scendeva la morte dal cielo

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

GIORNATA NONA

Può una storia apocrifa come quella che sto per raccontarvi essere considerata inverosimile e poi possibile? Temo di sì. Quanti  simboli e riferimenti essa riesuma e promuove per indurvi a considerarla autentica! La mia narrazione parla di un orrore antico che erompe in luoghi disparati, a distanza di anni, incarnato in una figura attraente e malvagia. Eventi tenuti a bada dalla memoria, che vorrebbe, invano, sbiadirli, condensati in vicende raccapriccianti, Il cui riscontro si conferma ma confuso e incerto. Così accade che disperazione e disfatta ribadiscano il passato, preconizzino il futuro, additando debolezze e miti infranti, lasciando libero campo alla pena. Questa, fra tante, è la storia di un incubo. Non sono del resto gli incubi, detentori di primordiali saggezze più reali del vero? Non è forse nel cuore del buio che ci destiamo di soprassalto, angosciati, stretti alla gola da una mano malefica?  è solo un sogno, è solo un sogno, ci affrettiamo a voler credere, stropicciando il cuscino. La mia storia è come uno di quei sogni, in cui i simboli appaiono, svaniscono come ombre cinesi.  Una vita parallela, che ospita brani di noi, sedimentati come ciottoli di fiume, in cui dovremmo cercare oltre le apparenze.  Invano. Perché proprio qui, passato, presente e futuro, spogliandosi di senso, diventano un tempo ellittico, inquinato dalla fantasia, come recita appunto la mia storia. Tra Monferrato, Londra, Kaffa sul Mar Nero, teatri di sconcertanti profezie, l’eco del crollo dell’Occidente, consecutivo a sovvertimenti inimmaginabili. La “collusione” delle mie visioni col nostro presente smarrisce.  Il primo virus, infatti,  non fu che un incidente, elaborato in laboratorio o meno non si sa, un fiammifero gettato nella polveriera del pianeta, già pronta al collasso per altri motivi. L’inizio della fine, incapaci di difesa contro la marea montante del “pericolo giallo”. 

                          LA MORTE DAL CIELO

La Cina dopo aver fiaccato e poi smembrato intere economie “amministrava”, se così posso dire, i Paesi del sud Europa e gli Stati Uniti con pugno fermo, il suo controllo, dopo aver ridotto a “province” dell’impero Stati sovrani e imparato a “usare” il virus Covid 19 come arma, era incontrastabile. Numerosi i campi di rieducazione chiamati dai cinesi “centri di formazione professionale volontaria” che nel passato avevano “ospitato” nello Xinjiang centinaia di migliaia di Uiguri. In Italia i centri erano insediati a Mori, in Trentino. Nella Penisola i cinesi si erano attestati, senza quasi colpo ferire, lungo la costa tirrenica, “punendo” immediatamente ogni presunta velleità di ribellione, rara peraltro. Incuriositi da quel secondo leader bianco vestito, seduto su un gran trono come  il loro ultimo imperatore, fra croci e incensi biascicando l’incomprensibile, gli concessero la libertà di languire in un convento-carcere. L’eredità di Pietro cessava con lui.

La più potente portaerei al mondo, la Shandong, fiore all’occhiello della Marina delle Forze Armate Popolari di Liberazione, con quasi duemila uomini,  attraversato lo stretto di Gibilterra e messasi alla fonda al porto di La Spezia, era venuta a riscuotere i crediti della politica di egemonia cinese nel Mediterraneo. A contrastarla, ma solo simbolicamente, si erano levati in volo, senza precise indicazioni, due aerei da combattimento Rafale d’Assault dalla base aerea 701 di Salon-de-Provence. Teatrale avvertimento di un fittizio asse franco-tedesco prossimo a dissolversi. Poi presero a giungere notizie frammentarie su orrori di armi immonde usate dai “gialli” per tenere a bada i territori soggiogati. Cosa c’era di vero?

Ottiglio Monferrato, 6 maggio 20…, giorno che mai dimenticherò.
Tutto il pomeriggio ero rimasto a bearmi davanti a un anfiteatro di verde di rara suggestione. Obelischi di campanili, anfratti impenetrabili, ombre di chiese, cascine sparse  su fazzoletti di verde, ocra, viola e giallo. Il bel suol d’Aleramo, cantato da Rambaldo di Vaqueiras mostrava un arazzo mosso dai tenui vapori della foschia serotina. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, teatro di fantastiche letture, a due passi da lì infatti si aprivano le grotte dei Saraceni con le loro turbinose leggende. Oltre il dosso le rovine di una casa di tufo, tra le cui mura, adolescente, ero stato a lungo ospite felice. Quanti anni erano trascorsi da allora! Le prime ombre già abbrunavano alcuni sentieri e lo sterrato, passando davanti alla cava di tufo. Complice di grati ricordi la profondità dell’azzurro sbiadente. Alle mie spalle la deliziosa chiesetta romanica di Moleto. Infine il piazzale davanti al bar all’aperto posto su un pendio.
Stavo per abbandonare quell’incanto quando un fatto singolare, che riconobbi decenni appresso profetico, catturò la mia attenzione. Un rumore dalle parti della cava, poi un clamore crescente, forse lo sferragliare di ruote sullo sterrato, irraggiungibile con lo sguardo, come di chi, si stesse avvicinando in tutta fretta. 

Oh! Mah! Sulla stradina un tiro a quattro apparve! Trascinava a folle velocità una carrozza. Quattro cavalli lucidi  e neri scalpitano e l’esperta mano del cocchiere li blocca appena in tempo prima di piombare nel dirupo. Sbalordito, fissavo la scena. L’attesa durò lunghi minuti durante i quali fui tentato di avvicinarmi alla carrozza, quando la portiera venne aperta dal cocchiere e una figura nascosta da un mantello con cappuccio, a nascondere i connotati, scese lentamente. S’incamminò senz’altro verso il parapetto prospiciente il belvedere, seguita dal cocchiere che già aveva tranquillizzato i quattro animali. Il suo braccio coperto fino alle dita dal mantello fece un gesto indicando una zona, mentre il cocchiere assentiva. Il mio stupore non mi impedì di rilevare dettagli, ma l’animo distillava angoscia. I cavalli impennacchiati di nero se ne stavano immobili come pietra, in attesa. Mi sforzavo invano di scoprire le fattezze della figura intabarrata. Poi sembrò che  la sagoma volesse passarmi accanto di proposito, e a due metri ne adocchiai finalmente il volto. Il sangue raggelò all’istante. 

Felice allora se, prima di quella vista, fossi stato accecato da spiedi roventi. Non so se femmina o maschio o quant’altro di diverso dai due generi, una bellezza sovrumana si celava sotto il mantello. Ma gli occhi! Oh gli occhi! Malvagi e perversi, gli occhi, infernali, crudeli e beffardi, maligni e atroci, suggerivano abominio e scelleratezza oltre l’immaginazione, essi mi colpirono come lame in pieno petto. Caddi all’indietro felice di morire all’istante per aver constatato che nature simili esistevano. Precipitai nel baratro che si apriva oltre il belvedere del bar. Non potrei giurarlo ma nel cadere mi parve di udire le note ossessive di una chitarra e una risata, sicuramente frutto del mio intendere sconvolto. Mi spiacque destarmi all’improvviso  perché la visione di quel volto infernale rimase nella veglia a tormentarmi, mentre, agitato, sapevo che mi avrebbe accompagnato per la vita.

Londra, luglio 20…
Stanco di aspettare invano postino e moglie col carrello della spesa uscii verso Sheperd Bush. Dai rari amici italiani nessuna notizia. Mi azzardai a salire sulla Circle line, poca gente con mascherine, visiere e tubi di disinfettante ai tornelli. La calca di un tempo un ricordo. Il periodico riapparire del morbo dopo anni dalla sua prima comparsa aveva stremato l’ottimismo dei metropolitani scompaginando economia e politica.  La Gran Bretagna non apparteneva più agli Inglesi: un padrone poco visibile giunto da lontano reggeva la sua sorte. Il morbo dipingeva la città coi toni lividi dello scoramento. Dopo lunghe tregue che facevano ben sperare il male tornava a colpire, improvviso, come una maledizione biblica. A Ruislip  in un ex parcheggio avevano appena “inaugurato” un cimitero per 1600 salme. Obitori e ospedali temporanei a forma di igloo, ovunque. Era la nuova Londra.

The famous London Underground logo advertises the Moorgate subway station. England.

Scesi a Moorgate come un tempo, per ammirare i fastosi edifici della City, caratteristici di un passato dissolto. Quel giorno una sorprendente novità: doppie transenne proprio all’inizio di Roman Wall verso le rovine di pietra del monastero-ricovero St Alphage. E a ogni dieci metri un agente armato. Davanti al vecchio pub Globe, sei blindati della polizia, due ambulanze e un camion tir candido senza insegne. Qualcosa di clamoroso doveva essere appena successo. Non un passante!  Nell’aria una indistinta minaccia. Girai l’angolo verso i bastioni del Barbican, alle spalle l’incisione murale a rammentare lo scoppio della prima bomba tedesca nel 1940. Non più nazisti ora, ma cinesi a presidiare la città, celati da amministratori-paravento indigeni. Proprio allora mi vennero in mente le parole dell’ex direttore dell’FBI che decine di anni prima aveva detto: “La Cina tenterà di imporsi come unica superpotenza dettando il suo volere al mondo con ogni mezzo”. Parole profetiche? Mezzi che in modo sinistro dovevano manifestarsi anche quel giorno in tutta la loro allucinante perversione.
Poco prima della loro rimozione, riuscii a osservarli, li stavano fotografando: detriti elettromeccanici sparsi davanti al pub Globe. Curioso e bizzarro. Pezzi di motori elettrici, con la matassa di filo di rame del rotore sbobinata, uno dei quali era finito su una siepe di bosso, pale di eliche mozzate, fusoliere contorte e poi cofani contenitori per il carico, sfasciati.
Il tutto suggeriva lo scontro accidentale di due droni a bassa quota. Ma non era tutto e non il peggio. Con ogni mezzo, ripensai. Accanto ai resti dei droni una decina di sacchi candidi, alcuni dei quali lacerati, a rivelare nefandi contenuti. Oltre l’incrocio, celati da un secondo cordone di incappucciati in tuta, cadaveri. Le tute stavano “maneggiando” le ultime salme spingendole dentro il tir refrigerato. La ruota di una lettiga si sfilò e il pesante sacco scivolò a terra, rabbrividii al rumore sordo dell’impatto del cadavere col selciato. Il mio stomaco in rivolta, polmoni e  orecchie, compresse, come capita in apnea.  Immaginai il ghigno dei poveri cadaveri che si beffavano di noi, non ancora come loro. Mi figurai le misere salme che guardavano me senza vedermi, col giallo delle cornee, bovine, oscene.
La memoria ora inorridisce. Dove? Chi? Quando? La galleria cieca, davanti a “Costa Café” sprangato da anni, lasciava intravvedere un varco. Vi entrai a fatica, oltrepassando una soglia non esclusivamente fisica. Subito avvertii un tempo alieno, anteriore, impadronirsi di me, avvolgendomi. Cosa ci faccio qua? Rabbrividii. Non ebbi tempo di riflettere che fui urtato con violenza: senza neppure accorgersi, un soldato con una gran fascina, di furia mi era venuto addosso.  Strepiti, ordini e un lezzo bestiale. Correvano stravolti, dal deposito dei carri allo spiazzo dove fiamme crepitavano. Quelli di fuori lanciavano, questi bruciavano. Cadaveri dal cielo e nel rogo, catapultati dentro le mura di Kaffa. Tramortito dal peso dei secoli e dall’orrore, abbassai lo sguardo, appoggiandomi per non cadere al muro di “Costa Café”. Indietreggiai, varcando ancora la soglia. La visione svanì. Libero! Libero? Era stato, nel
1347, a Kaffa, colonia genovese sulle rive del Mar Nero. Mongoli, capeggiati da Khan Ganī Bek, lanciavano cadaveri infetti all’interno delle mura, prima di levare l’assedio. Sono stato là dentro, io, e poi ora a Moorgate pensavo. Morti attraverso tempo e spazio. Allora la peste, ora il virus mortale. L’arma perfezionata dalla tecnologia moderna, assai più efficace delle catapulte mongole, droni assassini che seminavano morte, allora come ora! Non sapevo se avessi potuto respirare.

Per non cadere sedetti su un gran lastrone di pietra. I cinesi tenevano in scacco il mondo con piogge di cadaveri, liberando all’occorrenza nuvole di zanzare infettate dal virus. Quel giorno ne avevo avuto diretto riscontro. Il vaccino made in China funzionava sin dall’inizio per loro e solo per loro. Sciami di droni pronti a colpire per soffocare  qualsiasi tentativo di ribellione nelle regioni sotto il loro impero. Obitori e ospedali rifornivano abbondanza di “materiale”. Mi chiedevo dove fossero in realtà diretti quelli incidentati. 

Telefonai a casa. “Ma dove sei? Ma sai che ore sono? Vieni a casa, è tardi. Vieni a casa ti dico!” “Come?” La linea disturbata cadde. Sarei arrivato col buio, non me la sentivo di riprendere il tube. Per la prima volta constatai l’agonia della città sconsacrata, la più ricca del mondo un tempo, ora dimentica dell’antica frenesia; dietro le imposte di negozi sprangati da cui era sparita la merce, il suo illustre scheletro resisteva, carcassa ancora fastosa. Il notiziario della BBC delle venti avrebbe riportato un incidente nei pressi di Moorgate. Due droni GA da 880 libbre, ovvero con capacità totale di carico di 440 chili appartenenti a uno stormo diretto a Manchester si erano scontrati. Non si registravano vittime. Dei sacchi, caduti coi droni nemmeno un accenno. Chi stavano andando a punire? mi chiesi. La censura impediva di sapere il resto ... Con ogni mezzo e a costo zero, riflettei.

Dall’Italia le notizie dell’amico astigiano, brutte; dicevano di certi balordi che avevano fatto scoppiare petardi davanti a un posto di blocco a Moncalvo, i cinesi avevano subito reagito, pensando che fosse una bomba. “Di notte ne hanno lanciati non so quanti dal cielo.” Davanti al municipio di Bosco Marengo e anche a Moncalvo, pareva. “Chi li va a raccogliere? Son tutti infetti i morti. Chi li va a benedire adesso? Qualcuno dice che ha visto una carrozza e dei cavalli neri correre verso Moleto….”… Quei cavalli neri? …. pensai, atterrito.

Non so cosa potessi pretendere dalla notte incipiente dopo i fatti di Moorgate e le notizie dall’Italia. Se non avessi tentato di distrarmi in qualche modo altri turbamenti avrebbero compromesso il mio già precario equilibrio. Così chiesi a mia moglie di uscire. “Ma non sei stanco?” “No”. 

Vagammo senza meta dopo aver imboccato una laterale di Askew Road dove c’era l’insegna spenta di “Fish and Chips bar St. Elmo”. Sconvolto a dir poco. Non un’anima e subito, paurose, chiome mormoranti di alberi e muretti bassi che potevano occultare i volti dei cadaveri in agguato di Kaffa e Moorgate! La fantasia sovreccitata non mi risparmiava nulla. Non c’era tregua per me, ogni cosa, anche la più innocua, rimandava a quegli orrori.  Seguivo taciturno le orme di mia moglie. Più intenso, ora, corroborato da un filo di ragione, il primo sgomento alternato alla pioggia di cadaveri su Moleto, Moncalvo e Bosco Marengo, secondo le notizie dell’amico astigiano, l’orrore mi scoppiava dentro. 

Improvvisa e a tutto volume una musica che ben conoscevo, le cui note ossessive ora mi perseguitavano! È me che vogliono! mi hanno scoperto! ormai è chiaro! Questo pensai. Era il brano Asturias di Isaac Albéniz, famoso pezzo per chitarra. Tanto più sinistro in quanto amavo il suo ritmo incalzante, ma qui fuori posto e a quell’ora, e poi nessuna autoradio era nei pressi, di furia mi diressi verso casa. Braccato e delirante.  

Svoltammo in Wormholt Road, mia moglie evitò di chiedermi cosa mi avesse preso, sapendo quanto sono bizzarro. Poi a casa disse: “Non ne ho più”. “Fa niente, ci vorrebbe mezzo litro di Valium, non camomilla” risposi. Che un nuovo incubo mi attendesse al varco appena addormentato?
Dopo aver paventato il precipitare di eventi orrifici, aggrappato all’idea che tutto sarebbe svanito se solo avessi spalancato gli occhi, cado in un sonno penoso.  Non devo attendere a lungo:
L’invito online descrive l’evento come il rave party più fabulous della stagione. Rigorosamente vietato dalla legge e dal nuovo incalzare del virus;  è ancora buio quando a Ravenscourt mi infilo nel tube deserto della District. Scendo a Tower Hill mentre un’alba livida annuncia basse nuvolaglie in transito. Non occorre cercare il luogo, piantato davanti al nuovo ciarpame edilizio simboleggiato dall’ogiva di cristallo del Gherkin, che una fiumana gozzovigliante  si sta dirigendo verso un punto preciso. La massa urla, scalpita, impreca, premendo per infilarsi dentro le mura. Sgomento, mi accorgo che non riuscirei a risalirne il flusso, tanto è fitta. Sei Beefeater impacciati con le loro ridicole livree bordate d’oro e il cappello a catino, indirizzano gli scalmanati all’interno della Torre di Londra. Dal primo cortile nei cui pressi un tempo scivolavano nel Tamigi i resti dei condannati, le raffiche di una musica urtante, contro lo stomaco. La massa si arresta, ondeggia, riprende ebbra. Alcuni invitati, a torso nudo, con lo scalpo dei Mohicani azzurro e rosa scivolano a terra, fradici di droga e alcool, tre ragazze lucide di sudore si avvinghiano ai forsennati, ululando. La folla si scalmana. Le torce ai muri lasciano fitte zone di buio.
In direzione di un secondo cortile, oltre il fossato, è già iniziato uno strano esodo. Alla spicciolata e poi sempre più folta una processione si trascina, mesta. Gli stessi che poco prima facevano baldoria, a capo chino ora barcollano. Senza capire li seguo. Inciampo, calpestando qualcosa di elastico che emette un rantolo! Aguzzo la vista e l’orrore mi infilza. Sto costeggiando una fila di cadaveri e di corpi esalanti l’ultimo respiro. Nuovi infettati dal virus! Fuggo verso il primo cortile, in tempo per scorgere il maestro di cerimonie ergersi sul palco dell’immondo conclave, è lui, è lei, la sagoma intabarrata di Moleto, vomitata dal basso inferno. Ora dirige la danza macabra alla Torre. Mi vede l’infame, fa cenno a tre Beefeater che ora calpestano vivi e morti per agguantarmi. Imbocco un varco che si rivelerà cieco. Con le spalle al muro, il loro ghigno, stanno per afferrarmi. Grido da far spavento. Non è la prima volta. “Ma cos’è? ma sei impazzito?  ma cos’è stato?” “…Scusa, dormi, scusa” balbetto verso mia moglie tapina.
Ci sono orrori indicibili capaci di estendere  le loro propaggini alle ore diurne. Tre giorni appresso la mia angoscia distilla raccapriccio, poi orrore. Proprio davanti alla porta di casa la carrozza coi quattro neri cavalli, immobili come pietra, nessun altro in vista; è me che cerca, lo so, me che vuole, lo sento. 

Pubblicato da Homo Scrivens

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

faceva a pugni il grande Jack?

Non so se hai presente quel fanciullone di Jack London, lo scrittore mito, osannato dal pubblico, meno dalla critica del tempo, un “eroe” da strada, con un talento letterario naturale, autodidatta, costretto a rapporti omosessuali durante un breve “soggiorno” in carcere; venuto dal niente e tornato a soli quarant’anni nel grembo del niente. Una meteora, un fulmine. Americano verace insaziabile di emozioni, innamorato del socialismo di Marx e della vita, fino a sfidarla di continuo e, la vita, a soli quarant’anni gli presenta il conto. Unico, intrattenibile, entusiasta e assetato di vita Jack, stroncato dalla morfina, e da uremia gastrointestinale, ma l’ipotesi del suicidio pare che non regga molto, ucciso senz’altro dagli eccessi di una esistenza vissuta all’eccesso sul filo del rasoio. In bilico instabile fra Marx e Nietzsche non è facile procedere. Su un post bene informato si legge: L’epica di Jack London è costruita intorno a molte contraddizioni. Al tempo in cui incominciò a desiderare di diventare scrittore, era socialista. Scrisse articoli in favore delle lotte operaie e degli oppressi, arrivando a giustificare atti di terrorismo, ma la sua versione del socialismo, oltre che radicalmente individualistica, vedeva nella lotta di classe una legge di natura, la lotta per la vita dove a prevalere è sempre il più forte. Il darwinismo sociale, divulgato negli Usa dal filosofo Herbert Spencer, sanciva nel predominio del più forte, più che nella difesa del debole, la regola a cui tutto si piega. London amava la boxe e scrisse contro il razzismo, ma anche sulla differenza naturale, e ineliminabile, tra le varie razze umane. Parlò di «pericolo giallo» e scrisse contro la naturale indolenza degli immigrati italiani che, una volta diventato ricco, aveva assunto nel suo ranch. Ingaggiò battaglie contro il maltrattamento degli animali nei circhi, ma fu ammaliato e attratto dalle lotte tra i cani.

Scrisse di lui George Orwell: «Ma per temperamento era molto diverso dalla maggior parte dei marxisti. Con il suo amore per la violenza e la forza fisica, la sua fede nella “naturale aristocrazia”, la venerazione per gli animali e l’esaltazione del primitivo, aveva in sé quella che si potrebbe a buon ragione chiamare una tendenza fascista».
Te ne parlo perché sto rileggendo le sue storie di boxe, tre autentiche perle, capolavori di scrittura esemplare, il meglio della letteraura di London. A mio giudizio il semiautobiografico Martin Eden non è, infatti, la sua opera meglio riuscita. Grado Zero riporta l’intero racconto dell’anziano pugile suonato che ti raccomando di leggere: straziante e crudele come spesso la vita sa essere. Se non è alta letteratura quella dimmi te cos’è. Esuberante, fascinoso, intrattenibile trionfo vitale. London dà il meglio in queste schegge di realtà, in questi quadri che ritraggono situazioni e uomini normali eppure “al limite” Ti ricordi dell’anziano pellerossa abbandonato dalla sua tribù con qualche stecco e fiammifero in mano rimasto da solo a fronteggiare lupi famelici? O dell’altro racconto breve che narra di un’altra caccia (quella all’uomo) di una vedetta a cavallo, inseguita e uccisa da una pallottola sparata con grande precisione da un gelido tiratore infallibile. Vita e morte, la sottile soglia che le divide. Il grande Jack sa cogliere nel segno, fruga nella materia confusa della vita per individuare il punto di stacco, la demarcazione che spesso mirabilmente individua e descrive, ma i suoi risultati vanno ben oltre delle sue intenzioni.

Nelle tre storie brevi sulla boxe, ad esempio, dà sfoggio di una acutezza psicologica rara, mi viene in mente l’innamoramento progressivo e tenerissimo di una commessa di pasticceria e il suo pugile, un capolavoro di introspezione psicologica, quasi commovente, tanto ti fa percepire il pudicissimo moto dell’animo dei due innamorati, e il dolore “assente” della giovane nel vedere il suo innamorato in coma cerebrale, steso al tappeto da un crudele avversario. E poi il ring con la sua spietata legge, con incontri talvolta truccati, come nel caso de Il messicano o il memorabile incontro del vecchio King con un pugile giovane e fresco.

Un incontro in cui il pugile anziano combatte per una bistecca e per sanare i debiti E perde. Dei tre racconti sulla box ti riporto solo un brano tratto da Il gioco: “Lei non aveva l’occhio dell’esperto per apprezzare la profondità del petto, le narici ampie, i polmini capaci, e i muscoli sotto le loro guaine satinate-cripte di energia in cui si annidava la chimica della distruzione...”

scriveva il grande Conrad?

CUORE DI TENEBRA. Sostengo da sempre che alcuni libri andrebbero resi obbligatori nelle nostre scuole, come sussidiari, testi su cui far riflettere i nostri giovani , fra questi e alcuni altri, insieme a Memorie di un pazzo di Flaubert, di Nutrimenti terrestri di Gide e Verso Damasco di Strindberg c’è anche Cuore di tenebra di Conrad insieme a Orgoglio tricolore, del mio amico Lorenzo Fornaca.

Propaggini del tempo, residui fossili del nostro passato e della nostra mente. Sono le foreste del primordio, ultime aree momentaneamente risparmiate dagli obbrobri della devastante civilizzazione. Perché ne parliamo? Sono bastati un’ottantina di anni, forse meno, un niente se confrontato alla storia, e tutto è successo, irreversibilmente, irreparabilmente. La capacità di incidere e stravolgere il territorio, di deviare fiumi, cementificare, creare immense alienanti periferie metropolitane ha stravolto e inquinato ambienti e habitat che perduravano da millenni, e con essi la loro storia, cioè la nostra. Non diciamo nulla di nuovo, parole superflue perché inutili. Ne siamo coscienti. Agli spazi metropolitani, alle aree occupate dall’industrializzazione, sottratte alla selva, alla stessa montagna, con l’edificazione di villini a schiera e di condomini, ai paesaggi pesantemente modificati e sfigurati, per ottemperare alle esigenze, spesso fittizie, dello sviluppo, si oppongono ancora alcune (non molte) aree off limits dove la natura detta legge ristabilendo rapporti psichici, fisici e primordiali con abitanti e visitatori. È il caso della foresta fluviale del Congo, in CUORE DI TENEBRA, quella di Conrad, per intenderci o quella delle Isole Salomone di Jack London ne L’AVVENTURA e, ancorché devastata dai coloni inglesi, spagnoli, e francesi sul Mississipi, quella di Faulkner ne LA GRANDE FORESTA, in cui viveva l’orso primordiale, per far posto alla ferrovia e alla città. Sono le foreste tenebrose, territori impraticabili, ma indispensabili oggi, e che ci diamo briga di distruggere (guarda quello che sta succedendo in Amazzonia) insegne di una sovranità che è pericoloso guastare. La foresta (quella foresta) è lo spazio in cui l’uomo perde il senso del tempo, paesaggio onirico eppure reale, pericoloso e talvolta letale.

Un paesaggio che è prima di tutto dentro l’uomo. E perciò insopprimibile. Quindi stiamo uccidendo pezzi di noi. Basta leggere alcuni brani da CUORE DI TENEBRA per capire di cosa stiamo parlando: a pagina 55: dell’edizione FELTRINELLI economica con prefazione di Anna del Bo Boffino: …Le grandi mura della vegetazione (una massa esuberante ed intrecciata di tronchi, rami, fronde, festoni, immobile sotto la luce lunare) erano simili all’invasione riottosa della vita silente, ad un’ondata rotolante di piante ammucchiate, un’ondata che si gonfiava… a pagina 60: Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel corso del tempo, ritornare ai primordi, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un fiume, un deserto, un silenzio solenne, una foresta impenetrabile… a pagina 63: Eravamo come i visitatori di una terra preistorica su una terra che aveva gli aspetti di un pianeta sconosciuto. Avremmo potuto immaginare di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta che bisognava sottomettere a costo di grandi dolori e di fatiche a pagina 116: a proposito del misterioso Kurtz: La sua era una tenebra impenetrabile. E io lo guardavo così come si potrebbe guardare, giù, un uomo che giace nel fondo di un precipizio dove non brilla mai il sole…(come una foresta?) Ricettacolo di paure, aggiungiamo noi, inquietudini, insondabili misteri, fascinosa e impenetrabile in cui l’uomo smarrisce valori e misura. Ma quella foresta è nell’uomo e dell’uomo. È in questo tipo di ambiente che si dissolvono le smanie civilizzatrici, ultimo brandello di natura che esige rispetto, incute timore, respingendo l’intruso. La foresta selvaggia sta alla metastasi urbana come l’antidoto sta al male incurabile, viva, terribile e potente, luogo d’elezione perché non coercibile e cieca. Non madre, anzi, creatrice di incubi, non culla, tuttavia capace di suscitare riflessioni sull’aberrante devastazione cui l’uomo ha dovuto ricorrere per realizzare i suoi ultimi sogni. Foreste africane, asiatiche, dell’Amazzonia, di sperdute isole, ultimi spazi sovrani dove la mente può soccombere, ma in cui può comunque riconoscersi accettando la superiorità della natura. London, Faulkner, Conrad ne avevano rilevato il potere, l’avevano capito, trascrivendone la forza simbolica e il mistero, riuscendo a farne percepire la vita oscura, insopprimibile, perché dentro l’esperienza umana (oggi addormentata) che in essa si celava. Se ti ricordi di cosa scriveva Conrad allora non tutto è definitivamente perduto. Se mi dici cosa ne pensi te ne sono grato.

Isole Salomone, fine ‘800

avventuraFra le mani abbiamo alcuni ritagli di giornale. Risalgono a luglio 2000.
Sono tratti da I VIAGGI DI REPUBBLICA. Dalle pagine ci sorride la faccia larga del mitico Jack London. Quel poderoso, fecondo avventuriero, spento da una overdose a quarant’anni, dopo aver goduto e provato tutto, ucciso da un male oscuro 

Sulle tracce di quel male, mi sono avventurato, senza troppi mezzi a disposizione. Rileggendo gli articoli a firma di Barbara Frandino, Gabriele Romagnoli e Vittorio Zucconi e sono partito alla ricerca (virtuale) di Jack, il figlio della foresta.

Compagni suoi nello stesso genere di viaggio c’erano Melville, Conrad, Faulkner, Hemingway e Kerouac, tutti e con diversi esiti di vita, alla ricerca del sogno americano infranto. Gli articoli di REPUBBLICA ci avvertono che la selvaggia e pericolosa bellezza dei luoghi incontrati da Jack non esiste più. Voli charter, fiori di plastica, sandali infradito e il più becero turismo hanno scalzato, guastandola per sempre, la primitiva e selvaggia avvenenza di quei luoghi.
Ma non è di questo che vogliamo parlare.

Fra le opere del grande Jack abbiamo scelto L’AVVENTURA, tradotto da ROSALIA GWIS ADAMI e pubblicato nel 1933 dalla EDITRICE BIETTI MILANO.
Guardate sulla copertina quanto costava. Le sue pagine non stanno più insieme e dovremmo farlo rilegare. Forse non è un’opera fra le più conosciute ma è significativa per la nostra ricerca.

Isole Salomone, fine ‘800: copra, noci di cocco, bastimenti che vanno e vengono sulla marina. E poi schiavi negri e teste mozze. E ancora la foresta che minaccia la piantagione e la vita dei bianchi. Una storia d’amore che si dipana col suo lieto fine. Lei è uno splendido e selvatico monello che dirà finalmente TI AMO al proprietario della piantagione, il quale ha appena finito un duello stendendo il corteggiatore molesto della sua bella. Ci sono tutti gli ingredienti per trarre in inganno, per confondere l’opera con un banale romanzo di avventura al tropico, seppur avvincente.

L’AVVENTURA si legge tutto d’un fiato, le sue immagini si incollano alla memoria. Ma è solo verso l’epilogo che emerge, in tutta la sua insidia, la presenza dell’incubo, e, almeno così crediamo, si palesa il vero protagonista della vicenda.

Andiamo per ordine. Lei: Fa innamorare quasi tutti; bellissima e fuori dell’ordinario; ha il carattere di un moccioso insopportabile, ma è adorabile. Basterebbero gelosie mal trattenute e l’amore dell’uomo che cresce fino a scoppiare. Basterebbe il riso cristallino di una ribelle ritrosa che va in giro armata di colt a canna lunga e carabina, per poi tuffarsi a sfidare i pescicani in compagnia dei suoi amici tahitiani. Basterebbe questo a rendere emozionante il racconto.
Lui: Ci casca come una pera cotta. Si innamora di quel monello adorabile. Il bianco, padrone della terra. Duro, ma solo per necessità. Innamorato di quella dea bizzosa, naufragata col suo equipaggio di tahitiani, sulla spiaggia della piantagione. Lo vogliamo chiamare destino? Protagonista saggio, un poco opaco, ma equilibrato anche quando deve fronteggiare torme di cannibali decisi a staccargli la testa.

I negri. Materiale pseudo umano, utilizzato per lavorare nella piantagione. Poco raccomandabili, scarti viventi con cui usare il pugno di ferro. Molti dei loro consimili sono dediti a una caccia un po’ particolare. Cercano gente cui staccare la testa per farla seccare.

E poi la Foresta

Entro cui si annidano spiriti malefici, torbide pulsioni e gli indizi di cui siamo venuti in cerca. La vera protagonista del romanzo è lei, la foresta. Opprimente, impenetrabile, paurosa. Nelle sue viscere accadono fatti innominabili. La foresta non è quella di Faulkner, dello struggente racconto LA GRANDE FORESTA. Non è quel luogo primevo e incantato in cui furoreggia il grande orso. Questa è la foresta maledetta del tropico. Una minacciosa landa malsana ai cui margini l’uomo bianco risica il suo guadagno, minacciato dalla dissenteria e morendo per le ferite di lance avvelenate. La foresta di Jack London, almeno quella che si trova ne L’AVVENTURA è il luogo orrido in cui si viene inghiottiti, senza scampo. Un posto in cui la natura sembra congiurare contro la vita. E in questa sede che i nostri indizi diventano prova, secondo le stesse parole di Jack. La foresta si trasforma in simbolo, forza oscura, paurosa, assimilabile a certi tratti dell’essenza umana, della mente che si ammala, impazzisce e muore. Una natura che corrisponde ai suoi figli, cacciatori di teste e cannibali; questo ha saputo partorire. Ma non solo, la foresta, vista come presenza invasiva, assume una valenza metafisica. Essa coincide con alcune zone oscure e insondabili della nostra psiche. Diventa tormento.  La jungla alla fine è parte assimilabile della natura umana.

A pagina 278 leggiamo:

Felci e muschi e una miriade di altri parassiti si aggrovigliavano con fungose vegetazioni dai gai colori che pareva cercassero lo spazio per vivere, e la stessa atmosfera pareva invasa da altri rampicanti aerei, leggeri.

Orchidee tinte d’oro pallido o di vermiglio spalancavano i loro fiori malsani ai raggi del sole che penetrava qua e là dalla volta massiccia. Era la foresta misteriosa e perversa, l’ossario del silenzio, dove nulla si muoveva all’infuori di alcuni strani augelli, la cui stranezza rendeva più profondo il mistero: senza il minimo cinguettio dileguavano via, sulle ali silenziose, screziate di morbosi colori, simili alle orchidee, fiori volanti di malattia e di corruzione.

La foresta coi suoi fiori volanti di malattia e di corruzione faceva forse parte della forza oscura che minacciò e uccise il mitico Jack?

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