Isole Salomone, fine ‘800

avventuraFra le mani abbiamo alcuni ritagli di giornale. Risalgono a luglio 2000.
Sono tratti da I VIAGGI DI REPUBBLICA. Dalle pagine ci sorride la faccia larga del mitico Jack London. Quel poderoso, fecondo avventuriero, spento da una overdose a quarant’anni, dopo aver goduto e provato tutto, ucciso da un male oscuro 

Sulle tracce di quel male, mi sono avventurato, senza troppi mezzi a disposizione. Rileggendo gli articoli a firma di Barbara Frandino, Gabriele Romagnoli e Vittorio Zucconi e sono partito alla ricerca (virtuale) di Jack, il figlio della foresta.

Compagni suoi nello stesso genere di viaggio c’erano Melville, Conrad, Faulkner, Hemingway e Kerouac, tutti e con diversi esiti di vita, alla ricerca del sogno americano infranto. Gli articoli di REPUBBLICA ci avvertono che la selvaggia e pericolosa bellezza dei luoghi incontrati da Jack non esiste più. Voli charter, fiori di plastica, sandali infradito e il più becero turismo hanno scalzato, guastandola per sempre, la primitiva e selvaggia avvenenza di quei luoghi.
Ma non è di questo che vogliamo parlare.

Fra le opere del grande Jack abbiamo scelto L’AVVENTURA, tradotto da ROSALIA GWIS ADAMI e pubblicato nel 1933 dalla EDITRICE BIETTI MILANO.
Guardate sulla copertina quanto costava. Le sue pagine non stanno più insieme e dovremmo farlo rilegare. Forse non è un’opera fra le più conosciute ma è significativa per la nostra ricerca.

Isole Salomone, fine ‘800: copra, noci di cocco, bastimenti che vanno e vengono sulla marina. E poi schiavi negri e teste mozze. E ancora la foresta che minaccia la piantagione e la vita dei bianchi. Una storia d’amore che si dipana col suo lieto fine. Lei è uno splendido e selvatico monello che dirà finalmente TI AMO al proprietario della piantagione, il quale ha appena finito un duello stendendo il corteggiatore molesto della sua bella. Ci sono tutti gli ingredienti per trarre in inganno, per confondere l’opera con un banale romanzo di avventura al tropico, seppur avvincente.

L’AVVENTURA si legge tutto d’un fiato, le sue immagini si incollano alla memoria. Ma è solo verso l’epilogo che emerge, in tutta la sua insidia, la presenza dell’incubo, e, almeno così crediamo, si palesa il vero protagonista della vicenda.

Andiamo per ordine. Lei: Fa innamorare quasi tutti; bellissima e fuori dell’ordinario; ha il carattere di un moccioso insopportabile, ma è adorabile. Basterebbero gelosie mal trattenute e l’amore dell’uomo che cresce fino a scoppiare. Basterebbe il riso cristallino di una ribelle ritrosa che va in giro armata di colt a canna lunga e carabina, per poi tuffarsi a sfidare i pescicani in compagnia dei suoi amici tahitiani. Basterebbe questo a rendere emozionante il racconto.
Lui: Ci casca come una pera cotta. Si innamora di quel monello adorabile. Il bianco, padrone della terra. Duro, ma solo per necessità. Innamorato di quella dea bizzosa, naufragata col suo equipaggio di tahitiani, sulla spiaggia della piantagione. Lo vogliamo chiamare destino? Protagonista saggio, un poco opaco, ma equilibrato anche quando deve fronteggiare torme di cannibali decisi a staccargli la testa.

I negri. Materiale pseudo umano, utilizzato per lavorare nella piantagione. Poco raccomandabili, scarti viventi con cui usare il pugno di ferro. Molti dei loro consimili sono dediti a una caccia un po’ particolare. Cercano gente cui staccare la testa per farla seccare.

E poi la Foresta

Entro cui si annidano spiriti malefici, torbide pulsioni e gli indizi di cui siamo venuti in cerca. La vera protagonista del romanzo è lei, la foresta. Opprimente, impenetrabile, paurosa. Nelle sue viscere accadono fatti innominabili. La foresta non è quella di Faulkner, dello struggente racconto LA GRANDE FORESTA. Non è quel luogo primevo e incantato in cui furoreggia il grande orso. Questa è la foresta maledetta del tropico. Una minacciosa landa malsana ai cui margini l’uomo bianco risica il suo guadagno, minacciato dalla dissenteria e morendo per le ferite di lance avvelenate. La foresta di Jack London, almeno quella che si trova ne L’AVVENTURA è il luogo orrido in cui si viene inghiottiti, senza scampo. Un posto in cui la natura sembra congiurare contro la vita. E in questa sede che i nostri indizi diventano prova, secondo le stesse parole di Jack. La foresta si trasforma in simbolo, forza oscura, paurosa, assimilabile a certi tratti dell’essenza umana, della mente che si ammala, impazzisce e muore. Una natura che corrisponde ai suoi figli, cacciatori di teste e cannibali; questo ha saputo partorire. Ma non solo, la foresta, vista come presenza invasiva, assume una valenza metafisica. Essa coincide con alcune zone oscure e insondabili della nostra psiche. Diventa tormento.  La jungla alla fine è parte assimilabile della natura umana.

A pagina 278 leggiamo:

Felci e muschi e una miriade di altri parassiti si aggrovigliavano con fungose vegetazioni dai gai colori che pareva cercassero lo spazio per vivere, e la stessa atmosfera pareva invasa da altri rampicanti aerei, leggeri.

Orchidee tinte d’oro pallido o di vermiglio spalancavano i loro fiori malsani ai raggi del sole che penetrava qua e là dalla volta massiccia. Era la foresta misteriosa e perversa, l’ossario del silenzio, dove nulla si muoveva all’infuori di alcuni strani augelli, la cui stranezza rendeva più profondo il mistero: senza il minimo cinguettio dileguavano via, sulle ali silenziose, screziate di morbosi colori, simili alle orchidee, fiori volanti di malattia e di corruzione.

La foresta coi suoi fiori volanti di malattia e di corruzione faceva forse parte della forza oscura che minacciò e uccise il mitico Jack?

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