sei stato nella grande Foresta?

Qualcuno dei miei lettori sì. Si chiama Patrizia Casta e mi ha scritto una mail INCORAGGIANTE. Se i premi sono di questo genere, basati sul consenso o anche sulla critica costruttiva sono i benvenuti! Ecco cosa scrive Patrizia: Devo dirti grazie per gli sforzi che hai fatto scrivendo questo blog sito.
Spero anche di verificare ancora la stessa alta qualità dei contenuti in futuro. Per la verità, le tue abilità di scrittura creativa
mi hanno ispirato e incoraggiato per ottenere il mio blog ora;) Maramures
Grazie, buona giornata!

La recensione a cui si riferiva Patrizia e che qui ripropongo fa parte di un’avventura a cui mi sono dedicato prima del mio esilio. Prendevo un libro, lo leggevo un paio di volte per vedere se avevo capito bne e lo commentavo. Non era un vera recensione, perche non sono un recensore vero, anche perche l’opera non ne aveva piu bisogno, ma un modo per entrare nel vivo di argomenti che mi appassionavano, del passato e del presente, ma anche del futuro. E duunque: Ti ricordi di Catilina? Ti ricordi di Faulkner? Ti ricordi della Via del Tabacco di Caldwell corrisponderanno ad altrettanti post ai quali mi aspetto che tu risponda. Se vai a\ spulciare nel blog le troverai risalgono al 2013, un secolo fa!

La Grande Foresta

C’è un libro che nonmi stanco di rileggere, è La Grande Foresta. Ogni volta le sue pagine mi suggeriscono un fascino diverso, nuove avvincenti emozioni, mondi scomparsi, inghiottiti dal progresso febbrile e dai singulti di una nazione neonata.

Parliamo del rito della caccia, simile a un’iniziazione sacrale, il gusto del sangue versato dal gigantesco Ben, del silenzio, dell’attesa, della paura e della fatica. Quel libro l’ha scritto un gigante della letteratura. Il grande William Faulkner.  Spiega Mario Materassi, nella bella edizione di Adelphi  che LA GRANDE FORESTA, magistralmente tradotto da Roberto Serra, è un capolavoro poco conosciuto.  Frettolosamente catalogato dalla critica come storia di caccia, così scrissero Michael Millagate, Malcom Cowley, Martin Pedersen. La morte di un orso e l’agonia di un cane, entrambe speciali, entrambe simboli di una terra mitica, destinata a essere inghiottita da pionieri ruggenti di scrittura protestante che bevevano whisky bollito e che trascinavano nella foresta infestata la moglie gravida.

Il selvaggio Algonchino e Choctaw e Natchez. Mille spagnoli e poi francesi e inglesi, poi ancora spagnoli e ancora inglesi. Definitivamente.Vengono alla memoria le carabine arrugginite e i negri pieni di sonno, i tronchi morti della foresta, l’uomo che mangiava formiche e ancora l’orso mitico, il vecchio Ben, al di fuori di ogni regola e che viveva col piombo in corpo di cento pallottole e poi l’indiano Chickasaw col cuore di un cavallo e la mente di un bambino, con occhi piccoli e duri come bottoni e poi cacciatori, abili nel sopravvivere, e i cani e l’orso e il cervo messi fianco a fianco, trascinati dalla foresta. Nella ricca terra alluvionale nera e profonda che faceva crescere il cotone più alto della testa di un uomo a cavallo. Un’unica rete commerciale avrebbe presto venato come una ragnatela il subcontinente abbracciato dal Mississipi, cancellando per sempre la foresta.

Un finto libro sulla caccia che invece scava nella geografia, nel mito di una natura ancestrale, prossima a dissolversi. È un racconto senza trame dichiarate ma con una solida ossatura e una trama interiore precisa e incalzante. Abbiamo trovato LA GRANDE FORESTA ogni volta diverso, suggestivo, profondo, in quella prosa modernamente sacra di Faulkner. Ci piace pensare che il fascino ipnotico e intriso di analitico rigore narrativo farà guadagnare nuovi lettori al libro.

Se vuoi leggere qualcosa che ho scritto io

c’era la grande foresta?

La Grande Foresta

C’è un libro che non mi stanco di rileggere, è La Grande Foresta. Ogni volta le sue pagine suggeriscono un fascino diverso, nuove avvincenti emozioni, mondi scomparsi, inghiottiti dal progresso febbrile e dai singulti di una nazione neonata.

Parliamo del rito della caccia, simile a un’iniziazione sacrale, il gusto del sangue versato dal gigantesco Ben, del silenzio, dell’attesa, della paura e della fatica. Quel libro l’ha scritto un gigante della letteratura. Il grande William Faulkner.  Spiega Mario Materassi, nella bella edizione di Adelphi  che LA GRANDE FORESTA, magistralmente tradotto da Roberto Serra, è un capolavoro poco conosciuto.  Frettolosamente catalogato dalla critica come storia di caccia, così scrissero Michael Millagate, Malcom Cowley, Martin Pedersen. La morte di un orso e l’agonia di un cane, entrambe speciali, entrambe simboli di una terra mitica, destinata a essere inghiottita da pionieri ruggenti di scrittura protestante che bevevano whisky bollito e che trascinavano nella foresta infestata la moglie gravida.

Il selvaggio Algonchino e Choctaw e Natchez. Mille spagnoli e poi francesi e inglesi, poi ancora spagnoli e ancora inglesi. Definitivamente.Vengono alla memoria le carabine arrugginite e i negri pieni di sonno, i tronchi morti della foresta, l’uomo che mangiava formiche e ancora l’orso mitico, il vecchio Ben, al di fuori di ogni regola e che viveva col piombo in corpo di cento pallottole e poi l’indiano Chickasaw col cuore di un cavallo e la mente di un bambino, con occhi piccoli e duri come bottoni e poi cacciatori, abili nel sopravvivere, e i cani e l’orso e il cervo messi fianco a fianco, trascinati dalla foresta. Nella ricca terra alluvionale nera e profonda che faceva crescere il cotone più alto della testa di un uomo a cavallo. Un’unica rete commerciale avrebbe presto venato come una ragnatela il subcontinente abbracciato dal Mississipi, cancellando per sempre la foresta.

Un finto libro sulla caccia che invece scava nella geografia, nel mito di una natura ancestrale, prossima a dissolversi. È un racconto senza trame dichiarate ma con una solida ossatura e una trama interiore precisa e incalzante. Ho trovato LA GRANDE FORESTA ogni volta diverso, suggestivo, profondo, in quella prosa modernamente piana, ripetitiva quanto mai, e anticipatrice di Faulkner. Mi piace pensare che il fascino ipnotico e intriso di analitico rigore narrativo farà guadagnare nuovi lettori al libro. A volte certi capolavori, come questo, non se ne conosce il motivo, giacciono inesplorati, lontani dal clamore pubblicitario e dalla gogna o enfasi della critica letteraria, per rilasciare molto tempo dopo un fascino e una crudezza fuori del comune. È il caso de LA GRANDE FORESTA. Sorta di denuncia radicale, attualissima, e condanna senza remissione contro la furia cieca e devastatrice del progresso che sopprimerà creature uniche come il cane, l’orso primordiale e il loro ambiente. Decisamente attuale, non ti pare?


Il mio insopprimibile desiderio di scrivere su Amazon.

e cosa scriveva il mitico Jack?

L’AVVENTURA  Isole Salomone, fine ‘800. Fra le mani ho alcuni ritagli di giornale. Risalgono a luglio 2000. Sono tratti da I VIAGGI DI REPUBBLICA. Dalle pagine mi sorride la faccia larga del mitico Jack London. Quel poderoso, fecondo fragile avventuriero, spento da una overdose a quarant’anni, dopo aver goduto e provato tutto, ucciso da un male oscuro.  Sulle tracce di quel male mi sono incamminato, senza troppi mezzi a disposizione, a inseguire quella lontana avventura.

Ho letto e riletto gli articoli a firma di Barbara Frandino, Gabriele Romagnoli e Vittorio Zucconi e infine son partito alla ricerca di Jack, il figlio della foresta. Compagni suoi nello stesso genere di viaggio c’erano Melville, Conrad, Faulkner, Hemingway e Kerouac, tutti e con diversi esiti di vita, alla ricerca del sogno americano infranto. Gli articoli di REPUBBLICA ti avvertono che la selvaggia e pericolosa bellezza dei luoghi incontrati da Jack non esiste più. Voli charter, fiori di plastica, sandali infradito e il più becero turismo charter hanno scalzato, guastandola per sempre, la primitiva e selvaggia avvenenza di quei luoghi. Ma non è di questo che voglio parlarti. Fra le opere del grande Jack ho scelto L’AVVENTURA, tradotto da ROSALIA GWIS ADAMI e pubblicato nel 1933 dalla EDITRICE BIETTI MILANO. Costava tre lire e mezzo!
Le sue pagine non stanno più insieme e dovrei farlo rilegare. Ma mi costerebbe un sacco. Forse non è un’opera fra le più conosciute ma è significativa per la mia ricerca. Isole Salomone, fine ‘800: copra, noci di cocco, bastimenti che vanno e vengono sulla marina. E poi schiavi negri e teste mozze. E ancora la foresta che minaccia la piantagione e la vita dei bianchi. Una storia d’amore che si dipana col suo lieto fine.

Lei è uno splendido e selvatico monello che dirà finalmente TI AMO al proprietario della piantagione, il quale ha appena finito un duello stendendo a terra il corteggiatore molesto della sua bella. Ci sono tutti gli ingredienti per trarre in inganno, per confondere l’opera con un banale romanzo di avventura al tropico, seppur avvincente avventura. L’AVVENTURA si legge tutto d’un fiato e le immagini si incollano alla memoria. Ma è solo verso l’epilogo che emerge, in tutta la sua insidia, la presenza dell’incubo, e, almeno così credo io, si palesa il vero protagonista della vicenda. Ma andiamo per ordine.
Lei: fa innamorare a prima vista quasi tutti; bellissima e fuori dell’ordinario; ha il carattere di un moccioso insopportabile e ribelle, ma è adorabile. Basterebbero gelosie mal trattenute e l’amore dell’uomo che cresce fino a scoppiare. Basterebbe il riso cristallino di una ribelle ritrosa che va in giro armata di colt a canna lunga e carabina, per poi tuffarsi a sfidare i pescicani in compagnia dei suoi amici tahitiani.
Basterebbe questo a rendere emozionante il racconto. Ma occorre attendere.
Lui: Ci casca come una pera cotta. Si innamora di quella monella adorabile. Il bianco, padrone della terra. Duro, ma solo per necessità. Innamorato di quella dea bizzosa, naufragata col suo equipaggio di tahitiani, sulla spiaggia della piantagione. Lo vogliamo chiamare destino? Protagonista saggio, un poco opaco, ma equilibrato anche quando deve fronteggiare torme di cannibali decisi a staccargli la testa.
I negri: Materiale pseudo umano, utilizzato per lavorare nella piantagione. Poco raccomandabili, scarti umani con cui usare il pugno di ferro. Molti dei loro consimili sono dediti a una caccia un po’ particolare. Cercano gente cui staccare la testa per farla seccare. E poi la Foresta. Entro cui si annidano spiriti malefici, torbide pulsioni e gli indizi di cui sono venuto in cerca. La vera protagonista del romanzo è lei, la foresta. Opprimente, impenetrabile, paurosa e repellente, infida succursale dell’inferno in terra. Nelle sue viscere accadono fatti innominabili. La foresta non è quella di Faulkner, dello struggente racconto LA GRANDE FORESTA. Non è quel luogo primevo e incantato in cui primeggia il grande e mitico orso. Questa è la foresta maledetta del tropico. Una minacciosa landa malsana ai cui margini l’uomo bianco risica il suo guadagno, minacciato dalla dissenteria e morendo per le ferite di lance avvelenate.

La foresta di Jack London, almeno quella che si trova ne L’Avventura, è il luogo orrido in cui si viene inghiottiti, senza scampo. Un posto in cui la natura sembra congiurare contro la vita. E in questa sede che i miei indizi diventano prova, secondo le stesse parole di Jack London. La foresta si trasforma in simbolo, forza oscura, paurosa, assimilabile a certi tratti dell’essenza umana, della mente che si ammala e muore. Una natura che corrisponde ai suoi figli, cacciatori di teste e cannibali; questo ha saputo partorire la foresta. Ma non solo, la foresta, vista come presenza invasiva, assume una valenza metafisica. Essa coincide con alcune zone oscure e insondabili della nostra psiche. Diventa tormento, condanna. La jungla alla fine è parte assimilabile della natura umana. A pagina 278 leggo: Felci e muschi e una miriade di altri parassiti si aggrovigliavano con fungose vegetazioni dai gai colori che pareva cercassero lo spazio per vivere, e la stessa atmosfera pareva invasa da altri rampicanti aerei, leggeri. Orchidee tinte d’oro pallido o di vermiglio spalancavano i loro fiori malsani ai raggi del sole che penetrava qua e là dalla volta massiccia. Era la foresta misteriosa e perversa, l’ossario del silenzio, dove nulla si muoveva all’infuori di alcuni strani augelli, la cui stranezza rendeva più profondo il mistero: senza il minimo cinguettio dileguavano via, sulle ali silenziose, screziate di morbosi colori, simili alle orchidee, fiori volanti di malattia e di corruzione. La foresta coi suoi fiori volanti di malattia e di corruzione faceva forse parte della forza oscura che minacciò e infine uccise il mitico Jack? Se vuoi dire la tua….

scriveva il grande Conrad?

CUORE DI TENEBRA. Sostengo da sempre che alcuni libri andrebbero resi obbligatori nelle nostre scuole, come sussidiari, testi su cui far riflettere i nostri giovani , fra questi e alcuni altri, insieme a Memorie di un pazzo di Flaubert, di Nutrimenti terrestri di Gide e Verso Damasco di Strindberg c’è anche Cuore di tenebra di Conrad insieme a Orgoglio tricolore, del mio amico Lorenzo Fornaca.

Propaggini del tempo, residui fossili del nostro passato e della nostra mente. Sono le foreste del primordio, ultime aree momentaneamente risparmiate dagli obbrobri della devastante civilizzazione. Perché ne parliamo? Sono bastati un’ottantina di anni, forse meno, un niente se confrontato alla storia, e tutto è successo, irreversibilmente, irreparabilmente. La capacità di incidere e stravolgere il territorio, di deviare fiumi, cementificare, creare immense alienanti periferie metropolitane ha stravolto e inquinato ambienti e habitat che perduravano da millenni, e con essi la loro storia, cioè la nostra. Non diciamo nulla di nuovo, parole superflue perché inutili. Ne siamo coscienti. Agli spazi metropolitani, alle aree occupate dall’industrializzazione, sottratte alla selva, alla stessa montagna, con l’edificazione di villini a schiera e di condomini, ai paesaggi pesantemente modificati e sfigurati, per ottemperare alle esigenze, spesso fittizie, dello sviluppo, si oppongono ancora alcune (non molte) aree off limits dove la natura detta legge ristabilendo rapporti psichici, fisici e primordiali con abitanti e visitatori. È il caso della foresta fluviale del Congo, in CUORE DI TENEBRA, quella di Conrad, per intenderci o quella delle Isole Salomone di Jack London ne L’AVVENTURA e, ancorché devastata dai coloni inglesi, spagnoli, e francesi sul Mississipi, quella di Faulkner ne LA GRANDE FORESTA, in cui viveva l’orso primordiale, per far posto alla ferrovia e alla città. Sono le foreste tenebrose, territori impraticabili, ma indispensabili oggi, e che ci diamo briga di distruggere (guarda quello che sta succedendo in Amazzonia) insegne di una sovranità che è pericoloso guastare. La foresta (quella foresta) è lo spazio in cui l’uomo perde il senso del tempo, paesaggio onirico eppure reale, pericoloso e talvolta letale.

Un paesaggio che è prima di tutto dentro l’uomo. E perciò insopprimibile. Quindi stiamo uccidendo pezzi di noi. Basta leggere alcuni brani da CUORE DI TENEBRA per capire di cosa stiamo parlando: a pagina 55: dell’edizione FELTRINELLI economica con prefazione di Anna del Bo Boffino: …Le grandi mura della vegetazione (una massa esuberante ed intrecciata di tronchi, rami, fronde, festoni, immobile sotto la luce lunare) erano simili all’invasione riottosa della vita silente, ad un’ondata rotolante di piante ammucchiate, un’ondata che si gonfiava… a pagina 60: Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel corso del tempo, ritornare ai primordi, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un fiume, un deserto, un silenzio solenne, una foresta impenetrabile… a pagina 63: Eravamo come i visitatori di una terra preistorica su una terra che aveva gli aspetti di un pianeta sconosciuto. Avremmo potuto immaginare di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta che bisognava sottomettere a costo di grandi dolori e di fatiche a pagina 116: a proposito del misterioso Kurtz: La sua era una tenebra impenetrabile. E io lo guardavo così come si potrebbe guardare, giù, un uomo che giace nel fondo di un precipizio dove non brilla mai il sole…(come una foresta?) Ricettacolo di paure, aggiungiamo noi, inquietudini, insondabili misteri, fascinosa e impenetrabile in cui l’uomo smarrisce valori e misura. Ma quella foresta è nell’uomo e dell’uomo. È in questo tipo di ambiente che si dissolvono le smanie civilizzatrici, ultimo brandello di natura che esige rispetto, incute timore, respingendo l’intruso. La foresta selvaggia sta alla metastasi urbana come l’antidoto sta al male incurabile, viva, terribile e potente, luogo d’elezione perché non coercibile e cieca. Non madre, anzi, creatrice di incubi, non culla, tuttavia capace di suscitare riflessioni sull’aberrante devastazione cui l’uomo ha dovuto ricorrere per realizzare i suoi ultimi sogni. Foreste africane, asiatiche, dell’Amazzonia, di sperdute isole, ultimi spazi sovrani dove la mente può soccombere, ma in cui può comunque riconoscersi accettando la superiorità della natura. London, Faulkner, Conrad ne avevano rilevato il potere, l’avevano capito, trascrivendone la forza simbolica e il mistero, riuscendo a farne percepire la vita oscura, insopprimibile, perché dentro l’esperienza umana (oggi addormentata) che in essa si celava. Se ti ricordi di cosa scriveva Conrad allora non tutto è definitivamente perduto. Se mi dici cosa ne pensi te ne sono grato.

Isole Salomone, fine ‘800

avventuraFra le mani abbiamo alcuni ritagli di giornale. Risalgono a luglio 2000.
Sono tratti da I VIAGGI DI REPUBBLICA. Dalle pagine ci sorride la faccia larga del mitico Jack London. Quel poderoso, fecondo avventuriero, spento da una overdose a quarant’anni, dopo aver goduto e provato tutto, ucciso da un male oscuro 

Sulle tracce di quel male, mi sono avventurato, senza troppi mezzi a disposizione. Rileggendo gli articoli a firma di Barbara Frandino, Gabriele Romagnoli e Vittorio Zucconi e sono partito alla ricerca (virtuale) di Jack, il figlio della foresta.

Compagni suoi nello stesso genere di viaggio c’erano Melville, Conrad, Faulkner, Hemingway e Kerouac, tutti e con diversi esiti di vita, alla ricerca del sogno americano infranto. Gli articoli di REPUBBLICA ci avvertono che la selvaggia e pericolosa bellezza dei luoghi incontrati da Jack non esiste più. Voli charter, fiori di plastica, sandali infradito e il più becero turismo hanno scalzato, guastandola per sempre, la primitiva e selvaggia avvenenza di quei luoghi.
Ma non è di questo che vogliamo parlare.

Fra le opere del grande Jack abbiamo scelto L’AVVENTURA, tradotto da ROSALIA GWIS ADAMI e pubblicato nel 1933 dalla EDITRICE BIETTI MILANO.
Guardate sulla copertina quanto costava. Le sue pagine non stanno più insieme e dovremmo farlo rilegare. Forse non è un’opera fra le più conosciute ma è significativa per la nostra ricerca.

Isole Salomone, fine ‘800: copra, noci di cocco, bastimenti che vanno e vengono sulla marina. E poi schiavi negri e teste mozze. E ancora la foresta che minaccia la piantagione e la vita dei bianchi. Una storia d’amore che si dipana col suo lieto fine. Lei è uno splendido e selvatico monello che dirà finalmente TI AMO al proprietario della piantagione, il quale ha appena finito un duello stendendo il corteggiatore molesto della sua bella. Ci sono tutti gli ingredienti per trarre in inganno, per confondere l’opera con un banale romanzo di avventura al tropico, seppur avvincente.

L’AVVENTURA si legge tutto d’un fiato, le sue immagini si incollano alla memoria. Ma è solo verso l’epilogo che emerge, in tutta la sua insidia, la presenza dell’incubo, e, almeno così crediamo, si palesa il vero protagonista della vicenda.

Andiamo per ordine. Lei: Fa innamorare quasi tutti; bellissima e fuori dell’ordinario; ha il carattere di un moccioso insopportabile, ma è adorabile. Basterebbero gelosie mal trattenute e l’amore dell’uomo che cresce fino a scoppiare. Basterebbe il riso cristallino di una ribelle ritrosa che va in giro armata di colt a canna lunga e carabina, per poi tuffarsi a sfidare i pescicani in compagnia dei suoi amici tahitiani. Basterebbe questo a rendere emozionante il racconto.
Lui: Ci casca come una pera cotta. Si innamora di quel monello adorabile. Il bianco, padrone della terra. Duro, ma solo per necessità. Innamorato di quella dea bizzosa, naufragata col suo equipaggio di tahitiani, sulla spiaggia della piantagione. Lo vogliamo chiamare destino? Protagonista saggio, un poco opaco, ma equilibrato anche quando deve fronteggiare torme di cannibali decisi a staccargli la testa.

I negri. Materiale pseudo umano, utilizzato per lavorare nella piantagione. Poco raccomandabili, scarti viventi con cui usare il pugno di ferro. Molti dei loro consimili sono dediti a una caccia un po’ particolare. Cercano gente cui staccare la testa per farla seccare.

E poi la Foresta

Entro cui si annidano spiriti malefici, torbide pulsioni e gli indizi di cui siamo venuti in cerca. La vera protagonista del romanzo è lei, la foresta. Opprimente, impenetrabile, paurosa. Nelle sue viscere accadono fatti innominabili. La foresta non è quella di Faulkner, dello struggente racconto LA GRANDE FORESTA. Non è quel luogo primevo e incantato in cui furoreggia il grande orso. Questa è la foresta maledetta del tropico. Una minacciosa landa malsana ai cui margini l’uomo bianco risica il suo guadagno, minacciato dalla dissenteria e morendo per le ferite di lance avvelenate. La foresta di Jack London, almeno quella che si trova ne L’AVVENTURA è il luogo orrido in cui si viene inghiottiti, senza scampo. Un posto in cui la natura sembra congiurare contro la vita. E in questa sede che i nostri indizi diventano prova, secondo le stesse parole di Jack. La foresta si trasforma in simbolo, forza oscura, paurosa, assimilabile a certi tratti dell’essenza umana, della mente che si ammala, impazzisce e muore. Una natura che corrisponde ai suoi figli, cacciatori di teste e cannibali; questo ha saputo partorire. Ma non solo, la foresta, vista come presenza invasiva, assume una valenza metafisica. Essa coincide con alcune zone oscure e insondabili della nostra psiche. Diventa tormento.  La jungla alla fine è parte assimilabile della natura umana.

A pagina 278 leggiamo:

Felci e muschi e una miriade di altri parassiti si aggrovigliavano con fungose vegetazioni dai gai colori che pareva cercassero lo spazio per vivere, e la stessa atmosfera pareva invasa da altri rampicanti aerei, leggeri.

Orchidee tinte d’oro pallido o di vermiglio spalancavano i loro fiori malsani ai raggi del sole che penetrava qua e là dalla volta massiccia. Era la foresta misteriosa e perversa, l’ossario del silenzio, dove nulla si muoveva all’infuori di alcuni strani augelli, la cui stranezza rendeva più profondo il mistero: senza il minimo cinguettio dileguavano via, sulle ali silenziose, screziate di morbosi colori, simili alle orchidee, fiori volanti di malattia e di corruzione.

La foresta coi suoi fiori volanti di malattia e di corruzione faceva forse parte della forza oscura che minacciò e uccise il mitico Jack?

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