anche l’aver saputo vedere l’interesse duraturo di un insieme di opere, scritti e forme speculative che hanno dato consistenza a un aspetto della cultura italiana troppo spesso ignorato anche dai più attenti ricercatori.” Nuccio D’Anna

“Può essere orgoglioso di ciò che ha raggiunto – e di ciò che raggiungerà ancora, ne sono certo, perché si può avere ottant’anni ed essere più creativi che mai! Ad multos annos, caro Gianfranco! Alain de Benoist (Traduzione di Andrea Scarabelli)

“Navigatore ardito, avventuroso come gli eroi mitici che, al seguito di Giasone, parteciparono al viaggio dalla Grecia alla Colchide per la conquista del Vello d’Oro: Gianfranco de Turris è l’archetipo dell’argonauta, per il rigore intellettuale e il coraggio nel difendere le idee scomode in nome di una visione del mondo senza tempo.” Michele De Feudis

“Che piacere riabbracciarci, io e Gianfranco, due vecchi dinosauri sopravvissuti al fatale meteorite dell’esistere, lui sordastro, io quasi, entrambi con la barba bianca, entrambi con mezzo sigaro trale labbra.” Luigi De Pascalis

“L’ARGONAUTA: Quattordici anni di vita, 468 puntate, oltre 2500 interviste!…Uomo estremamente generoso, uno dei pochi “maestri” incontrati nella mia vita; il maestro che stimola, sprona, forma e soprattutto insegna, o sarebbe meglio dire consegna l’esperienza e il sapere ai suoi allievi.” Roberta Di Casimirro

“La sua identità è scivolosa; sì, proprio come la forza da cui molte esistenze sono di fatto animate; quella che proviene dal centro di tutto; dal fondo incondizionato che, del mondo, ci costringe a riconoscere la radicale inesistenza; senza invitarci a procedere al di là di esso, verso un mondo che non c’è.” Massimo Donà  

“In tanti anni, non l’ho mai visto scendere a un compromesso, mai venir meno a un impegno preso, mai commettere un atto d’ingenerosità, mai deflettere da quello che considerava il giusto cammino. Da ragazzo io ero un po’, diciamo così, scapestrato. Mia madre, che l’aveva conosciuto praticamente quando l’avevo conosciuto io, per cercare di temperarmi mi diceva sempre: «Ma lo vedi Gianfranco? Non puoi prendere esempio da lui?» Sebastiano Fusco

“Riscrivere, correggere, correggere ancora: non è proprio per tutti. Ad alcuni potrebbe addirittura parere, talvolta, di aver a che fare con un nume corrucciato, mai soddisfatto e intento a evidenziare il proverbiale pelo nell’uovo. Ma è apparenza, che vela invece l’amore per gli scritti chiari, ben ponderati.” Andrea Gualchierotti 

“È stato, l’avanguardia, o l’araldo di uno scontro tra diverse visioni dell’uomo e della sua storia che è, oggi, sempre più drammaticamente in corso.” Andrea Marcigliano

“Lei è l’emblema dell’onestà intellettuale, dell’aulicità priva di affettazioni e dello spirito di abnegazione necessari a chi è costantemente impegnato nella ricerca della verità…In Russia il Suo nome è molto conosciuto e stimato.” Dmitry Moiseev

“De Turris ha passato al setaccio tutto della modernità: indizi, simboli, presagi, analizzato l’Utopia e le ideologie del Novecento, la tecnica e internet, la letteratura fantasy e il revisionismo, il millenarismo e cosa accade dietro le quinte della storia, il folklore e le altre dimensioni. Senza mai dimenticare la critica e la cultura politica, agganciate all’attualità, alle spie che indicano i cambiamenti nella società e nella contemporaneità.” Manlio Triggiani

E, fuori dal contesto del volume: L’ho conosciuto a Milano decine di secoli fa, col suo amico editore Marco Solfanelli. Gli ho spedito mini Garuda augurali in ebano da Bali, e qualche cartolina, ma temo non si ricordi. Se qualche volta pubblico lo devo a lui, mi ha insegnato a mettere i punti e le virgole al loro posto e, ovviamente, tutto il resto.

Asclepio, nume eroe e figlio di Apollo ti faceva guarire?

Sognare e guarire – Asclepio e l’incubatio rituale

Patrono dei medici, eroe, guaritore in grado di restituire la salute perduta, e infine nume capace di risuscitare i morti. Se c’è un dio, durante il tramonto del mondo antico, la cui fama pare non conoscere declino, questi è Asclepio. E tutto ciò a dispetto del suo ingresso tardivo, imprevisto, nel pantheon delle grandi divinità dell’Ellade, che distanzia persino quello di un altro celebre ritardatario, Dioniso.
Quando Omero vergava i suoi versi, il figlio di Apollo – tale era l’ascendenza olimpica di Asclepio – si mischiava ancora alla calca innumerevole di progenie divina che affollava il mito greco, pur fregiandosi del notevole, ma ancora umano, rango di eroe. E come tale, sebbene al centro di vicende eccezionali, aveva affrontato il fato comune di tutti gli uomini, la morte.
Colui che i latini avrebbero chiamato Esculapio infatti, aveva ereditato dal padre divino una somma perizia nell’arte medica, giungendo a guarire i casi più disperati. Quando però le sue abilità si erano spinte fino ad arrivare a strappare all’Ade la sua tetra messe di ombre, ecco che Zeus in persona, tutore dell’ordine cosmico, l’aveva incenerito con le sue folgori, uccidendolo. Non l’ultimo, come è noto, di mortali puniti per aver osato tentare di trascendere i vincoli della propria natura.

E’ all’alba del VI secolo, quando ancora l’età classica non è sorta, che avviene la trasmutazione di Asclepio, la sua ascensione ontologica. Zeus l’ha ucciso, sì, ma non distrutto. Apollo, non immemore di quel figlio sfortunato, ottiene per lui una più che rara resurrezione, anzi di più: una vera apoteosi, che non solo riporta Asclepio alla vita, ma gli dona una completa natura divina, imperitura come quella degli olimpi.

Questa, almeno, è la versione del mito che inizia a circolare in quegli anni nella regione dell’Argolide, presso Epidauro, dove il misconosciuto culto oracolare di una divinità locale – Maleátas, patrono di una fonte sacraviene associato prima ad Apollo, nella sua veste di medico divino, e poi, quasi senza soluzione di continuità, a quel suo figlio divenuto immortale.

E’ l’inizio del diffondersi prodigioso del culto: dopo il primo Asklepeion di Epidauro, nel giro di meno di un secolo, altri grandi santuari cominciano a sorgere negli angoli più disparati del mondo greco, assumendo l’aspetto di monumentali centri religiosi e di pellegrinaggio per i malati afflitti da ogni tipo di morbo. Cos, Pergamo: sono solo un paio delle sedi rinomate della venerazione di Asclepio, in cui sacerdoti e adepti – assieme medici e ierofanti – offrono l’opportunità ai sofferenti di guarire grazie alle norme sapienziali trasmesse dal dio. A Roma, preannunciato da una apparizione miracolosa del suo animale sacro – il serpente – gli viene eretto un celebre tempio sull’Isola Tiberina già in età repubblicana, dove ancor oggi sorge non a caso un ospedale.
Eppure, in diversi casi, per ottenere la guarigione non bastano le cure ordinarie, sovente indirizzate su pratiche salutari come digiuni, esercizi ginnici e bagni in acque medicamentose. A volte i malanni accusati dai pellegrini sono tali che solo il nume che regge il santuario può rivelarne il misterioso rimedio.

Ecco dunque che gli Asklepeia si dotano di stanze segrete, sotterranei dove i malati, ivi condotti dopo precise purificazioni rituali (in base a una rigorosa Lex Sacra, basata su sacrifici e invocazioni), compiono il rito della cosiddetta incubatio. Lasciati soli a giacere nelle sale ipogee, dopo aver bevuto spesso bevande dal contenuto soporifero, essi dormono, in attesa che Asclepio in persona, comparendo loro in sogno, gli indichi la via della guarigione.

E così spesso accade.
Infiniti, incisi nella pietra e nel marmo con artistici rilievi, sono gli ex voto che testimoniano l’intervento benefico del dio. E non mancano neanche le testimonianze letterarie; una per tutte, quella famosissima di Elio Aristide, il celebre retore del II secolo, ricordato non solo per la sua orazione “A Roma” che descrive i fasti del secolo d’oro dell’Impero, ma anche per la sua devozione, a tratti morbosa e patologica, per il medico divino. 
Nei suoi quattro “Discorsi sacri”, Aristide, che essendo natio dell’Asia Minore frequentava il grande Asklepeion di Pergamo, narra senza reticenze e con entusiastica emozione il suo legame con Asclepio, che durerà tutta la sua vita. Afflitto da infiniti malanni, probabilmente attribuibili a un disagio di natura psicosomatica, l’oratore frequenta i templi e i santuari del dio, offre continui sacrifici, e soprattutto viene sovente visitato in sogno dal nume, sia durante la pratica di diverse incubationes, sia in contesti più ordinari, quotidiani. Egli è infatti un prescelto, salvato più volte da malattie che l’avrebbero portato alla morte certa senza i ricorrenti salvataggi del suo patrono celeste, di cui elenca con certosino zelo apparizioni, moniti, miracoli.

Seppur unica in termini letterari, la testimonianza di Aristide non doveva costituire una così grande eccezione nel sentire dei devoti. Proprio il santuario di Pergamo, in quegli anni, veniva frequentato da veri esperti di quel tempo nel campo della medicina, come Galeno, e il numero di ex voto pervenuto ci indica un afflusso di visitatori imponente, spesso appartenenti a ranghi sociali elevati.
Questa ascesa, comune a tutti gli altri grandi centri templari, continua ininterrotta almeno fino alla metà del III secolo, quando il dio – da tempo adorato anche in nella Pars Occidentalis del dominio romano – viene acclamato addirittura come Zeus Asklepio Soter, in una sincretistica assimilazione salvifica col sovrano dell’universo.

E se si tratta di un fenomeno comune anche ad altre divinità guaritrici (Serapide, per esempio), il grido “Grande è Asclepio!” continua a risuonare a lungo anche quando inizia il declino dei suoi santuari più grandi.
Associata alla generale decadenza che affligge da tempo le province elleniche in età imperiale, li diradarsi delle visite alle case di guarigione del nume si può attribuire non tanto al diffondersi, specie nelle regioni microasiatiche, del culto cristiano, quanto all’aumentata insicurezza dei tempi, che rende costoso e sconsigliabile il pellegrinaggio agli Asklepeia. Le invasioni degli Eruli in Grecia, giunti fino ad Atene, dei Goti nelle metropoli della provincia d’Asia, contribuiscono a fiaccare territori in cui la spinta religiosa dei secoli passati si è trasformata ormai, in bulimia superstiziosa, affamata di prodigi sempre nuovi, come già l’episodio narrato da Luciano di Samosata del culto fasullo del serpente Glicone (paradossalmente una sorta di reincarnazione di Asclepio), cento anni prima, aveva iniziato a mostrare.
E certamente, la presenza sempre maggiore nelle metropoli degli adepti di un altro Salvatore, non poté non incrinare la predilezione di alcuni per il medico divino figlio di Apollo. Tuttavia, se celebre in quei giorni era la disputa tra Celso e Origene su quale dei due – Cristo o Asclepio – meritasse davvero il titolo di Soter, vero segno dei tempi, gli Asklepeia restarono in attività ancora per molto.
Specie la pratica oniromantica, legata all’interpretazione dei sogni inviati dal dio, continuò ad essere portata avanti da specifici sacerdoti, sulla scorta anche di trattati come quello di Artemidoro di Daldiano, che nel II secolo redasse un apposita opera in cinque volumi divenuta celebre nel mondo antico.
Quando già il culto di suo padre Apollo si era spento e i suoi oracoli tacevano, dunque, Asclepio ancora regnava, venerato nel tardo impero sempre più come immagine benevola del dio “Uno” e non “Unico” vagheggiato dai neoplatonici. In questo senso però, il suo essere stato uno degli avversari finali del Cristianesimo, temuto dai Padri della Chiesa come demoniaco imitatore del vero medicus animarum, si risolse sempre di più ad una questione di stampo polemico: materia per pochi, mentre il fuoco della devozione bruciava ormai altrove.
Privato di santuari ormai deserti, oppure addirittura occupati dai fedeli del suo nemico per farne chiese, il dio venuto da Epidauro dovette accontentarsi di onori privati, di sacrifici di teurgi solitari, cedendo infine il passo alla nuova religione nel corso del V secolo.

La fonte sacra di Epidauro, acqua di salvezza per almeno dieci secoli, scorreva ormai silente.

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Andrea Gualchierotti, romanziere e saggista, collaboratore di Tiricordiquando? ci ha inviato il post su Asclepio.

Andrea Gualchierotti (Roma, 1978) vive e lavora in provincia di Roma. Appassionato del Fantastico e del mondo antico, ha pubblicato romanzi e racconti per diversi editori fra cui Gli Eredi di Atlantide, Le guerre delle Piramidi e La stirpe di Herakles. Collabora con l’associazione culturale Italian Sword&Sorcery . Suoi contributi, che spaziano dal fantasy fino alla storia delle religioni e alla numismatica, possono trovarsi sulle pagine delle riviste Dimensione Cosmica, il Giornale OFF, Hyperborea e L’Intellettuale Dissidente.

ti emozionavi leggendo le sue pagine?

Nel 1947 gli hanno meritatamente conferito, anche il premio Nobel per la Letteratura con questa motivazione: “for his comprehensive and artistically significant writings, in which human problems and conditions have been presented with a fearless love of truth and keen psychological insight“.

Ti ricordi dell’emozione che davano le sue pagine quando André Paul Guillaume Gide scriveva: Mucchi di grano, canterò le vostre lodi. Cereali; grano fulvo; ricchezza in attesa; inestimabile provvista. Si consumi pure il nostro pane! Granai, ho la vostra chiave. Mucchi di grano, voi pure siete là. Sarete tutti mangiati prima che la mia fame sia saziata?….chicchi di grano, conservo di voi una manciata, la semino nel mio fertile campo e poi, a proposito di latte e formaggio: ...Quiete; silenzio; sgocciolio senza fine dai graticci su cui si riducono i formaggi…l’odore del latte cagliato pareva più fresco e più scipito…di un’asprezza così discreta e slavata che non la si sentiva che in fondo alle narici e gia più gusto che profumo….La crema affiora lentamente; si gonfia e si increspa e il latticello se ne spoglia…

Non mi è mai piaciuto riportare gli scritti di altri autori, ma quanto srive Gide in Nutrimenti terrestri andrebbe detto e ripetuto e insegnato nelle scuole, adottando l’opera come testo obbligatorio, anche se i cattolici avrebbero da ridire. Le sue affermazioni su Dio fanno riflettere anche se non posseggono la virulenza iconoclasta di quelle di Nietzsche: –la-responsabilità dell’uomo aumenta col diminuire di quella di Dio…La crudeltà è il principale attributo di Dio….. Comandamenti di Dio, avete reso dolente la mia anima…Fino a che punto ridurrete i vostri confini? Insegnerete forse che sempre più numerose sono le cose proibite?…Comandamenti di Dio, avete reso la mia anima malata, Avete cinto di muri le sole acque per dissetarmi…

Gide è un autore che andrebbe riscoperto, non tanto perché abbia avuto il coraggio durante un viaggio in Tunisia, Algeria e Italia, di portare avanti la sua liberazione morale e sessuale (lo ha già osannato la critica) ma per la sua sincerità e il suo ascoltare l’ultima parte di mondo che parla ancora di semplicità, autenticità, di nutrimento rustico, di cibo intatto da millenni e di cui l’uomo di allora poteva ancora disporre, ma non quello di oggi. ...Ogni fecondazione s’accompagna a voluttà. Il frutto s’ammanta di sapore; e di piacere il perpetuarsi della vita. Polpa del frutto, prova sapida dell’amore…e, a proposito delle fonti: Vi sono fonti che zampillano dalle rocce; Ve ne sono che si vedono sgorgare di sotto ai ghiacciai; Ve ne sonono di così azzurre che paiono piu profonde. …Piccole fonti assai semplici, che languiscono fra i muschi e i giunchi…Vi sono straordinarie bellezze nelle sorgenti; …vi sono straordinarie delizie a berle: sono pallide come l’aria, incolori come se non fossero, e senza gusto….Le gioie più grandi dei miei sensi sono state seti appagate. Gide è uno dei miei autori preferiti, soprattutto in Nutrimenti terrestri, per vari motivi. Gide, senza comprenderlo, vede un mondo che ha i giorni contati, le sue illuminazioni, la comunione con paesaggi naturali genuini e incontaminati è commovente, corrispondono a liberazioni ma noi oggi possiamo solo verificare la perdita di quel mondo da lui percepito e goduto, di quelle fragranze che ormai ci paiono sepolte, distrutte, perdute. Il nostro nuovo mondo si è riempito di pattume sintetico, indistruttibile, mortifero per la stessa nostra vita. Oggi Gide non potrebbe più scrivere il suo capolavoro. Perché oggi Gide, tanto per dirne una, non potrebbe piu scrivere : Ho bevuto dell’acqua quasi disteso sulla sponda dei ruscelli in cui avrei voluto tuffarmi, Acque che mai non han visto la luce; Acque straordinariamnete trasparenti, e che avrei voluto azzurre, meglio verdi…O campi bagnati d’azzurro! O campi imbevuti di miele! Prova a pensarci, dove sono oggi quelle acque e la loro purezza? Dove quei sapori antichi, intatti da secoli?

Quello che Gide non conoscerà mai, è la turpe. sistematica devastazione del nostro suolo, delle fonti, della ancora intatta natura di cui lui può disporre e godere a sazietà. La rivoluzione industriale con le sue scorie e detriti bussa freneticamente alle porte e il suo pattume non cessa nemmeno oggi di essere prodotto e diffuso, tutt’altro, esso sta crescendo a livello esponenziale. Ora, non dico che non ci siano più oasi sulla faccia della terra, zone franche o desertiche, campi incolti perché inservibili o abbandonati, o aree montagnose non calcate dall’uomo, ma certo non più incontaminate, quello che vedrà e sublimeà a Gide nessun uomo dopo di lui potrà farlo, così naturalmente, semplicemente. Oggi gli sarebbe impossibile scrivere: Scorta inesauribile! Zampillare d’acque. Abbondanza d’acqua nel profondo delle sorgenti…i paesi aridi si faranno ameni e tutta l’amarezza del deserto fiorirà . Scaturiscono più sorgenti dalla terra di quanta sete abbiamo per berle...Quanto si sbagliava Gide! E a te bastano questi dati? Sono del 22 marzo 2016 (non ho motivo di credere che il rapporto dopo 8 anni sia meno desolante, anche se posso ovviamente sbagliarmi)- Dati più che allarmanti direttamente dal Ministero della Salute: in Italia esistono ben 44 aree inquinate oltre ogni limite di legge, in cui l’incidenza di tumori sta aumentando statisticamente a dismisura. Nelle zone maggiormente contaminate, le malattie tumorali sono aumentate anche del 90% in soli 10 anni. Amen.

il Profeta parlava?

Ho letto con molto interesse e profitto la raccolta dei detti del Profeta di Sir Abdullah Suhrawardy. Sono fra i tesori dell’umanità, non soltanto di quella musulmana.  Io credo alle verità di tutte le grandi religioni del mondo. Non ci sarà pace durevole sulla terra fino a quando non impareremo non solo a tollerare, ma anche ad avere riguardo per le fedi diverse dalla nostra.”

Era il 24 marzo del 1938 quando a Calcutta il Mahatma Gandhi scrisse queste parole. Parole che sono parte della prefazione di un libro a cura di Abdullahal-Mamun al-Suhrawardy della NEWTON COMPTON EDITORI tradotto da Omar Camiletti. Cos’ha di speciale il libretto? Nulla che non sia già stato riportato, e a cui io ho ben poco da aggiungere. La finalità esplicita dell’opera è forse la cosa più ragguardevole (di circa 40 pagine) le intenzioni infatti trapelano chiarissime e confortanti. A cominciare dalla nota del curatore inglese, J.L. Cranmer  Byng. Il quale scrive: “L’obiettivo del curatore di questa serie è quello di contribuire a far luce sui grandi ideali e le elevate filosofie del pensiero orientale aiutando lo spirito di eguaglianza che non è disprezzata né temuta fra i popoli di differente fede ed etnia. A volte risalire alla fonte diretta dei testi aiuta a capire meglio ciò che si pensa di conoscere (malamente) per sentito dire. Il saluto dei musulmani è As salam-aleikum che vuol dire: La pace sia con te.  La parola Islam significa: assoluta sottomissione alla volontà di Dio che ricorda l’espressione cristiana Sia fatta la Tua volontà. Egli ha stabilito per voi, nella religione, la stessa via che aveva raccomandato a Noè, quella che riveliamo a te, o Muhammad, e che imponemmo ad Abramo, a Mosè e a Gesù: Assolvete al culto e non fatene motivo di divisione (Corano, XLII,13) I musulmani credono in una catena di profeti ispirati e di maestri che pensavano le stesse verità rivelate all’alba della coscienza religiosa dell’uomo. Essi credono nelle rivelazioni divine di tutti primi profeti e che il Corano è l’ultima di tutte le rivelazioni. Ogni epoca ha avuto la sua Scrittura (Corano, XIII, 38). Il Corano non fa distinzione fra nessuno dei profeti (Corano, II, 136) e i musulmani usano per tutti loro lo stesso termine di rispetto Sayedana Hazrat (Mio signore e maestro). A pagina 25 della corposa introduzione leggiamo: I musulmani credono che gli ebrei abbiano commesso l’errore di negare la missione di Cristo, e che i cristiani abbiano sbagliato nell’oltrepassare i limiti delle lodi al Profeta Gesù, arrivando a deificare il Cristo…

E più oltre: Soltanto quando la libertà e soprattutto il suo diritto al culto come credente sono messi in pericolo, l’Islam può prendere le armi per difendersi, e le mantiene per autodifesa. Ma l’Islam non interferisce mai con i dogmi di qualsiasi fede o etica. Non inventò mai la tortura, né strangolò coscienze o sterminò eresie.” Concludiamo, prima che l’argomento mi prenda la mano, e che sollevi un coro di obiezioni, con le parole di Pierre Crabites, un giudice americano dei tribunali misti del Cairo: Muhammad fu probabilmente il più grande campione dei diritti delle donne che il mondo abbia mai conosciuto.

Secondo Bertram Thomas: La sua umanità abbracciava tutto, mai smise di perorare la causa della donna contro i maltrattamenti dei suoi contemporanei. Un libretto prezioso che aiuta a comprendere qualcosa sulla fede in Allah e il vicino di casa. Non ti pare?

Ai miei attuali vicini di casa che sono etiopi musulmani e vivono proprio attaccati al mio orto ho detto che stavo leggendo il Corano, mi han chiesto se ne volevo una copia in inglese e poi, la moglie, dal viso lasciato scoperto dal velo mi ha detto che Corano e Bibbia hanno diversi punti in comune, poi mi ha portato il solito caffè annacquato e due fette del loro pane; quando mi chiamano è perché vado a tagliare l’erba del loro prato.

c’era il guerriero immobile?

Dopo aver caricato su un carrettino prosciutto e formaggio acquistati dai contadini romani, una pattuglia tedesca lo blocca senza troppo riguardo (1943 o 1944). Infuriato, si mette a strillare, poi telefona al colonnello delle SS Eugen Dollmann, protestando. Verrà accompagnato a casa in auto con tante scuse, prosciutto e formaggio non gli verranno sequestrati.
Braccato dagli agenti della Military Police delle forze Alleate (6-7 giugno 1944) trascina per Roma una valigia di cartone piena di preziosi appunti e testi, riuscendo a sfuggire alla cattura. Spaventa Federico Fellini che lo va a trovare in incognito, (anni ‘60) raccontandogli del suo grave incidente mentre “trafficava con l’occulto.”
Né solo saggio, né racconto aneddotico e nemmeno esclusivamente cronaca. Di questi generi
Un filosofo in guerra edito da Mursia ha ereditato e sintetizzato il meglio: avvincente, incalzante, a tratti un giallo poliziesco, dal ritmo sostenuto. Il “detective” Gianfranco de Turris racconta un brano della storia d’Italia, narrando con passione, puntiglio, dovizia di documenti, informazioni di prima mano e di autentiche scoperte. Il periodo: quello tra i più spinosi e controversi del nostro Paese. Dal ‘39 al ‘45, quando l’Italia cambiò volto.
Nel volume molte le cose di rilievo: gli incontri segreti, i depistaggi, i complotti e le misteriose scomparse di uomini e di casse con preziosi archivi ed elenchi di nomi (1945). Forse inabissati di proposito nel Garda, forse nei meandri del Vaticano, o magari stipati negli armadi del PCI. Al riguardo c’entra anche un sacerdote, che, innamoratosi di una bellissima donna, esponente del PCI, per lei lasciò la tonaca ma poi, pentito, abbandonò la femmina per chiudersi in un convento. Ma chi è il filosofo in guerra? Il barone “nero” Julius Evola, al cui proposito Aldo di Ricaldone sugli Annali del Monferrato scrisse: “Il barone Evola coi suoi testi sottolinea con una delle più brillanti sintesi della storia umana il crollo del mondo Tradizionale di fronte allo sguaiato, ipocrita materialismo a favore delle masse, con la decadenza della genuina cultura e dei valori ideali e spirituali.”
L’opera di
Gianfranco de Turris qui si fa trama, vissuto speciale, avvincente racconto, sedimentato in una scrittura tesa e asciutta come ci ha abituato il suo stile. Un filosofo in Guerra fa pensare a quei giorni, alle sorti dell’Italia, a ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Costringe a riflettere, a confrontarsi e infine a prendere posizione, indirizzando l’attenzione anche verso scritti di altri autori come Finis Italiae, di Sergio Romano, ex ambasciatore, che parla del dopo disastro bellico. Questo è un altro pregio de Un filosofo in Guerra: sollecita interesse, invita ad approfondire e a interrogare altre fonti.
Il protagonista indiscusso dell’opera, pittore dadaista, filosofo, esoterista, orientalista, e, secondo molti, profeta, Julius Evola, alias Carlo de Bracorens ovvero un fantasma che si aggira ancora nei meandri della cultura italica (o nei suoi rimasugli.)
Un articolo di Luca Gallesi su Barbadillo precisa i contorni dell’opera accennando anche a qualcuno che di recente, turbato all’udire ancora il nome Evola, ha gridato allo scandalo e alla vergogna.

Nel libro: numerosi gli incontri del barone, fra questi quello con Mussolini, subito dopo la sua liberazione, nel Quartier Generale di Rastenburg (20 luglio 1944); scriverà  al proposito Evola: «Aveva ancora indosso gli abiti borghesi sgualciti che portava al momento della sua liberazione al Gran Sasso: ricordo le scarpe pesanti e sporche e una cravatta tutta attorcigliata. Aveva una certa speciale luce, un’esaltazione febbrile negli occhi».

Mussolini salvato e subito ricattato da Hitler “marrano con lo scettro di pagliaccio feroce” secondo la definizione di Gabriele  D’annunzio.
Scrive de Turris: “Questo testo mi ha dato l’impressione di essere una specie di “fabbrica di San Pietro” mai conclusa: specie nell’ultimo periodo, sino alla vigilia della consegna all’editore, è stato riletto più volte con continui ripensamenti, correzioni, tagli e aggiunte, ritocchi, controlli di molti particolari in origine solo accennati e dati per scontati, tentativi di essere sempre più chiaro ed esatto per evitare equivoci e fraintendimenti altrui (anche voluti…), convinto che la precisione dei riferimenti e anche di singole parole in questi casi sia fondamentale. Se alla fine ci sia riuscito lo decideranno i lettori.” E più avanti: “Non avevo ancora capito la lezione della…Storia, di quanto sempre si nasconde nelle sue complicate pieghe! Incredibilmente, infatti, lo sottolineo ancora, notizie, testimonianze, informazioni, documenti e libri prima non noti sono continuati a balzare fuori nei modi più inaspettati e anche curiosi, addirittura casuali. Ed è quindi da supporre che continueranno a farlo, come se, ancora oggi nella vita di Julius Evola ci sia sempre da scoprire qualcosa, tanto è stata complessa e avventurosa su tutti i piani.” 

Ignoriamo se de Turris sia consapevole di aver rivoluzionato il modo di fare saggistica: aggiungendo cioè al piede di ogni capitolo una formidabile messe di note, riferimenti, rimandi a libri e a documenti, spesso di lunghezza equivalente al capitolo stesso.

Quello di cui non siamo affatto sicuri è che alla quarta edizione (tradotta per gli Stati Uniti e la Russia) riveduta e ampliata con documenti e immagini non se ne aggiungano altre. Il «guerriero immobile», come lo ha definito un suo biografo francese potrebbe riservarci ancora molte altre sorprese…dall’al di là. 

Dalla quarta di copertina del libro: “Una trama che non ha niente da invidiare a una spy story, tra servizi segreti, false identità, attività e viaggi misteriosi, ferite del corpo e dell’anima.Tra l’agosto 1943 e la fine della guerra, Julius Evola si muove in un’Europa al collasso: da Berlino al Quartier Generale di Hitler, poi a Roma, come agente dietro le linee; dopo l’arrivo degli americani è a Verona e quindi a Vienna dove, sotto falso nome, studia archivi massonici e viene ferito durante un bombardamento nel gennaio 1945, restando paralizzato.”

Nelle immagini: Mussolini a Rastenburg, nel Quartier Generale di Hitler, Julius Evola e Gianfranco de Turris a colloquio.

c’era sua Maestà il re Ooni?

Straordinaria, altre parole sarebbero limitative e non riuscirebbero a definirla. Dorme a occhi aperti? Sogna? Medita? O è semplicemente trasognata? Tutto questo, insieme. È la sua espressione assorta a suggerirlo. Forse attende visite e noi non possiamo deluderla. E così ci rechiamo a trovarla, attirati dal suo fascino, quasi dovessimo rispettare un impegno, come se fosse una persona vivente ad attenderci e non una statua, rendendo omaggio alla sua eccezionale avvenenza, alla sua fascinosa maestà, alla squisita fattura e all’enignatica espressione del volto. La nostra visita al British Museum non è casuale, ma un pellegrinaggio continuativo verso una meta precisa: un soggetto che incarna la pura Bellezza, insieme alle altre due meravigliose ancelle. Si tratta della Regina Madre del sedicesimo secolo esposta al British Museum. Una scultura in bronzo di eccezionale fattura che mai ci stancheremo di ammirare e considerare sotto molteplici aspetti. Insieme a un “lotto” di sculture bronzee che coprono un’intera parete, gli arcinoti bronzi del Benin che, reclamati legittimamente a viva voce, dovrebbero rientrare in patria, nella loro Nigeria natale. Sin qui l’omaggio scontato e dovuto e il riconoscimento di una bellezza misteriosa e senza tempo, ma volendo prendere spunto da ciò che la regina rappresenta e ispira e per approfondire un tema importante che ci sta a cuore, occorre riferirsi anche alla diversa origine, significato e interpretazione della Bellezza nella sua patria d’elezione (riconosciuta): Grecia e Italia. Punti di riferimento indispensabili per capire l’arte dell’altrove.

Se fascino e bellezza da millenni si esprimono in Europa attraverso statue di marmo, bronzi, legno e creta riscuotendo ammirazione ovunque, è altrettanto vero che l’arte africana nelle sue espressioni più alte, come dimostra la testa della regina nigeriana, allude con tutta evidenza a un’idea di bellezza universale e comprensibile da tutti e ovunque come si trattasse di una Venere greca o una Venere del Botticelli, ovvero si supera il soggetto significante rimanendo inalterato il comune significato: l’incantamento che emana dalla Bellezza. Non è ozioso pensare che l’artista nigeriano dei secoli scorsi, agendo sotto gli stimoli delle medesime pulsioni creative dell’omologo europeo sia stato “facitore di bellezza” ossia di un linguaggio universale comprensibile da chiunque. Non c’è alcun dubbio. La regina qui incarna anche la Bellezza universale, al di là del significato intrinseco dell’opera d’arte, in Europa la nostra Afrodite, in Africa regine, re e guerrieri e animali rituali.
Da rimarcare che in alcune maschere, come la Maschera-pendente della regina madre, Edo, scolpita nell’avorio risiedono altri significati, esse suggeriscono infatti lo sconfinamento in un mondo sicuramente spirituale, trascendente, dislocato al di là della dimensione realistica, un mondo fascinoso, ipnotico, pertinente al magico, annidato nella mente umana: Maschere e sculture nigeriane sono a testimoniarlo. La Bellezza nei suoi esiti più alti, come nel caso dei Bronzi del Benin, ha una funzione di estremo rilievo, una funzione catartica, rassicurante, se vogliamo, non pertinente ai capitoli artistici dell’arte europea. Ci suggerisce che arte e bellezza fanno parte di patrimoni indistinguibili, “fluidi”, comuni a tutte le genti. Patrimoni fruibili da ognuno, pur nella diversità dei significati, dei luoghi e delle tecniche di produzione. “Fruire” per così dire, o apprezzare “quella” bellezza, ovvero quella emanante da realizzazioni di altri popoli e culture che poco hanno da spartire con la nostra, significa avvicinamento, comunione nel sentire, e soprattutto comprensione dell’altrui. La funzione della Bellezza è dunque medicamento insostituibile, significa parlare una stessa lingua, esprimersi e comprendere attraverso le stesse emozioni, lo stesso stupore e desiderio di capire l’Altro. Per questo fra una statua di Afrodite e un bronzo nigeriano c’è davvero poca differenza.

Ma quella Bellezza occorre che si faccia linguaggio. Che interpreti  il presente per edificare il futuro della Nigeria e dell’Africa tutta che non può e non deve essere “solo” economico. Un linguaggio ispirato  che restituisca l’unicità rinnovata di questo Paese. Un linguaggio osmotico, ponte tra popoli, civiltà e culture assai diverse fra loro. Quella nuova lingua deve poter escludere le trascorse sopraffazioni, mettendo all’indice le umiliazioni del passato. Senza acrimonia deve esigere il dovuto non solo in termini economici per cancellare gli odiosi, barbarici colonialismi di cui è stata vittima. E per impedire il risorgere di altri più subdoli. Un linguaggio, infine, originato dall’emozionante  vista della testa della Regina Madre (XVI sec.) Benin-Nigeria, delle due teste Oba che le fanno da ancelle. E della testa del re (Ooni-14-early 15 sec.) Un nuovo idioma per il popolo nigeriano alla ribalta del futuro. Il nuovo Rinascimento africano, come quello verificatosi in Italia, e poi in Europa, oggi sulle rive del Niger? Perché no? 

si faceva la Grande Storia?

MONGOLIA CHIAMA, ITALIA RISPONDE
Per onorare e commemorare un evento determinante della storia mongola, nel solco della più alta Tradizione. -ovvero il genere di notizie che i media nostrani tendono a ignorare.- Forse sono in pochi a sapere che la nazione mongola deve i suoi natali e la ratifica del suo atto di nascita a un accorto fautore dalle ascendenze italiane: Il brillante diplomatico Ivan Jakovlevich Korostovetz (1862-1933) assiduo promotore di una impresa di altri tempi- non è il solito modo di dire – visto che l’evento si colloca nel periodo della Russia Zarista di Nicola II. La nascita dell’odierna Mongolia vede in Ivan Jakovlevich Korostovetz il suo sagace e infaticabile propugnatore a livello politico, amministrativo e diplomatico. La sua firma infatti compare negli atti di formazione di quel Paese.


Dall’articolo di Pavel N. Dudin: “Il creatore della Mongolia e missione diplomatica russa a Urga nel 1912” (…) Il 30 novembre 2016 la Mongolia ha celebrato il 105° anniversario dell’indipendenza, una data significativa sia per il Paese stesso che per la Russia. La Mongolia non solo confina territorialmente con il nostro stato, ma anche, in termini di caratteristiche etno-culturali e confessionali, è imparentata con Buriazia, Kalmykia, Tuva…La politica dell’estremo oriente russo non era una priorità all’inizio del XX secolo, dando il via alla soluzione dei problemi europei e ha dato origine a una certa alienazione dei territori periferici, che alla fine è diventata una minaccia per l’economia nazionale e per la sicurezza. La Rivoluzione Xinhai del 1911-1912 e il crollo dell’Impero Qing contribuirono alla consapevolezza della possibilità di prendere piede nella regione e garantire interessi economici e geopolitici in molti modi. Non essendo interessato all’aggravarsi delle relazioni con la Cina, il governo russo attraverso il Ministero degli Affari Esteri ha affidato la soluzione dell’improvviso problema della dichiarazione di indipendenza della Mongolia Esterna a un diplomatico esperto, l’ex inviato alla corte di Qing – Ivan Korostovets. Tuttavia, un compito semplice a prima vista è stato complicato dal fatto che i rappresentanti della parte mongola…non si consideravano parte della Cina, mentre la Russia riconosceva per il suo vicino il principio dell’integrità territoriale. A sua volta, la Cina considerava le attività
della parte russa come un’interferenza nei suoi affari interni…A seguito di lunghi e difficili negoziati, Korostovetz persuase i mongoli a fare concessioni, i cinesi a non avviare operazioni militari e a evitare provocazioni e il ministero degli Esteri russo sull’importanza e il significato dell’operazione. L’esperienza, la determinazione, la forza d’animo e l’autorità hanno fornito il successo alla missione russa a Urga e la protezione dei confini orientali russi nei decenni successivi.”

E oggi? Carlo Gastone, il cui bisnonno era proprio quell’Ivan Jakovlevich Korostovetz è stato invitato a Ulan Bator dal professor Ookhnoi Batasikhan della Accademia delle Scienze della Mongolia e dall’Istituto di Studi Internazionali. Carlo Gastone dice: “Mio bisnonno è oggi considerato come il Creatore della Mongolia moderna. In sostanza nel 1912 fu lui a firmare il Trattato di Amicizia Russo-Mongolo ad Urgà oggi U.Bator che è considerato il primo documento legale della Sovranità della Mongolia.
Il mio è stato un viaggio nel Tempo e nello spazio, un viaggio nella Storia,” continua Carlo Gastone “sono andato a ritroso nel tempo per rintracciare le orme del mio avo anche in groppa a un cammello! Emozionante devo dire, un percorso all’insegna di una scoperta continua. L’accoglienza è stata calorosa e famigliare. Tutto questo insegna che le opere buone e giuste, anche se ardue da attuare, come in questo caso, non hanno confini né limiti. Il Tempo non le corrompe, anzi le esalta. La storia e la memoria degli uomini sono un libro aperto su cui si possono scrivere imprese come quella del bisnonno. Occorrono volontà e buoni propositi, requisiti che, ahimè, oggi non abbondano.”

Fra le personalità incontrate durante il viaggio voglio ricordare: Sua Eccellenza Lundeg Purevsuren oggi Rappresentante Permanente della Mongolia a Ginevra, il Direttore Dott. D. Zoolbo e Prof. O. Bat Saikhan dell’Istituto di Studi Internazionali dell’Accademia Mongola delle Scienze. Il professore Pavel N. Dudin, l’Ambasciatrice Italiana Dott.ssa Laura Bottà, Sua Eminenza il Card. Giorgio Marengo.

Scrive Nikolai Anatolievich Samoylov sul giornale 
Новейшая история России: “Ivan Yakovlevich Korostovetz (1862-1933) fu uno dei più importanti diplomatici russi della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo. Ha svolto un ruolo estremamente importante nello sviluppo delle relazioni russo-cinesi e un ruolo non meno significativo nello sviluppo dei legami russo-mongoli.”

Nelle immagini dal basso:
Ivan Jakovlevich Korostovetz
Carlo Gastone sul cammello
Incontro alla House of Russia

il Fantastico rimava con la realtà?

Gli appassionati di Fantascienza già lo conoscono, Max Gobbo non ha bisogno di molte presentazioni, essendo da anni uno dei protagonisti del Fantastico italiano e autore di opere pubblicate da prestigiosi editori. Qualche dettaglio sulla sua attività comunque non guasta: tra i suoi interessi principali: la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema. È autore di diversi romanzi e di racconti fantastici come Garibaldi e i mostri meccanici e la Maschera nera, che rileggono in chiave “retrofuturista” la storia d’Italia. Nel 2010 esordisce con Protocollo Genesi edito da Aracne editrice presentato al XXIII Salone internazionale del libro di Torino.
    Nel 2012 è finalista a Giallolatino col suo racconto La palude dei caimani.
    Nel 2013 ha presentato al festival internazionale di fantascienza, Sticcon di Bellaria il suo Capitan Acciaio supereroe d’Italia edito da Psiche e Aurora editore, con prefazione di Gianfranco de Turris.
    Maggio 2014, sulla prestigiosa rivista “Robot” (Delos Books) appare il suo racconto a tema steampunk, L’incontro di Teano.
    Luglio 2014, sulle pagine di “IF – Insolito e Fantastico” rivista edita da Solfanelli compare il suo Aeronavi Italiche.
  Nel 2015 un suo romanzo L’Occhio di Krishna, Bietti Editore.
    Collabora con diverse riviste: “Skan Amazing Magazine”, “Politicamente.net”, “Letteratura Horror”, e col quotidiano on line “Barbadillo”. È curatore della sezione narrativa per la rivista “Antarès”.

DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. ospita un suo racconto. Nell’edizione primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, cattura l’attenzione. Tema principale dell’edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna esaustiva di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo, Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.

Il racconto di Max Gobbo su DIMENSIONE COSMICA:

SEMBRA UN CONIGLIO 

Il deserto si dispiegava all’infinito come una coltre d’oro sotto il sole cocente. L’auto impolverata si fermò con un sussulto accanto alla locanda calcinata dai dardi di luce. Padre e figlio scesero impolverati pure loro, il padre tossì. Tutti e due si sedettero a un tavolo sgangherato senza dire una parola. Faceva molto caldo e l’aria riarsa seccava la gola e impastava la bocca di sabbia.  

Un cameriere con un grembiule sudicio e l’aria d’un gatto sornione si avvicinò e domandò: «Cerveza 
Il padre sorrise e fece cenno di sì con la testa riccioluta dai riflessi di cenere: 
«Dos Cervezas 
Il cameriere dall’aria sorniona sparì dietro una vecchia tenda di perline di legno ingiallite dal sole. 
Il figlio, poco più d’un ragazzo, si mise a fissare le montagne che davano a Ovest. 
«Quella è la Sierra Madre occidentale,» disse il padre indicando con un dito le cime bianche che riflettevano i raggi solari come piramidi di ghiaccio. 

«Perché siamo venuti in questo deserto?» domandò il figlio senza staccare lo sguardo dai monti. 
«Bisogna attraversarlo se vogliamo arrivare a Veracruz prima di notte.»  
Il cameriere ricomparve con un vassoio di latta con sopra un paio di boccali di birra con due dita di schiuma. Mise sul tavolo i sottobicchieri di cartone e vi posò i bicchieri con la birra. La schiuma colò dalla cima dei bicchieri e bagnò i sottobicchieri. 
«Ah, ci voleva proprio!» esclamò sorbendo la birra il padre mentre il cameriere tornava nella locanda di mattoni giallastri e scrostati. 
«E’ buona,» osservò il ragazzo con la bocca sporca di schiuma. Se la ripulì con la manica della camicia con un gesto goffo. 
«Sì, è fredda al punto giusto, la birra deve esserlo, soprattutto nel deserto.»  
«E’ la prima volta che bevo birra,» disse il figlio guardando la schiuma densa e bianca come neve che ondeggiava. «Non me lo hai mai permesso.» 
«Be’, che vuoi è roba da uomini.» 
«Allora sono un uomo?» 
«Lo sei, quasi.» 
«Perché bevo birra?» 
«Perché ora lo puoi fare.» 
Il ragazzo meditò su quelle parole, si sentiva confuso. Tutto di quel lungo viaggio lo aveva frastornato. 
«Pa’, non sembra anche a te che abbia la forma d’un coniglio?» 
«Che cosa?» 
«Quella grossa nuvola laggiù,» e indicò un fronte nuvoloso che s’arrampicava sulle vette montuose. 

Era una nube imponente arrossata come la fucina d’un fabbro dalla luce del tardo pomeriggio. Aveva proprio la forma d’un coniglio, o almeno così pareva. 
Il padre sogguardò distrattamente la nuvola, si grattò la barba di due giorni e sogghignò: 
«Mah, non saprei, a me sembra più un cane, però è la tua nuvola e se ci vedi un coniglio, allora è un coniglio.» 
«E’ la mia nuvola?»  
«Certo che lo è, se guardi bene ci vedrai scritto sopra il tuo nome.» 
Il ragazzo sorrise; ma poi tornò serio. Stava per aggiungere altro quando un rombo di tuono lo fece trasalire. Improvvisamente, proprio tra le orecchie del coniglio di vapore, saettò una scia di fuoco. 
«Che cos’è?» fece spalancando gli occhi. 
«Un razzo, direi,» rispose il padre aggrottando la fronte. 
«E’ il cargo del pomeriggio,» gracchiò con la sua voce nasale il cameriere ricomparendo da dietro la tenda. «Qui ne passano in continuazione. Oltre la Mesa, in direzione di Veracruz ci sono le piattaforme di lancio.» 
«Ne decollano molti?» domandò il figlio rimirando il cargo che scintillava ai raggi del sole come una punta di diamante che tagliava il cielo. 
«Ve l’ho detto señor, quei bolidi non la finiscono mai di decollare. Oggigiorno sembra che tutti muoiano dalla voglia d’andarsene sulla Luna,» rispose il cameriere e si ritirò nella locanda come una lumaca nel suo guscio. 
Il figlio fissò ancora per un poco il razzo finché questo divenne un punto indistinto nell’azzurro del cielo. Rimase solo una lunga scia biancastra a testimoniare il suo passaggio. 

« Pa’,» chiese mandando giù un altro sorso di birra, «farà male?»  
Il padre fissò il tavolo e con una mano rigirò il suo bicchiere, disse: 
«Ma no, è una cosa da nulla, vedrai.» 
«Sì, ma che mi faranno?» 
«Non vuoi aiutare la tua famiglia?» grugnì l’uomo sollevando lo sguardo severo, «non ti piacerebbe far star bene i tuoi fratelli e le tue sorelline più piccole?» 
«Sì, certo…» balbettò il ragazzo. 
«Senti un po’ figliolo,» disse il genitore rabbonendosi. «Se fossi più giovane l’avrei fatta io questa cosa, ma lo sai, quelli della mia età non li vogliono. Sono troppo vecchio per certe faccende.» 
«Dici che dopo posso compramela una macchina?» domandò il ragazzo tornando improvvisamente allegro. 
«Sicuro, potrai comprati un sacco di cose.» 
«E i miei fratelli avranno abiti nuovi?» 
«Ci puoi scommettere.» 
«E andranno a  scuola?» 
«Sì, se lo vorranno.» 
«E mangeremo tutti quegli hamburger con le cipolle, la salsa agrodolce, e poi anche il gelato alla fragola?» 
«Certamente e ci potrai mettere su in cima una montagna di panna fresca.» 
Il figlio non disse più niente, stava immaginandosi tutto quel gelato con la panna e via dicendo. Entrambi non parlarono per un bel po’. Un altro razzo prese il volo sfrecciando come un gigantesco fuoco d’artificio tra le nuvole. 

Il coniglio s’era ormai dissolto assumendo contorni vaghi e indistinti. Pareva un’immensa massa di cotone sparsa sulle cime delle montagne. 
Il ragazzo si riparò gli occhi con il palmo d’una mano per vedere il razzo che s’innalzava fiero verso le stelle.  
«Dove sarà diretto?» chiese infine riabbassando lo sguardo. 
Il padre piegò le labbra con fare incerto. 
«Hai sentito anche tu quello che ha detto il cameriere: probabilmente andrà sulla Luna o su una sua stazione orbitale. Chi può dirlo?» 
«Forse non lo sa nessuno,» disse il figlio. 
«Sì, che lo sanno,» rispose il padre. 
«No, che non lo sanno, nessuno lo sa mai.» 
«Che vuoi dire?» 
«Io non so dove sto andando.» 
«A Veracruz, te l’ho detto, no?» 
«Non so dove sia.» 
«Presto lo scoprirai. E’ un gran bel posto, non sei curioso?» 
«Non sono sicuro di volerlo sapere.» 
Il padre annuì con la testa, aveva capito che era inutile insistere.  
«Riguardo quella faccenda,» disse poggiando le mani grosse e nodose sul tavolo, «se non vuoi, non è che devi farlo per forza.» 
«Sentirò male?» 
«No, te l’ho già detto, non ti farà male. Quando dormi non senti niente.» 
«Come fai a saperlo?» 
«Lo so e basta.» 

Il figlio bevve un altro sorso di birra, quel sapore amarognolo non gli piaceva troppo, però era sempre una novità. Guardò la strada che s’allungava come un lungo serpente nel deserto messicano. A un certo punto, gli parve, che piegasse verso una collinetta riarsa. Pensò che forse il coniglio di prima ci si era nascosto dietro. I conigli alle volte lo fanno, si disse. 
«Credi che mi permetteranno di andare a caccia di conigli?» 
«Là non ci sono conigli,» rispose il padre un po’ seccato. 
«Metti che uno ce li porti?» 
«Allora, ma è solo un’ipotesi, li si potrebbe cacciare.»  
«Ne ero sicuro,» concluse il ragazzo tutto soddisfatto. «Allora si va?» 
Il padre sembrò non ascoltarlo. Per la prima volta da quando si erano fermati pareva dubbioso, esitante. Nella sua mente, forse, si agitavano strani pensieri. Improvvisamente aveva l’aria triste. Sollevò il mento ponendosi le mani sullo stomaco prominente. Con lo sguardo vagò su per le montagne che davano verso Veracruz, vaghi, indifferenti giganti di pietra, e sospirò. 
Il figlio si alzò dal tavolo, aveva finito la sua birra e adesso era ansioso di ripartire. 
«Pa’, che facciamo, andiamo?» 
«Ah sì, certo,» mormorò l’uomo riemergendo dai suoi pensieri con una strana luce negli occhi. «Però prima di rimetterci in viaggio dobbiamo assolutamente fare una cosa.» 
«Cosa, Pa’ ?» 
«Farci portare altre due birre gelate.» 

Poco dopo, quando la macchina s’era già allontanata tra le sabbie roventi lasciandosi una densa cortina di polvere alle spalle, il cameriere sbucò fuori dalla locanda per recuperare i bicchieri. 
Sul tavolo notò un volantino pubblicitario lasciato dai due clienti. Lo prese in mano e vi lesse: 
La compagnia estrattiva lunare cerca nuovi minatori. 
Requisito di base: essersi sottoposti alla procedura chirurgica di riadattamento organico alle condizioni ambientali del satellite.