scendeva la morte dal cielo

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

GIORNATA NONA

Può una storia apocrifa come quella che sto per raccontarvi essere considerata inverosimile e poi possibile? Temo di sì. Quanti  simboli e riferimenti essa riesuma e promuove per indurvi a considerarla autentica! La mia narrazione parla di un orrore antico che erompe in luoghi disparati, a distanza di anni, incarnato in una figura attraente e malvagia. Eventi tenuti a bada dalla memoria, che vorrebbe, invano, sbiadirli, condensati in vicende raccapriccianti, Il cui riscontro si conferma ma confuso e incerto. Così accade che disperazione e disfatta ribadiscano il passato, preconizzino il futuro, additando debolezze e miti infranti, lasciando libero campo alla pena. Questa, fra tante, è la storia di un incubo. Non sono del resto gli incubi, detentori di primordiali saggezze più reali del vero? Non è forse nel cuore del buio che ci destiamo di soprassalto, angosciati, stretti alla gola da una mano malefica?  è solo un sogno, è solo un sogno, ci affrettiamo a voler credere, stropicciando il cuscino. La mia storia è come uno di quei sogni, in cui i simboli appaiono, svaniscono come ombre cinesi.  Una vita parallela, che ospita brani di noi, sedimentati come ciottoli di fiume, in cui dovremmo cercare oltre le apparenze.  Invano. Perché proprio qui, passato, presente e futuro, spogliandosi di senso, diventano un tempo ellittico, inquinato dalla fantasia, come recita appunto la mia storia. Tra Monferrato, Londra, Kaffa sul Mar Nero, teatri di sconcertanti profezie, l’eco del crollo dell’Occidente, consecutivo a sovvertimenti inimmaginabili. La “collusione” delle mie visioni col nostro presente smarrisce.  Il primo virus, infatti,  non fu che un incidente, elaborato in laboratorio o meno non si sa, un fiammifero gettato nella polveriera del pianeta, già pronta al collasso per altri motivi. L’inizio della fine, incapaci di difesa contro la marea montante del “pericolo giallo”. 

                          LA MORTE DAL CIELO

La Cina dopo aver fiaccato e poi smembrato intere economie “amministrava”, se così posso dire, i Paesi del sud Europa e gli Stati Uniti con pugno fermo, il suo controllo, dopo aver ridotto a “province” dell’impero Stati sovrani e imparato a “usare” il virus Covid 19 come arma, era incontrastabile. Numerosi i campi di rieducazione chiamati dai cinesi “centri di formazione professionale volontaria” che nel passato avevano “ospitato” nello Xinjiang centinaia di migliaia di Uiguri. In Italia i centri erano insediati a Mori, in Trentino. Nella Penisola i cinesi si erano attestati, senza quasi colpo ferire, lungo la costa tirrenica, “punendo” immediatamente ogni presunta velleità di ribellione, rara peraltro. Incuriositi da quel secondo leader bianco vestito, seduto su un gran trono come  il loro ultimo imperatore, fra croci e incensi biascicando l’incomprensibile, gli concessero la libertà di languire in un convento-carcere. L’eredità di Pietro cessava con lui.

La più potente portaerei al mondo, la Shandong, fiore all’occhiello della Marina delle Forze Armate Popolari di Liberazione, con quasi duemila uomini,  attraversato lo stretto di Gibilterra e messasi alla fonda al porto di La Spezia, era venuta a riscuotere i crediti della politica di egemonia cinese nel Mediterraneo. A contrastarla, ma solo simbolicamente, si erano levati in volo, senza precise indicazioni, due aerei da combattimento Rafale d’Assault dalla base aerea 701 di Salon-de-Provence. Teatrale avvertimento di un fittizio asse franco-tedesco prossimo a dissolversi. Poi presero a giungere notizie frammentarie su orrori di armi immonde usate dai “gialli” per tenere a bada i territori soggiogati. Cosa c’era di vero?

Ottiglio Monferrato, 6 maggio 20…, giorno che mai dimenticherò.
Tutto il pomeriggio ero rimasto a bearmi davanti a un anfiteatro di verde di rara suggestione. Obelischi di campanili, anfratti impenetrabili, ombre di chiese, cascine sparse  su fazzoletti di verde, ocra, viola e giallo. Il bel suol d’Aleramo, cantato da Rambaldo di Vaqueiras mostrava un arazzo mosso dai tenui vapori della foschia serotina. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, teatro di fantastiche letture, a due passi da lì infatti si aprivano le grotte dei Saraceni con le loro turbinose leggende. Oltre il dosso le rovine di una casa di tufo, tra le cui mura, adolescente, ero stato a lungo ospite felice. Quanti anni erano trascorsi da allora! Le prime ombre già abbrunavano alcuni sentieri e lo sterrato, passando davanti alla cava di tufo. Complice di grati ricordi la profondità dell’azzurro sbiadente. Alle mie spalle la deliziosa chiesetta romanica di Moleto. Infine il piazzale davanti al bar all’aperto posto su un pendio.
Stavo per abbandonare quell’incanto quando un fatto singolare, che riconobbi decenni appresso profetico, catturò la mia attenzione. Un rumore dalle parti della cava, poi un clamore crescente, forse lo sferragliare di ruote sullo sterrato, irraggiungibile con lo sguardo, come di chi, si stesse avvicinando in tutta fretta. 

Oh! Mah! Sulla stradina un tiro a quattro apparve! Trascinava a folle velocità una carrozza. Quattro cavalli lucidi  e neri scalpitano e l’esperta mano del cocchiere li blocca appena in tempo prima di piombare nel dirupo. Sbalordito, fissavo la scena. L’attesa durò lunghi minuti durante i quali fui tentato di avvicinarmi alla carrozza, quando la portiera venne aperta dal cocchiere e una figura nascosta da un mantello con cappuccio, a nascondere i connotati, scese lentamente. S’incamminò senz’altro verso il parapetto prospiciente il belvedere, seguita dal cocchiere che già aveva tranquillizzato i quattro animali. Il suo braccio coperto fino alle dita dal mantello fece un gesto indicando una zona, mentre il cocchiere assentiva. Il mio stupore non mi impedì di rilevare dettagli, ma l’animo distillava angoscia. I cavalli impennacchiati di nero se ne stavano immobili come pietra, in attesa. Mi sforzavo invano di scoprire le fattezze della figura intabarrata. Poi sembrò che  la sagoma volesse passarmi accanto di proposito, e a due metri ne adocchiai finalmente il volto. Il sangue raggelò all’istante. 

Felice allora se, prima di quella vista, fossi stato accecato da spiedi roventi. Non so se femmina o maschio o quant’altro di diverso dai due generi, una bellezza sovrumana si celava sotto il mantello. Ma gli occhi! Oh gli occhi! Malvagi e perversi, gli occhi, infernali, crudeli e beffardi, maligni e atroci, suggerivano abominio e scelleratezza oltre l’immaginazione, essi mi colpirono come lame in pieno petto. Caddi all’indietro felice di morire all’istante per aver constatato che nature simili esistevano. Precipitai nel baratro che si apriva oltre il belvedere del bar. Non potrei giurarlo ma nel cadere mi parve di udire le note ossessive di una chitarra e una risata, sicuramente frutto del mio intendere sconvolto. Mi spiacque destarmi all’improvviso  perché la visione di quel volto infernale rimase nella veglia a tormentarmi, mentre, agitato, sapevo che mi avrebbe accompagnato per la vita.

Londra, luglio 20…
Stanco di aspettare invano postino e moglie col carrello della spesa uscii verso Sheperd Bush. Dai rari amici italiani nessuna notizia. Mi azzardai a salire sulla Circle line, poca gente con mascherine, visiere e tubi di disinfettante ai tornelli. La calca di un tempo un ricordo. Il periodico riapparire del morbo dopo anni dalla sua prima comparsa aveva stremato l’ottimismo dei metropolitani scompaginando economia e politica.  La Gran Bretagna non apparteneva più agli Inglesi: un padrone poco visibile giunto da lontano reggeva la sua sorte. Il morbo dipingeva la città coi toni lividi dello scoramento. Dopo lunghe tregue che facevano ben sperare il male tornava a colpire, improvviso, come una maledizione biblica. A Ruislip  in un ex parcheggio avevano appena “inaugurato” un cimitero per 1600 salme. Obitori e ospedali temporanei a forma di igloo, ovunque. Era la nuova Londra.

The famous London Underground logo advertises the Moorgate subway station. England.

Scesi a Moorgate come un tempo, per ammirare i fastosi edifici della City, caratteristici di un passato dissolto. Quel giorno una sorprendente novità: doppie transenne proprio all’inizio di Roman Wall verso le rovine di pietra del monastero-ricovero St Alphage. E a ogni dieci metri un agente armato. Davanti al vecchio pub Globe, sei blindati della polizia, due ambulanze e un camion tir candido senza insegne. Qualcosa di clamoroso doveva essere appena successo. Non un passante!  Nell’aria una indistinta minaccia. Girai l’angolo verso i bastioni del Barbican, alle spalle l’incisione murale a rammentare lo scoppio della prima bomba tedesca nel 1940. Non più nazisti ora, ma cinesi a presidiare la città, celati da amministratori-paravento indigeni. Proprio allora mi vennero in mente le parole dell’ex direttore dell’FBI che decine di anni prima aveva detto: “La Cina tenterà di imporsi come unica superpotenza dettando il suo volere al mondo con ogni mezzo”. Parole profetiche? Mezzi che in modo sinistro dovevano manifestarsi anche quel giorno in tutta la loro allucinante perversione.
Poco prima della loro rimozione, riuscii a osservarli, li stavano fotografando: detriti elettromeccanici sparsi davanti al pub Globe. Curioso e bizzarro. Pezzi di motori elettrici, con la matassa di filo di rame del rotore sbobinata, uno dei quali era finito su una siepe di bosso, pale di eliche mozzate, fusoliere contorte e poi cofani contenitori per il carico, sfasciati.
Il tutto suggeriva lo scontro accidentale di due droni a bassa quota. Ma non era tutto e non il peggio. Con ogni mezzo, ripensai. Accanto ai resti dei droni una decina di sacchi candidi, alcuni dei quali lacerati, a rivelare nefandi contenuti. Oltre l’incrocio, celati da un secondo cordone di incappucciati in tuta, cadaveri. Le tute stavano “maneggiando” le ultime salme spingendole dentro il tir refrigerato. La ruota di una lettiga si sfilò e il pesante sacco scivolò a terra, rabbrividii al rumore sordo dell’impatto del cadavere col selciato. Il mio stomaco in rivolta, polmoni e  orecchie, compresse, come capita in apnea.  Immaginai il ghigno dei poveri cadaveri che si beffavano di noi, non ancora come loro. Mi figurai le misere salme che guardavano me senza vedermi, col giallo delle cornee, bovine, oscene.
La memoria ora inorridisce. Dove? Chi? Quando? La galleria cieca, davanti a “Costa Café” sprangato da anni, lasciava intravvedere un varco. Vi entrai a fatica, oltrepassando una soglia non esclusivamente fisica. Subito avvertii un tempo alieno, anteriore, impadronirsi di me, avvolgendomi. Cosa ci faccio qua? Rabbrividii. Non ebbi tempo di riflettere che fui urtato con violenza: senza neppure accorgersi, un soldato con una gran fascina, di furia mi era venuto addosso.  Strepiti, ordini e un lezzo bestiale. Correvano stravolti, dal deposito dei carri allo spiazzo dove fiamme crepitavano. Quelli di fuori lanciavano, questi bruciavano. Cadaveri dal cielo e nel rogo, catapultati dentro le mura di Kaffa. Tramortito dal peso dei secoli e dall’orrore, abbassai lo sguardo, appoggiandomi per non cadere al muro di “Costa Café”. Indietreggiai, varcando ancora la soglia. La visione svanì. Libero! Libero? Era stato, nel
1347, a Kaffa, colonia genovese sulle rive del Mar Nero. Mongoli, capeggiati da Khan Ganī Bek, lanciavano cadaveri infetti all’interno delle mura, prima di levare l’assedio. Sono stato là dentro, io, e poi ora a Moorgate pensavo. Morti attraverso tempo e spazio. Allora la peste, ora il virus mortale. L’arma perfezionata dalla tecnologia moderna, assai più efficace delle catapulte mongole, droni assassini che seminavano morte, allora come ora! Non sapevo se avessi potuto respirare.

Per non cadere sedetti su un gran lastrone di pietra. I cinesi tenevano in scacco il mondo con piogge di cadaveri, liberando all’occorrenza nuvole di zanzare infettate dal virus. Quel giorno ne avevo avuto diretto riscontro. Il vaccino made in China funzionava sin dall’inizio per loro e solo per loro. Sciami di droni pronti a colpire per soffocare  qualsiasi tentativo di ribellione nelle regioni sotto il loro impero. Obitori e ospedali rifornivano abbondanza di “materiale”. Mi chiedevo dove fossero in realtà diretti quelli incidentati. 

Telefonai a casa. “Ma dove sei? Ma sai che ore sono? Vieni a casa, è tardi. Vieni a casa ti dico!” “Come?” La linea disturbata cadde. Sarei arrivato col buio, non me la sentivo di riprendere il tube. Per la prima volta constatai l’agonia della città sconsacrata, la più ricca del mondo un tempo, ora dimentica dell’antica frenesia; dietro le imposte di negozi sprangati da cui era sparita la merce, il suo illustre scheletro resisteva, carcassa ancora fastosa. Il notiziario della BBC delle venti avrebbe riportato un incidente nei pressi di Moorgate. Due droni GA da 880 libbre, ovvero con capacità totale di carico di 440 chili appartenenti a uno stormo diretto a Manchester si erano scontrati. Non si registravano vittime. Dei sacchi, caduti coi droni nemmeno un accenno. Chi stavano andando a punire? mi chiesi. La censura impediva di sapere il resto ... Con ogni mezzo e a costo zero, riflettei.

Dall’Italia le notizie dell’amico astigiano, brutte; dicevano di certi balordi che avevano fatto scoppiare petardi davanti a un posto di blocco a Moncalvo, i cinesi avevano subito reagito, pensando che fosse una bomba. “Di notte ne hanno lanciati non so quanti dal cielo.” Davanti al municipio di Bosco Marengo e anche a Moncalvo, pareva. “Chi li va a raccogliere? Son tutti infetti i morti. Chi li va a benedire adesso? Qualcuno dice che ha visto una carrozza e dei cavalli neri correre verso Moleto….”… Quei cavalli neri? …. pensai, atterrito.

Non so cosa potessi pretendere dalla notte incipiente dopo i fatti di Moorgate e le notizie dall’Italia. Se non avessi tentato di distrarmi in qualche modo altri turbamenti avrebbero compromesso il mio già precario equilibrio. Così chiesi a mia moglie di uscire. “Ma non sei stanco?” “No”. 

Vagammo senza meta dopo aver imboccato una laterale di Askew Road dove c’era l’insegna spenta di “Fish and Chips bar St. Elmo”. Sconvolto a dir poco. Non un’anima e subito, paurose, chiome mormoranti di alberi e muretti bassi che potevano occultare i volti dei cadaveri in agguato di Kaffa e Moorgate! La fantasia sovreccitata non mi risparmiava nulla. Non c’era tregua per me, ogni cosa, anche la più innocua, rimandava a quegli orrori.  Seguivo taciturno le orme di mia moglie. Più intenso, ora, corroborato da un filo di ragione, il primo sgomento alternato alla pioggia di cadaveri su Moleto, Moncalvo e Bosco Marengo, secondo le notizie dell’amico astigiano, l’orrore mi scoppiava dentro. 

Improvvisa e a tutto volume una musica che ben conoscevo, le cui note ossessive ora mi perseguitavano! È me che vogliono! mi hanno scoperto! ormai è chiaro! Questo pensai. Era il brano Asturias di Isaac Albéniz, famoso pezzo per chitarra. Tanto più sinistro in quanto amavo il suo ritmo incalzante, ma qui fuori posto e a quell’ora, e poi nessuna autoradio era nei pressi, di furia mi diressi verso casa. Braccato e delirante.  

Svoltammo in Wormholt Road, mia moglie evitò di chiedermi cosa mi avesse preso, sapendo quanto sono bizzarro. Poi a casa disse: “Non ne ho più”. “Fa niente, ci vorrebbe mezzo litro di Valium, non camomilla” risposi. Che un nuovo incubo mi attendesse al varco appena addormentato?
Dopo aver paventato il precipitare di eventi orrifici, aggrappato all’idea che tutto sarebbe svanito se solo avessi spalancato gli occhi, cado in un sonno penoso.  Non devo attendere a lungo:
L’invito online descrive l’evento come il rave party più fabulous della stagione. Rigorosamente vietato dalla legge e dal nuovo incalzare del virus;  è ancora buio quando a Ravenscourt mi infilo nel tube deserto della District. Scendo a Tower Hill mentre un’alba livida annuncia basse nuvolaglie in transito. Non occorre cercare il luogo, piantato davanti al nuovo ciarpame edilizio simboleggiato dall’ogiva di cristallo del Gherkin, che una fiumana gozzovigliante  si sta dirigendo verso un punto preciso. La massa urla, scalpita, impreca, premendo per infilarsi dentro le mura. Sgomento, mi accorgo che non riuscirei a risalirne il flusso, tanto è fitta. Sei Beefeater impacciati con le loro ridicole livree bordate d’oro e il cappello a catino, indirizzano gli scalmanati all’interno della Torre di Londra. Dal primo cortile nei cui pressi un tempo scivolavano nel Tamigi i resti dei condannati, le raffiche di una musica urtante, contro lo stomaco. La massa si arresta, ondeggia, riprende ebbra. Alcuni invitati, a torso nudo, con lo scalpo dei Mohicani azzurro e rosa scivolano a terra, fradici di droga e alcool, tre ragazze lucide di sudore si avvinghiano ai forsennati, ululando. La folla si scalmana. Le torce ai muri lasciano fitte zone di buio.
In direzione di un secondo cortile, oltre il fossato, è già iniziato uno strano esodo. Alla spicciolata e poi sempre più folta una processione si trascina, mesta. Gli stessi che poco prima facevano baldoria, a capo chino ora barcollano. Senza capire li seguo. Inciampo, calpestando qualcosa di elastico che emette un rantolo! Aguzzo la vista e l’orrore mi infilza. Sto costeggiando una fila di cadaveri e di corpi esalanti l’ultimo respiro. Nuovi infettati dal virus! Fuggo verso il primo cortile, in tempo per scorgere il maestro di cerimonie ergersi sul palco dell’immondo conclave, è lui, è lei, la sagoma intabarrata di Moleto, vomitata dal basso inferno. Ora dirige la danza macabra alla Torre. Mi vede l’infame, fa cenno a tre Beefeater che ora calpestano vivi e morti per agguantarmi. Imbocco un varco che si rivelerà cieco. Con le spalle al muro, il loro ghigno, stanno per afferrarmi. Grido da far spavento. Non è la prima volta. “Ma cos’è? ma sei impazzito?  ma cos’è stato?” “…Scusa, dormi, scusa” balbetto verso mia moglie tapina.
Ci sono orrori indicibili capaci di estendere  le loro propaggini alle ore diurne. Tre giorni appresso la mia angoscia distilla raccapriccio, poi orrore. Proprio davanti alla porta di casa la carrozza coi quattro neri cavalli, immobili come pietra, nessun altro in vista; è me che cerca, lo so, me che vuole, lo sento. 

Pubblicato da Homo Scrivens

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

c’era il fiume con i suoi misteri?

Racconto fantastico pubblicato da Dimensione Cosmica – autunno 2022

Al fiume andava il mercoledì, il suo giorno libero. Il lavoro dell’uomo era compilare bollette di spedizione in un’azienda di trasporti. Ancora due anni e poi sarebbe andato in pensione. Ogni volta che poteva se ne veniva in quel posto, con il motorino. Dieci chilometri col sole o col freddo per andare a pescare in un angolo di pietraia del fiume Sesia, da solo. Lanciava cibo per il brumeggio, gettava la lenza e si metteva a gambe larghe, ben piantato sui sassi, e aspettava.

Gli piaceva il posto, il sole e la riva opposta che si allargava in una ripida spiaggia dove la melma era di casa. Magari non succedeva nulla per un’ora intera, nemmeno uno strappo, niente. Ma non importava. Il galleggiante correva lontano, poi la corrente lo succhiava via e allora lui recuperava il filo e poi rilanciava, per ore a quel modo. Così il tempo passava immemore e senza scosse.

Sopra il fiume un’estesa, abbacinante pietraia, capace di raccogliere la piena di primavera sino al margine dei pioppi. Scendeva con leggero pendio, solcata dalla traccia delle gomme delle auto, fino a riva. Ci venivano a fare il picnic, resistendo alla vampa che batteva sullo spiazzo. Qualche ombrellone, l’odore acre e dolce di carne alla brace. Ma non quel giorno e non di mercoledì, comunque.
Il ponte reggeva strada e ferrovia. Corti treni di provincia trainati da motrici diesel passavano, lenti.
Il fiume scendeva in certi tratti profondo, franando ciottoli ed erbe nell’acqua pesante. Ogni tanto guizzava un pesce, piccoli salti d’argento, sopra il pelo dell’acqua. Più avanti un tronco calcinato, incagliato sul fondale dove il corso era più basso e la corrente meno forte.

L’uomo recuperò la lenza impigliata in una bava d’alga. Si spostò di un passo, fece sibilare di nuovo la lenza. Ne aveva pescati davvero pochi quel mercoledì. Li sentiva sbattere contro la parete della nassa, appena presi. Gli doleva il collo e fra un po’ sarebbe tornato a riva. E poi quel giorno non era in vena; il freddo dell’acqua gli stava andando su per la la schiena. Formiche di freddo dentro le cosce, attorno alle ossa. Rabbrividiva, infastidito da un disagio che non sapeva spiegare. Avrebbe fatto meglio a starsene a casa e poi era troppo il pesce che, inspiegabilmente, quel giorno stava rifiutando la lenza. Immerso fino all’inguine contava gli stralci di muschio che il fiume gli buttava contro la gomma dello stivale. No, non ci doveva venire quel giorno.
L’orizzonte era chiuso verso la direzione della corrente dai profili di alte bordure; alberi pallidi che facevano macchia alzandosi nella calura. 

L’auto sbucò dalla macchia ai lati del sentiero. Una Volvo grigio metallizzato scese il leggero pendio e andò a fermarsi a pochi passi dalla riva. Un uomo e una donna ancor giovani, il pescatore li vide scendere dall’auto.
Gonfiarono un poco il materassino e posero al fresco bottiglia e cocomero. Si erano messi proprio di fianco a lui, stando immerso nell’acqua e guardando di lato, poteva verificare ogni loro movimento.
La donna si stese subito a prendere il sole, in reggipetto rosso fuoco. Aveva gambe lunghe e bei fianchi. Ma il viso non riusciva a vederlo. Poggiò il capo sopra il cuscino del materassino, supina. L’uomo aprì il baule, estrasse una saponetta e una spugna poi andò alla riva a riempire una tanica d’acqua.
Arrivò una seconda macchina. Fece un largo giro sino al confine della pietraia, lì si fermò poi, in retromarcia, tornò indietro e scomparve. Il rauco grido del gabbiano graffiò lo smalto del cielo, e la nuvolaglia dileguò rivelando uno squarcio di sereno troppo pallido per dirsi azzurro. S’era alzato un po’ di vento e subito la zona morta del fiume si  increspò, vestendo lamine luccicanti d’acciaio.
Sull’altra sponda della gente pareva indicare un punto sulla stessa riva del pescatore. Stavano a guardare, si paravano gli occhi poi facevano gesti verso un punto.
L’uomo aveva insaponato cofano e portiere e già sudava. Anche lui guardò in quella direzione.
La donna in reggiseno rosso si era assopita; giaceva con la bocca semiaperta, il capo reclinato sul cuscino sgonfio. Così, come il sonno l’aveva colta il suo corpo non appariva granché attraente; il viso, leggermente insaccato, sembrava senza collo, rivolto alla radice del seno, come se cercasse di individuare qualcosa sulla pelle. Il pescatore udì l’uomo che diceva: “Elena, non stare così, ti fa male dormire al sole.” Le labbra della donna si mossero appena. Quelli sull’altra sponda, smesso di fare gesti, s’erano messi a sedere per terra. Erano arrivati altri curiosi. Ma la leggera ansa nascondeva la scena.
Gli sguardi del pescatore e dell’uomo che aveva appena insaponato capotte e vetri si volsero verso il crepitio di un piccolo fuoribordo levatosi da dietro la giuncaia; una barca stretta e lunga apparve.
“Cos’è successo laggiù? azzardò l’uomo della Volvo. Risposero.
“Come?” disse l’uomo. Il pescatore udì: “Troppo avanti è andata, non riescono a tirarla su”


Due uomini e un ragazzo immobile, inginocchiato sul fondo della barca proseguirono risalendo la debole corrente, bordeggiando verso l’auto impantanata. Il suo sguardo serio, indecifrabile non aveva smesso di fissare l’uomo con la tanica vuota in mano, che ora indugiava, incerto sul da farsi, quasi imbarazzato dallo sguardo del ragazzo.  Il pescatore bevve a lungo senza staccare lo sguardo dalla barca che filava via. Anche lui aveva notato il ragazzo il cui sguardo non era mai stato indirizzato a lui, ma esclusivamente all’uomo che lavava l’auto. Rimboccò gli stivali rovesciando la gomma fino a metà coscia e bevve ancora dalla borraccia foderata di stoffa. L’imbarcazione scomparve dietro la giuncaia per riapparire poco oltre. Il ragazzo impassibile, a scrutare l’uomo della Volvo, non si era mosso. Cercavano ancora i suoi occhi calmi e severi, come per comunicargli qualcosa, nostromo silenzioso, dallo sguardo magnetico inevitabile, messaggero di indicibili incognite, pareva fatto di pietra. L’uomo se n’era accorto e ora ricambiava apertamente il ragazzo che intuiva lo stesse ancora fissando, mentre la barca si allontanava.  Lucido di sudore, eppure improvvisamente infreddolito, e con un senso di inspiegabile disagio ora fattosi inquietudine.
“Che c’è?” disse la donna appena destata e ancora assopita. “mi gira la testa, ho sete”
“Niente” si affrettò a dire il compagno “stanno provando a tirarla su”
“Tirar su cosa?”
“…una macchina, ma da qui non riesci a vederla” E il pescatore al quale le parole arrivavano ovattate ma distinte udì ancora: “non stare più al sole, Elena, poi ti viene mal di testa, vuoi una fetta di cocomero?”
Non fece caso il pescatore, che stava pensando di raccogliere le sue cose e andarsene, al senso di apprensione con cui l’uomo aveva accompagnato le sue premure verso la donna. L’imbarcazione era sparita. 

C’era la luce del mezzogiorno e il calore veniva su alitando dalle pietre. Una leggera foschia vagava oltre la pioppaia e il tronco incagliato. La calura maturava, inarrestabile. L’aria mortificata pareva refluire in un’invisibile voragine. Solo l’acqua, costellata del bruno spessore da barbe d’alga, rimandava a una incerta idea di vita. Biancheggiava in qualche gorgo, sotto i fittoni del ponte, si appianava per tornare crespa e poi ancora liscia. Attirava a sé ogni tarassaco, trattenendo chissà quali misteri e fiori putridi sul fondo.

Le due nature rimanevano estranee, non assimilabili: aria e acqua, esponenti di immemori repulsioni. Ogni bava d’aria era scemata, dissipata dalle vipere di fuoco della pietraia, né meta alcuna per la verde caligine di muschio che vagava sul pelo della debole corrente. Il conflitto perdurava, patrocinato dalla febbre del cielo. Lotta invisibile e tenace lungo l’istmo e la penisola dei salici. Un altro gabbiano si librò, questa volta assai più vicino ai salici, mandando allarmate strida.
Un attento spettatore si sarebbe chiesto a che scopo voler rintracciare indizi di infauste metamorfosi. Per provare forse che sasso non era sasso e carne non era carne, per restituire ai sensi una natura tranquillizzante e plausibile, infine per non soccombere all’angoscia ridando alla mente indispensabili premesse per esistere? L’inevitabile non necessita di giustificazione.
La verosimiglianza di polle, gorghi, sterpi era in forse. Perplessità ignote affioravano ponendo dubbi sulla natura del fiume, sul gabbiano, la libellula, il tronco calcinato, il ragazzo sfinge,  messaggero del nulla.
Il fiume sigillava col suo cofano liquido melme impenetrabili, misteri.
Apparteneva a un altro pianeta quella terra; attraverso minimi indizi il luogo veniva dichiarandosi non conforme a natura. Qualcosa di iniquo stava maturando, oppresso dalla cappa di calore. Sulla riva, deserta di brezza, il nido di fuoco del mezzogiorno infieriva.
Gli alti steli del canneto ora nascondevano il pescatore che si era spostato. Senza essere scorto lui poteva ancora vedere e ascoltare. Il pescatore, nell’acqua a mezza gamba, stava di nuovo lanciando per aria vermi e pane. Eppure avrebbe voluto andarsene da un pezzo.

“Vieni anche tu,” gli giunsero le parole.

“Fin dove?” chiese la donna col reggiseno rosso.

“Fin là,” disse l’uomo indicando un punto del fiume, verso cui si era diretta l’imbarcazione.

“Ma è profondo,” disse la donna. Si misero a mezza coscia tenendosi per mano nell’acqua, badando a reggersi in piedi nella corrente. Appena sorridenti.

“Ti porta via la corrente,” disse lei, rabbrividendo. Avanzarono ancora sino a bagnare gli inguini. La spuma bianca barbugliava poco sotto i fittoni del ponte mutandosi poi in un verde liquore. Gli slip della donna si inzupparono del tutto, inscurendosi.
I due bagnanti rimanevano uno di fianco all’altra, immobili. Si potevano toccare e guardavano entrambi nella stessa direzione.
Il pescatore non li perdeva d’occhio. Poi l’uomo avvicinò il capo all’orecchio della donna; parve sussurrarle qualcosa, questa sembrò annuire. Restavano tranquilli guardando oltre il tronco incagliato.
Subito dopo quel movimento ebbe inizio la follia del pescatore.
Un’espressione di sbigottimento penoso fu il preludio a un orrore senza freno. Ora la prima espressione, ora la seconda e adesso è il panico che si stampa nel suo sangue e nell’intestino.
Uno di fianco all’altra, con le spalle girate alla riva i due bagnanti si immobilizzarono, statue bizzarre, piantate nella discesa dell’alveo.
Prima la donna poi l’uomo, progressivamente, irreparabilmente, iniziarono a mutare colore e il processo fu conseguente al luogo, all’estraneità dei pressi.
Divennero d’argento. Luccicarono. Pelle del volto, pelle del collo e del petto, poppe, costole, schiena, culo, pube, braccia, spalle e mani si inargentarono. Le statue di sasso mutarono in sagome d’argento.
Lentamente ma inesorabilmente, nell’infima schiuma nata dal muschio trasportato dall’acqua accade. Il pescatore ora  è solo occhi, esclusivamente orrore, soltanto coscienza infranta.

Le statue d’argento lo costringono a bere l’essenza del loro incubo, ed egli trangugiò l’indigesta visione. Era puro delirio, l’insania di un inferno meridiano. L’uomo si sente perduto, indifeso, assalito dai mille aghi del cervello. Avverte le membra diventare liquide come il fiume, infuocate come la pietra. Il sasso gli entra in bocca per quello che sta vedendo. I bagnanti si disfecero della consuetudine dei loro corpi.
Rinnegarono le sembianze, ancora per poco umane, fintantoché sagome oscene presero il sopravvento, sostituendosi alle primitive, senza grida, senza lamento. Trachea, polmoni, unghie, capelli, piedi e fianchi dei due si mutarono in pinne, code, squame e branchie. Occlusero la loro mente i due, rinnegando se stessi. Divennero pesci, infine, sparirono nella corrente. Guizzarono, poi, i due pesci. Per aria, scintillando, tuffandosi infine nel labirinto d’acqua, e scomparendo definitivamente alla vista.L’ambulanza giunse poco prima del buio, chiamata da gente che aveva visto un uomo starsene immobile, per ore, piantato nell’acqua, con le braccia abbandonate sui fianchi.
“Devi vederlo. Sembra scimunito!”
“Scherzi del sole” disse l’altro infermiere.
“Sembra perso. Dice che al mercoledì non verrà più a pescare, e gli vengono le lacrime e si impappina ogni volta che tenta di spiegare quello che ha visto. Ma sembra un ebete, scherzi del caldo, sì.”
Vennero col carro attrezzi a prelevare l’auto sul greto e fu aperta l’indagine sulla scomparsa di un uomo e una donna con una Volvo grigio metallizzato.

Edito da Dimensione Cosmica

c’era il Fantastico?

Si fa presto a dire fantastico! Un viaggio, un pranzo, un amico, possono riuscire fantastici, o un programma tv, come quello del 6 ottobre 1979 quando andò in onda la 1ª di dodici puntate di “Fantastico”, condotto da Loretta Goggi e Beppe Grillo con Heather Parisi. Quanta acqua sotto i ponti! dirai. Ma niente di tutto questo c’entra col nostro fantastico, e allora cosa? Il Fantastico è qui soggetto eminente di un’opera singolare che si legge come un romanzo d’avventura. Edita da Solfanelli in onore dei 60 anni di attività di Gianfranco de Turris, noto internazionalmente per essere uno dei più accreditati conoscitori di questa osmotica materia. Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti, alla seconda edizione riveduta e ampliata – e già si parla di una terza ristampa – tratta di un altro genere di Fantastico, che questa volta non rima con meraviglioso, favoloso, sensazionale o formidabile, ma col quotidiano. A definire il Fantastico in questa sede ci aiutano i giornalisti Louis Pauwels e Jacques Bergier, autori de Le Matin des magiciens, opera del ‘60. Ecco cosa dicono: “il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi…” Cose astruse? Affatto, perché ci toccano da vicino più di quanto pensi. Fantasy, fantascienza, fantastico, science fiction e via dicendo: solo alcuni dei termini descriventi una dimensione che fa dell’onirico e del virtuale una eventualità possibile; quanti milioni di persone si sono incollate agli schermi, soggiogate dalle vicende di Odissea 2001 nello spazio, Blade Runner, Interstellar, Ex Machina, famose pellicole cult che rivelano tuttavia inquietudini riflesse e prospettive potenziali di un futuro possibile: di intelligenza artificiale  si imbottiscono ormai anche i materassi. Punto di forza de Il Viaggiatore Immobile una serie di testimonianze autografe imperniate sulla figura di Gianfranco de Turris, che descrivono un’avventura pluridecennale di cui non si percepisce la fine, perché il fantastico nasce e vive con noi, inossidabile compagno di ogni vicenda umana, in forza del suo significato: rappresentare la parte più autentica che è sogno, desiderio dell’ulteriore, fuga dal quotidiano. 

Così la “rivelazione dell’inconsistenza ultima della realtàsi legge nel libro, fa pensare. Tolkien, Lovecraft, Evola, Meyrink, Jung, sono i nomi che più compaiono, in una fitta sequenza di amarcord talvolta accorati, fatti di date, incontri e scontri, ricordi di tumultuose avventure editoriali e filosofico letterarie; contigue alla politica, esse sono apportatrici di nuove idee e interpretazioni del quotidiano,  conquistate con fatica e lotta. Al centro di questa avventura c’è lui, il viaggiatore immobile, ovvero Gianfranco De Turris, amato e osannato, o vilipeso e osteggiato, sempre scomodo, perché granitico nelle sue idee “scomode”, ingombrante presenza fuori dal coro, sempre. Dai numerosi interventi offerti dall’opera, che si legge come un racconto avventuroso, uno significativo, quello di Chiara Nejrotti tratto dal capitolo Nostalgia del sacro e critica alla modernità, l’opera di J.R.R. Tolkien: Negli anni Settanta del secolo scorso Gianfranco de Turris, insieme a Sebastiano Fusco, propose un’interpretazione simbolica del fantastico che si dimostrò particolarmente feconda nell’indicare chiavi di lettura e significati, che probabilmente sarebbero rimasti nascosti secondo analisi meramente letterarie o di stampo strutturalistico, così in voga in quegli anni. Egli, infatti, indicò per primo in Italia il legame esistente tra mito, epica e letteratura fantastica, mostrando come quest’ultimafosse l’erede – più o meno consapevole – delle prime due e, per suo tramite, si manifestasse, nell’epoca del modernismo razionalista e del disincanto, una autentica e, a prima vista insospettata, “nostalgia del sacro…”

Nelle immagini: dipinto di Julius Evola e la copertina dell’opera.

il viaggiatore immobile

(…) “come tutti, combatto quotidianamente con la Realtà, che mi diventa sempre più insopportabile per come è stata resa artificiosamente complicata e totalmente inumana.”
GdT

Un’opera singolare edita da Solfanelli: Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti, è alla seconda edizione riveduta e ampliata, e già si parla di una terza ristampa. Qualche motivo deve pur esserci. Il gran nocchiere, suo principale attore, scrutatore degli abissi del reale, attende. Oggi c’è bonaccia. Non è fisico il suo sguardo ma interiore. Sulla fiancata del suo naviglio sta incisa la frase del Principe Guglielmo d’Orange il Taciturno «Non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare.» L’opera: una sorta di canto corale di chi ha conosciuto da vicino il personaggio. Ma anche pretesto per trattare sotto varie angolazioni e raccogliere testimonianze sul Fantastico. Qui risiede la sua originalità. Il suo protagonista, diretto verso il mundus imaginalis, ha “interpretato leggende narrate da geroglifici fatali”, attraversato i territori dell’angoscia e del rifiuto di Lovecraft, le imaginifiche lande di Tolkien dove nascono e muoiono regni e sogni. Il suo equipaggio: quelli che hanno lavorato con lui e per lui confidando ora che il nocchiero, come Ulisse, Giasone navighi ancora. A molti di loro egli ha impartito severe lezioni di ars scribendi che coniugano rigore, ricerca, ostinazione nel voler dare il meglio, insegnando la scoperta di segrete cose, celate alla vista dei più. Paola De Giorgi non teme di definire Il taciturno nocchiere col suo sigaro spento incollato all’angolo della bocca: “il nostro stregone del XXI secolo. Uno dei pochi ancora rimasti di una generazione di stregoni che avevano l’arduo compito di effettuare la grande ricerca…Un maestro ha l’arduo compito di indicare la strada, senza mai sostituirsi ai propri allievi.” Dal vasto arazzo alle sue spalle traspare anche l’ucronica visione della storia. Egli ha indicato il legame tra mito, epica e letteratura fantastica, rilevando insospettabili legami fra mondi antichi e l’oggi, basta che leggi l’ultimo capitolo di suo pugno, dove il Mito cede il passo al Fantasy. Il nostro ha lavorato per decenni con lo spirito dell’alchimista, la precisione dello scienziato. A lui è toccato dirimere, collegare e proporre nuove letture del “reale”, insospettabilmente collegato col fantastico. 

Il gran nocchiere si chiama GdT l’acronimo del suo nome: Gianfranco de Turris.

L’opera parla delle avventure dirette o riflesse che lo vedono coinvolto, ma non solo. Un romanzo? un saggio? un racconto? o una serie di testimonianze? Nulla di “solo” questo. Piuttosto un amarcord redatto da ex “alunni”, colleghi e amici. Il Viaggiatore Immobile si avvale di testimonianze autografe per descrivere un’avventura senza fine. Il nocchiere ha la smodata passione per la Fantascienza, onnivora medusa che si nutre di sogni e di reale. Gianfranco de Turris è definito da chi lo conosce bene: “mastro orologiaio, promotore, animatore culturale, ispiratore, mentore, benevolo demiurgo, critico letterario, intellettuale acuto e stregone…” per il momento basta. L’individuo non è incline al complimento. L’immobile viaggiatore GdT ha solcato mondi iperuranici, messo alla frusta e aiutato a dare il meglio di sé decine di masochisti aspiranti Lovecraft. Il “Diogene del fantastico” sta rimuginando se, per caso, avesse lasciato qualcosa di inesplorato che valga la pena di sondare. Marco Solfanelli, uno dei suoi editori preferiti ed amico afferma: “Ancora oggi, la nostra collaborazione prosegue. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è: Io con Gianfranco non ci discuto; faccio tutto quello che mi dice. La stima che provo nei suoi confronti mi fa accettare qualsiasi sua proposta editoriale, perché è per me garanzia di qualità…” GdT da decenni, è solito rilevare riscontri e legami, per scovare un indizio, il bandolo dell’intricata matassa che si chiama fantasy, termine così pregnante da scoraggiare la più caparbia volontà di interpretazione.

Il Viaggiatore Immobile è il diario di bordo di un’avventura ancora lontana dal concludersi, talvolta commovente, verso il “maestro, lo stregone, il mentore, infine il gentiluomo.” E intanto il Fantastico irrompe tra le pagine del volume, come mai prima lo abbiamo considerato. 
A descrivere Gianfranco de Turris ci pensa Errico Passaro: “(…) è il critico che questa Italia faziosa e provinciale non merita. Non è eccessivo definirlo il più grande di tutti i tempi, nel campo della critica fantastica…ovvero il più grande esperto del fantastico italiano.”

Nelle immagini: la copertina del libro, Gianfranco de Turris, un dipinto di Julius Evola.

Sotto il segno di Urania

Ci sono opere delle quali si apprezzano anche i punti e le virgole, è il caso de Sotto il segno di Urania  (per una storia dell’immaginario italiano), recita il sottotitolo, di Gianfranco de Turris. Il volume è stato appena pubblicato da Oaks editrice. L’opera sfugge a ogni seppur volenterosa classificazione, se mai ci fosse bisogno di inquadrarla in un genere letterario. Si legge come un romanzo, ma romanzo non è, e neppure saggio o antologia, quello che sicuramente fa è fornire gli strumenti a chi intenda inoltrarsi nell’intricato dedalo della genesi della fantascienza italiana. Sotto il segno di Urania  riserva sorprese a non finire, appassiona e intriga, attraverso la formidabile messe di nomi, date, riferimenti storici, sociali, politici e culturali. La sua equilibrata prosa trascina comunque spingendo a leggere ancora e ancora, fino all’appendice, anch’essa di rilievo. L’opera soddisfa gli appetiti degli appassionati di fantascienza e non. I primi scopriranno la ricchezza racchiusa in una miniera di informazioni e dati tutti godibili, i secondi saranno tentati di sondare l’universo fantastico italiano dischiuso dall’opera. Basta lasciarsi trasportare dal racconto (forse abbiamo trovato il termine appropriato) da rimandi, annotazioni e confronti per scoprire una verità parallela e affascinante. Sotto il segno di Urania suscita anche interrogativi: la davvero impressionante marea di titoli, autori, editori che si sono cimentati nell’offrire supporto e nutrimento alla nascita e al prodigioso sviluppo del fantastico italiano, conduce a un dubbio: e se la vera realtà, la più autentica, genuina e spontanea non fosse quella quotidiana, ma quella descritta nelle opere? onirica e imaginifica, grottesca e formidabile, spesso eccessiva e sbalorditiva proprio come il pensiero dei suoi creatori? La vera vita, insomma, sarebbe quella immaginata/immaginaria, col corredo dei suoi ambienti e invenzioni fantastiche, riedificata infine dalla Fantascienza. Ovvero la dimensione virtuale onirica che diventa autentica vita, in sostituzione di quella assai più piatta del quotidiano. Essa realizza il pensiero senza limite, dando corpo all’incubo o al sogno di un mondo migliore. 
Sarebbe poi eresia includere negli autori del fantastico quello più spettacolare e grande del mondo, interprete del fantastico allegorico teologico, ma sì, l’insuperato Dante Alighieri? A mio avviso scrittore fantastico per eccellenza. Una cosa appare fuori di dubbio: il termine “fantascienza” con la sua osmotica natura e le innumerevoli sfumature e contaminazioni appare sfuggente, pregnante, penetrabile al massimo grado; indica una morfologia concettuale e creativa vastissima e Gianfranco de Turris in questa opera, ce ne fornisce ampia dimostrazione. Qui di seguito alcuni suoi interventi più significativi: 

Pag. 144 “(…) La parabola di Luigi Capuana sembra quasi quella di Sir Arthur Conan Doyle che passò dal razionalismo assoluto di uno Sherlock Holmes allo spiritismo di cui divenne famoso sostenitore e divulgatore. Un aspetto dello scrittore siciliano che è come una filigrana sottotraccia della sua sterminata narrativa e che sarebbe il caso di riscoprire e studiare finalmente e in modo organico per fargli assumere il posto che gli compete alle origini del fantastico e della fantascienza italiani…”


Pag. 160: “(…) Verne e Salgari sono
riusciti a ben individuare quali sarebbero stati i lati negativi, gli errori del “mondo moderno”, del brave new world: il progresso vertiginoso che immaginavano ai loro tempi non avrebbe portato soltanto benefici materiali, ma anche effetti nefasti sull’umanità che non sarebbero riusciti a ripagare del tutto il benessere fisico. È una critica, anche abbastanza esplicita, a quella che oggi viene definita l’“americanizzazione del mondo”, non tanto in termini di super tecnologia alla portata di tutti, quanto di come l’American way of life ha profondamente modificato il nostro modo di vivere e di essere, quindi la nostra mentalità: ricerca disperata della prosperity a ogni costo, efficientismo, velocità, spasmodico arrivismo, commercializzazione di tutto (compresa l’istruzione e la cultura), ogni cosa ridotta a merce, declassamento dell’umanesimo, trionfo dello scientismo, dittatura delle banche e della finanza. È lo Specchio Oscuro della Modernità in cui noi oggi ci riflettiamo. Basti osservare l’umanità odierna che in tutto il mondo cammina, mangia, conversa, lavora, gioca con in mano cellulare e smartphone che guarda o maneggia incessantemente, always connected con tutto il mondo...Quello di Verne e Salgari era un mettere in guardia i contemporanei nei confronti di un futuro negativo che non volevano si realizzasse. Hanno fallito, non ci sono riusciti, si deve dire, ma così hanno scritto entrambi delle vere, piccole distopie anticipandone i dettami concettuali: società che paventavano e che noi viviamo in pieno sulla nostra pelle…”

Pag. 199: “ (…) L’Italia non ha una “tradizione” fantastica e fantascientifica vasta come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna: il “fantastico” si bloccò con l’Orlando furioso dell’Ariosto, e dal Cinquecento in poi praticamente nulla apparve, imperando l’Umanesimo prima, l’Illuminismo poi (le eccezioni– Carlo Gozzi, ad esempio – confermano la regola). Per di più, il Romanticismo italiano fu essenzialmente “politico” e “civile”, impegnato come fu nelle Guerre d’indipendenza…”

Dalle note dell’autore: “ (…) Uno dei temi che più mi ha interessato nella mia vita di critico e antologista è stato, dal momento in cui ne ho avuto consapevolezza, quello del nostro immaginario, delle origini e dello sviluppo nel corso dei decenni della narrativa fantascientifica, fantastica e orrorifica italiana, e che penso di essere stato uno dei primi, se non forse il primo, a indagare con una certa metodicità, insomma, la cosiddetta “protofantascienza”. 

nelle immagini: la copertina, l’autore Gianfranco de Turris, la città di Antonio Sant’Elia.

hai ricevuto la tua eredità?

Bando all’indugio, da un po’ volevo farlo. Eccoti un racconto che ho scritto, pubblicato sul numero tredici di DIMENSIONE COSMICA del 2021. Riguarda il ritrovamentio di un frammento di William Shakespeare che ho ereditato da mio zio. Buona lettura! Il suo titolo è:

A CHE PUNTO È LA NOTTE?

In molti se l’erano chiesto da dove arrivasse, come l’avevo ricevuto e perché. Sul perché non ci sono dubbi visto che era stato per espressa volontà dello zio. Oltre non si riesce a risalire se parliamo del come e da chi. Giornalisti, vicini di casa, amici, e infine i detectives della commissione d’inchiesta inglese dovettero rassegnarsi. Era tutto in regola. Mica l’avevo rubato e poi, come facevo a sapere che era così importante visto che era autentico. Ma quello l’ho saputo dopo. Dovettero accontentarsi delle evidenze e quelle risiedevano in una inequivoca volontà dello zio, espressa chiaramente nel suo testamento olografo. Quella cosa spettava a me di diritto. Ma andiamo per ordine per chiarire gli antefatti.
Andavamo a trovare gli zii ad agosto stipati in una Fiat 500 in quella generosa palude bonificata del ferrarese. Fratello di mia madre, lo zio conduceva un’attività di pollivendolo all’ingrosso, avendo cominciato subito dopo la guerra a vendere uova, in bicicletta, porta a porta, si era così conquistate simpatia e una fedele clientela. Mi piaceva la sua rauca risata, mi stava davvero simpatico gratificandomi nel permettermi di scivolargli addosso dopo averlo abbracciato. Un giorno lo sentii dire a mia madre: “Tuo figlio farà strada, è in gamba.” Piacevo a lui, e lui piaceva a me. Non si sa quanti dei nove anni di guerra avesse trascorso come prigioniero in uno dei duecento campi e fattorie allestiti dagli Inglesi, considerato con disprezzo uno wop, un guappo, lavorava in una fattoria, retribuito e mal tollerato dalla popolazione locale, cosa che non gli impedì, come a tanti italiani prigionieri, di entrare in affettuosa relazione col gentil sesso locale. Era così sbocciato del tenero fra lui e una maestrina inglese che frequentava il campo di prigionia, insomma lo zio non se l’era passata affatto male. Quella linguaccia di mia madre sosteneva che sarebbe stato meglio che l’avesse sposata la maestrina, invece di impalmare quella villana di mia zia, per la quale io nutrivo un sincero affetto. Ed ecco come misteriosamente il fato fa capolino bussando alla mia porta. Ci sono solo ipotesi su come mio zio divenne in possesso di quelle carte, antiche carte, come poi vedremo. Sarà stata la maestrina ad avergliele donate? Come pegno e a conferma del suo sentimento per lui? Può essere. Prove non ce ne sono, ma solo indizi di cui la commissione di inchiesta sulle opere trafugate dovette accontentarsi.  Non c’era dolo.  Si trattava di un dono passato di mano. Morendo, mio zio aveva lasciato alla moglie una redditizia attività di polleria all’ingrosso, a me vecchie scartoffie, sapendo che amavo gli scritti di ogni genere ed età. Bizzarro, vero? Se volete conferma potrete sempre chiederlo ai miei vicini di casa di via Perugino 27, a Milano, sempre se ne troverete qualcuno ancora vivo. Per diverso tempo ho avuto i giornalisti alla porta. Gli inquirenti inglesi dovettero arrendersi all’evidenza: era tutto regolare. Se era stata la sua prima fidanzata ad avergliele date quelle carte non è certo, e, se fosse stato così non si capiva comunque come lei le avesse ricevuto e da chi. Le ipotesi finivano con lei. Se ci sono troppe incognite la storia zoppica e questa addirittura è una storia che barcolla. Veniamo al sodo perché sarete stanchi di indovinare l’oggetto misterioso del contendere. Di cosa si trattava esattamente?  Di un manoscritto firmato. Poche pagine incartapecorite quasi illeggibili, solo la firma, spiccava netta e svolazzante a dichiarare che lo scritto era del grande William Shakespeare, come le indagini da me commissionate avrebbero poi confermato.
 

Il manoscritto inedito di William Shakespeare che qui presento in anteprima mondiale l’ho avuto in dono dal mio parente, posso provarlo anche a voi dopo averlo provato al mondo. I tre fogli recano una delle differenti firme del grande Bardo con cui egli era solito siglare i suoi lavori.
Mi sono infatti rivolto ad alcuni esperti di chiara fama nel settore dell’identificazione e verifica dell’autenticità di manoscritti e tutti hanno confermato senza ombra di dubbio l’autenticità e la paternità del documento: il breve dialogo dal senso compiuto potrebbe far parte di un lavoro sicuramente più complesso, andato disgraziatamente perduto, oppure potrebbe trattarsi di un dialogo poi cassato dallo stesso autore di un’opera nota, esso comunque appartiene alla penna geniale del drammaturgo inglese. Ed ecco il testo da me tradotto:

Primo personaggio: Uno spazio e un tempo senza tempo possono indurre pensieri che farebbero impallidire la mano e la tempra più salde. Se la mente non fosse pronta a rintuzzare i tentennamenti di un cuore vergine. Ahi noi.

Se il disegno voluto dal destino non giustificasse l’onere di una prova sanguinosa saremmo già dannati e le sole nostre intenzioni ci perderebbero per sempre, dannati. Affidiamoci ai pensieri che precedono l’azione e, anticipandola, ne istigano la necessaria violenza, per cui l’assiduità della mente, lontano dal venirne sconvolta, acquista nuovo vigore, rinnovato slancio, infine giustificazione.

Essa sarà pronta per il crimine più efferato solo se avrà trovato nella sua natura l’ispirazione necessaria, la persecuzione allora ci sembrerà un sentiero da percorrere obbligatoriamente, un calice dal contenuto indigesto e repellente ma indispensabile e la stessa morte ci parrà companatico intriso di tenebra se mai la tenebra può divenire nutrimento.

A che punto è la notte, Gaiard?

Secondo personaggio: Sono due tocchi prima che il gallo canti, Signore, secondo il tragitto eterno che il bianco astro impone a se stesso.

Primo personaggio: Ed è notte senza sonno codesta, Gaiard. La mente pare immagata e il nostro spirito sembra che debba difendersi dall’ insidiosa essenza della luce di luna.

Secondo personaggio: Da essa noi traiamo talvolta errato consiglio, talaltra l’ispirazione per le più nobili seppur ardite azioni. Dipende dall’inclinazione dell’astro e dalla disposizione del nostro animo, Signore.

Primo personaggio: Che vuoi dire Gaiard? Parla, su, compagno dai mille volti. Non è da te la reticenza, sebbene talvolta la tua lingua rassomigli per analogia di effetti prodotti, alla lama di un pugnale.

Secondo personaggio: Devo, Signore? Devo proprio?

Primo personaggio: È un ordine… parla onesto. 

(parlando fra sé): Costui ha più di un motivo e più di una disposizione d’animo per intuire il mio disegno. È certo che possa essermi d’aiuto.

Secondo personaggio: I libri aperti non potrebbero essere maestri più trasparenti. E il vostro volto, Signore, è un libro dalle pagine chiare che dissimulano i contorni dell’ordito come se una calligrafia incerta ne celasse volutamente il significato, senza tuttavia riuscire a coprire lo spessore del disegno.

Primo personaggio: Vedo che insisti. Avverto solo l’eco dei tuoi pensieri. Ciò che potrebbe nuocerti. L’ambiguità delle tue parole finirà per spingerti verso un contrapposto destino.

Essa ti può dannare indirizzandoti verso una morte senza scampo, come ti potrebbe esaltare rendendoti partecipe di ciò che le sorti di questa terra impongono. Il nostro giovane re ha doti, inclinazioni e temperamento che natura e stirpe gli hanno elargito, ma chi può dire per il bene stesso della nostra nazione che sia proprio lui il designato?

Una corona che vacilla sul capo di un ragazzo non è buon auspicio. E i nemici esterni ed interni di questa terra abbondano. Pur nella virtù manifesta delle sue doti il giovane sovrano è incline a seguire avvisi a noi ostili, contrari ai nostri piani e al corretto sviluppo della nazione. Mi intendi?

Secondo personaggio: Che volete dire, Signore?

Primo personaggio: Rifesser, Gilar e Gollanord non sono meno temibili per l’incolumità del giovane sovrano delle nostre stesse mire.

Ma egli è troppo inesperto per saper distinguere e crede che quelli gli siano amici e non vede il nido di serpi che la sua mano accarezza. E allora perché lasciare ad altri l’incombenza di risolvere e colmare una sovranità fittizia?

Occorre privarla di tutti quegli orpelli che la fanno meno grande. E nel farlo andare sino in fondo all’opera. Subito, ora, prima che altri agiscano.

Anticipando gli eventi e indirizzando a nostro favore un cambiamento che appare ormai inevitabile e di cui siamo disposti ad assumerci l’onere. Ora mi intendi?

Secondo personaggio: Una pagina aperta, chiara e distinta scritta da una calligrafia sicura e franca; non potrebbe essere più evidente il vostro disegno, Signore.

Primo personaggio: Hai dunque inteso chiaramente ciò che occorre fare per il bene della nostra nazione?

Secondo personaggio: Chiaro e distinto è il proponimento. Veraci le intenzioni. Gagliardi gli animi.

Primo personaggio: Lesto e sicuro ti guidi dunque l’intento di spegnere per sempre chi la morte spetta.

Il secondo personaggio vacilla e impallidisce. Si guarda attorno, nella sala deserta.

Secondo personaggio: Dite a me, Signore?… Poiché non vedo altri che possono intendere…

Primo personaggio: E a chi altri se non al falco a cui si è appena tolto il filo refe dagli occhi cuciti. A chi se non al fido cospiratore ed affermato veicolo di morte sicura?

Secondo personaggio: Io, magari… non…

Primo personaggio: Non sei stato tu, forse, quello che ha condotto all’inferno Sealand e non hai forse agito per il verso indicato dando la giusta credenziale di morte ai baroni di Lispret?

Secondo personaggio: Un re… tuttavia…

Primo personaggio: Indugi impropri che non ti fanno onore. Se l’onore deriva dal liberarsi di un ostacolo regolato dall’ingiusta legge del sangue e non del valore, che fa piccola la nostra nazione e mortifica il nostro orgoglio. Voli il tuo braccio. Sia saldo nell’intento. Non possiamo avere tutti i cento diavoli dell’inferno dalla nostra parte. Bisogna annullare ogni residua dannosa reticenza.

Ne bastano solo alcuni per quest’opera. Va’, colpisci. Subito dopo la riunione dei Pari. Domani, quando il giovane sovrano si sarà ritirato nelle sue stanze. Non attendere il suo sonno e grida subito: Congiura! All’erta! All’armi! Orrore!

Guida tu stesso l’inutile dolore degli astanti. Ma solo dopo aver gettato il pugnale lontano dal cadavere e aver imbrattato col suo sangue annerito il pavimento, in direzione della finestra.
Occorre dare subito l’idea di un assassino fuggito da poco. Hai inteso?

Secondo personaggio (parlando a se stesso): Che la bruna lama del pugnale mi sia sorella in quest’impresa. Anche se il gelo della morte che dovrò dispensare, per ora mi morde i garretti e le spalle.

I due personaggi escono di scena.

A riprova della paternità del frammento, perché ancora oggi anche a me la cosa appare incredibile, ecco quanto scrive il prof. John Moore, indiscussa autorità nel suo campo, in risposta a certi quesiti avanzati dal prof Henry Bryant.

Chiarissimo prof. Henry Bryant

Dipartimento ricerche linguistiche e di letteratura comparata 

Facoltà di lettere e filosofia dell’università di Manchester

Rispondo alla stimata sua del … dandole conferma di quanto da lei richiesto. Pur con la mancanza di elementi verificabili a cui riferirsi, il frammento in questione deve senza dubbio attribuirsi alla penna di William Shakespeare. 

Un personaggio di rango, diretto promotore di una congiura ordina a un suo sicario, o, per meglio dire usando un eufemismo: collaboratore, non estraneo a precedenti analoghe imprese,  la soppressione di un giovane re. Personaggio questi destinato purtroppo a rimanere incognito e sulla cui identità si possono avanzare solo ipotesi. Insieme al prof. Samuel Withers, esperto nell’identificazione di manoscritti e mio valido collaboratore, abbiamo elaborato alcune ipotesi di identificazione, ma ripeto, sono soltanto ipotesi senza suffragio, e tutte di grande suggestione. 

Le pagine potrebbero essere il frammento di un’opera perduta, il cui contenuto riconferma l’interesse di Shakespeare per l’analisi e l’approfondimento del potere in tutte le sue implicazioni,  e l’interesse per il tumultuoso clima politico inglese del XVII secolo. Il giovane re  in questione rammenta la figura del re Giovanni, dell’omonima opera, figlio di Enrico II e della duchessa Eleonora di Aquitania. Una trama forse ordita da lontano, da quel Filippo II di Francia il quale all’ambasceria da lui inviata a re Giovanni, contenente la richiesta di rinuncia al trono in favore di suo nipote Arturo, si vede ricevere un rifiuto. Era forse Roberto di Falconbridge che tramava nell’ombra e l’assassinio per ordine del re Filippo II? Nulla che ce lo confermi. 

Una seconda ipotesi parrebbe adombrare la figura di Enrico VI, giovane re, amante della pace. Una frase che compare nel frammento omonimo è rivelatrice: “Grave quando lo scettro è in mano a un fanciullo”. Era forse per questo che il re ragazzo riusciva scomodo? Allora chi poteva essere il mandante del suo assassinio se non il conte di Suffolk, anche se non v’è traccia alcuna a indicarcelo, e poi per le cose risapute appare altrimenti inverosimile l’ipotesi, considerata la sua intenzione di far sposare al giovane re la bella Margherita, della quale lo stesso Suffolk era invaghito, proprio per controllare meglio la condotta del giovane sovrano. 

Per quanto riguarda poi il tenore dello scritto, esso sembra rimandare ad alcuni dialoghi del Macbeth, ma Banquo ha uno spessore che l’esecutore del delitto non ha, non sembrando questi un vero soldato, com’era invece Banquo. Giungo così ad avanzare l’ipotesi che il frammento potrebbe essere qualche pagina di tragedie a noi note, un frammento successivamente stralciato dall’autore in fase di stesura definitiva, a corroborare l’idea c’è il senso compiuto del brano, che descrive una scena intera.  Emerge comunque la figura di un giovane sovrano, forse troppo fiducioso, sicuramente inesperto, da subito coinvolto nelle trame che detta il potere. 

Frammento sottratto al contesto delle opere note oppure pagine di un’opera andata perduta? Temo che non riusciremo a venirne a capo. L’unica cosa certa è l’attribuzione della paternità alla nostra gloria nazionale. Tre illustri grafologi del resto confermano l’autenticità della firma.
Gli ulteriori approfondimenti in corso e il raffronto di dialoghi analogici hanno una valenza strettamente linguistica e non recheranno modifiche all’attribuzione della paternità. Su come sia finito il manoscritto in un lascito testamentario italiano sono stati scritti fiumi di inchiostro, e non è di nostra pertinenza indagare oltre. 

Onorato del suo interesse la prego di accettare i segni della mia stima e la invito ad estendere i miei saluti al prof Thomas Higgins, mio indimenticato compagno a Cambridge ai gloriosi tempi che furono della nostra gioventù. Mi aspetto di vedere entrambi il giorno della conferenza stampa, che avrò cura di comunicarvi quanto prima. I media di tutto il mondo sono impazienti e ci chiedono conferme. Non bisogna farli aspettare troppo.

prof. John Moore

l’orrore puro si chiamava Lovecraft? (3)

Le infermitá, lo squilibrio mentale, infine la follia, prima del padre, poi della madre, che, a causa della sua crudele possessivitá, dopo la morte del marito, diceva al figliolo: Non andare a giocare con gli altri, sei troppo brutto, rimani a casa… Bizzarrie, costrizioni, sentimento materno distorto, fattori che devono aver agito sulla fantasia e sulla psiche del giovane e gracile Lovecraft, infatti precoci esaurimenti nervosi e un gran mal di testa lo perseguiteranno (dopo una rovinosa caduta da una impalcatura). Ci penseranno alcune sue zie a stargli vicino. Riusciva a sopravvivere con 15 dollari a settimana. Innamorato dell’antico, cordialmente aborriva il  mondo moderno, la civiltá della metropoli, meccanica e scientifica, “creazione mostruosa e artificiale” la definiva, “che non si tradurrá mai in arte o religione”. Era solito girare a piedi o in bicicletta. Si definiva ateo di ascendenza puritana. Lovecraft narrerá di incubi, e di horror declinandoli all’infinito; saranno questi i temi eminenti della sua imponente produzione letteraria, per certi versi ancora da vagliare e apprezzare appieno.

In ALLE MONTAGNE DELLA FOLLIA la mente di alcuni esploratori svanisce, annichilita e poi distrutta da innominabili orrori, prima temuti, poi manifesti in tutta la loro blasfema crudezza. Incubi paventati che si materializzano, andando ben oltre l’immaginato, con tutto l’orrore possibile, alla vista di atroci massacri, nelle lande remote di un antartico malvagio e pauroso.
Lovecraft scrive di incubi, attorno ci mette una cornice fitta di riferimenti scientifici, archeologici, inventando una vicenda capace di mutare l’improbabile e l’assurdo in verosimile fantastico, la sua abilitá risiede appunto nel farcelo credere, dosando sapientemente suspense e rivelazioni. Potrebbe essere “solo” la storia di un fumetto d’autore, invece la vicenda si iscrive a pieno titolo nella vera letteratura. Inventando una cittá abbandonata nell’abisso del tempo, una mostruosa, smisurata area geografica disertata da razze non umane. Prosa colta, talvolta ripetitiva, a tratti, arcaica, la sua. Sul diario di un membro della spedizione fa scrivere: È del tutto contro la mia volontá che mi accingo a spiegare i motivi per oppormi alla contemplata invasione dell’antartico, all’estesa ricerca di fossili, alla trivellazione su larga scala ed allo scioglimento di vaste zone della calotta ghiacciata. Sono anche riluttante a farlo perché i miei ammonimenti potrebbero riuscire vani. I fatti, come dovró rivelarli, saranno difficilmente creduti…Danforth era un accanito lettore di materiale bizzarro ed aveva parlato a lungo di Poe. Anch’io ero interessato a motivo dello scenario antartico dell’unico lungo racconto di Poe, il conturbante ed enigmatico Gordon Pym…Lake era stranamente convinto che la traccia fosse quella di qualche organismo voluminoso, sconosciuto e assolutamente inclassificcabile, di evoluzione considerevolmente avanzata…
Da quello spettacolo derivava un senso di stupenda segretezza e di potenziale rivelazione. Era come se queste cuspidi da incubo fungessero da piloni di uno spaventoso ingresso nelle sfere proibite dei sogni, nei complessi golfi del tempo remoto, dello spazio e dell’ultradimensionalitá. Non potevo trattenermi dal pensare che erano cose malvage, montagne della follia, i cui pendii piú lontani dominassero qualche maledetto abisso finale. Lo sfondo semilucido di nubi in fermento richiamava alla mente cose vaghe ed eteree, piú che ultraterrene spaziali, e ricordava in modo agghiacciante l’estrema lontananza, la separazione, la desolazione e la morte di ére infinite di questo inviolato e smisurato mondo australe.
..Il tremendo significato sta in ció che non ardimmo dire; e che non direi adesso se non sentissi il bisogno di mettere altri in guardia contro terrori inconcepibili…
La maestria di Lovecraft non risiede tanto nella descrizione dell’orrore di corpi straziati e smembrati di uomini e di cani da slitta, quanto nel suggerire, nel far temere e indurre a immaginare un orrore immanente, in agguato, un destino-passato ineludibile e tragico della spedizione in antartico.

Sono pagine magistrali anche perché dettagliate nella descrizione minuziosa e imaginifica di labirintiche caverne, costruzioni, edifici, architetture, scenografie in cui fanno da sfondo paesaggi aspri, desolati, maledetti, in cui hanno vissuto misteriosi esemplari biologici, infernali organismi archeani. Gli esploratori non si daranno pace sino a quando non si spiegheranno la presenza di quella strana “steatite verdastra” e di certe misteriose tracce triangolari. Ancora dal diario di bordo dello stesso esploratore si legge: È adesso mio terribile dovere ampliare quel racconto colmando le pietose omissioni con accenni a ció che veramente vedemmo nel misterioso mondo di lá dai monti, accenni alle rivelazioni che causarono il collasso nervoso di Danforth. …Da parte mia non posso che ripetere i suoi sconnessi bisbigli circa ció che aveva causato le sue urla, subito dopo quel reale e tangibile choc che subii io pure sussurratimi mentre l’aeroplano sorvolava quel passo torturato dal vento sulla via del ritorno. Questa sará la mia ultima parola. Se i segni evidenti di antichi orrori sopravvissuti di cui diró non saranno sufficienti a distogliere gli altri dall’interessarsi dell’Antartico piú interno, o per lo meno dal frugare troppo a fondo in quella landa di segreti proibiti e disumani e di desolazione immemorbile, non sará mia la responsabilitá di sciagure senza nome e forse senza limiti….Tutti i contorni, le dimensioni, le proporzioni, le decorazioni e le particolaritá costruttive di quel blasfemo ed arcaico monumento di pietra avevano qualcosa di vagamente ma profondamente disumano. Ci rendemmo conto presto, da ció che le sculture rivelavano, che quella mostruosa cittá era vecchi di milioni di anni…Ma chi aveva infine abitato la sterminata cittá estinta da tempo immemore?…I Grandi Esseri antichi dalla testa stellata filtrati giú dalle stelle quando la Terra era giovane, esseri la cui sostanza era il risultato di un’evoluzione estranea alla terra…esseri che attraversavano l’etere interstellare con l’aiuto di grandi ali membranose…

Niente male per essere “solo” un racconto di fanta horror. Con LE MONTAGNE DELLA FOLLIA Lovecraft sdogana definitivamente il genere fantastico horror facendogli assumere vera, autentica, e definitiva dignitá letteraria, se mai ce ne fosse stata necessitá, collocandosi degnamente fra i maestri del genere (pur con tutte le diverse connotazioni, variazioni sul tema e sfumature) come Ann Radcliffe, Mary Wollstonecraft Shelley, Fitz-James O’Brien, Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant.

I miei insopprimibili indizi di scrittura

c’era la fantascienza?

Nostra sorella Wikipedia scrive: La data di nascita della fantascienza è convenzionalmente indicata al 5 aprile del 1926, quando uscì negli Stati Uniti la prima rivista di fantascienza, Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback, ma al genere possono essere ascritte numerose opere precedenti, dal Frankenstein di Mary Shelley ai romanzi di Jules Verne e H. G. Wells. Quella di cui ti voglio accennare io è una storia flash, quasi un sottotitolo di un racconto che presumibilmente avrebbe potuto essere molto piú lungo. È una storia che ti lascia senza fiato, ma non solo. Riserva una sorpresa finale che ti lascia a bocca aperta. Un racconto di una pagina scarsa può entrare nella storia della letteratura, diventando un classico della narrativa? Certo che può. È LA SENTINELLA. Ogni volta che la leggiamo proviamo un brivido lungo la schiena. Storia lampo, che lascia attoniti, capace di trasferire sentimenti umani allo strano soldato preda dell’ansia. Il quale rivive per noi, in modo speculare, la sua lunga attesa in una terra desolata, ai margini della galassia. Due righe finali svelano la realtà rivelando nello stesso tempo la nostra condizione umana.

Lo strano soldato potrebbe essere un nostro combattente in una trincea della Prima Guerra mondiale. Uno che prova ansia, che soffre come tanti fantaccini spediti a sorvegliare il nemico, freddo, paura, uno come noi, insomma, psicologicamente simile all’umano. Soffre lo stesso stress dell’attesa di un nemico spietato e invisibile. E quindi:
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più…

Non voglio privarti della sbalorditiva sorpresa. Molti di voi già sapranno di cosa sto parlando. Tratto dall’ormai mitica edizione pubblicata da Einaudi. Le Meraviglie del Possibile – Antologia della Fantascienza a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero.
Il racconto fa parte, insieme a molti altri (tutti per diversi motivi eccezionali) scritti da diversi autori, di un unicum narrativo di grande rilievo che ancora oggi colpisce e ci fa riflettere per la sua carica dirompente, e coinvolgente, gli interrogativi sul nostro presente futuro e l’attinenza al quotidiano (per certi versi ancora piú fantastico del mondo ritratto della fantascienza tradizionale).
La fantascienza è il nostro presente. La fantascienza siamo noi, il vicino di casa, la vecchietta con le scarpe viola, la banalitá della nostra vita “insidiosamente e supinamente tecnologica” corrente, alla quale ci siamo assuefatti; il rapporto osmotico fra la nostra vita tradizionale e una possibile futuribile, attuale, o parallela diventa cosí evidente da risultare quasi banale, perché ovvio. Voglio metterti sul gusto senza svelarti come va a finire. Il brevissimo racconto flash di Frederic Brown comincia cosí:
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato.
Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super armi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. C’è anche un’edizione economica…si fa per dire.

Domanda: quando la fantascienza verrá introdotta nelle scuole come materia di insegnamento? Occorrerebbe prepararsi per il futuro, o, forse, per il passato. Lovecraft nel suo LE MONTAGNE DELLA FOLLIA, insegna.

I miei insopprimibili indizi di scrittura