c’era il Fantastico?

Si fa presto a dire fantastico! Un viaggio, un pranzo, un amico, possono riuscire fantastici, o un programma tv, come quello del 6 ottobre 1979 quando andò in onda la 1ª di dodici puntate di “Fantastico”, condotto da Loretta Goggi e Beppe Grillo con Heather Parisi. Quanta acqua sotto i ponti! dirai. Ma niente di tutto questo c’entra col nostro fantastico, e allora cosa? Il Fantastico è qui soggetto eminente di un’opera singolare che si legge come un romanzo d’avventura. Edita da Solfanelli in onore dei 60 anni di attività di Gianfranco de Turris, noto internazionalmente per essere uno dei più accreditati conoscitori di questa osmotica materia. Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti, alla seconda edizione riveduta e ampliata – e già si parla di una terza ristampa – tratta di un altro genere di Fantastico, che questa volta non rima con meraviglioso, favoloso, sensazionale o formidabile, ma col quotidiano. A definire il Fantastico in questa sede ci aiutano i giornalisti Louis Pauwels e Jacques Bergier, autori de Le Matin des magiciens, opera del ‘60. Ecco cosa dicono: “il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi…” Cose astruse? Affatto, perché ci toccano da vicino più di quanto pensi. Fantasy, fantascienza, fantastico, science fiction e via dicendo: solo alcuni dei termini descriventi una dimensione che fa dell’onirico e del virtuale una eventualità possibile; quanti milioni di persone si sono incollate agli schermi, soggiogate dalle vicende di Odissea 2001 nello spazio, Blade Runner, Interstellar, Ex Machina, famose pellicole cult che rivelano tuttavia inquietudini riflesse e prospettive potenziali di un futuro possibile: di intelligenza artificiale  si imbottiscono ormai anche i materassi. Punto di forza de Il Viaggiatore Immobile una serie di testimonianze autografe imperniate sulla figura di Gianfranco de Turris, che descrivono un’avventura pluridecennale di cui non si percepisce la fine, perché il fantastico nasce e vive con noi, inossidabile compagno di ogni vicenda umana, in forza del suo significato: rappresentare la parte più autentica che è sogno, desiderio dell’ulteriore, fuga dal quotidiano. 

Così la “rivelazione dell’inconsistenza ultima della realtàsi legge nel libro, fa pensare. Tolkien, Lovecraft, Evola, Meyrink, Jung, sono i nomi che più compaiono, in una fitta sequenza di amarcord talvolta accorati, fatti di date, incontri e scontri, ricordi di tumultuose avventure editoriali e filosofico letterarie; contigue alla politica, esse sono apportatrici di nuove idee e interpretazioni del quotidiano,  conquistate con fatica e lotta. Al centro di questa avventura c’è lui, il viaggiatore immobile, ovvero Gianfranco De Turris, amato e osannato, o vilipeso e osteggiato, sempre scomodo, perché granitico nelle sue idee “scomode”, ingombrante presenza fuori dal coro, sempre. Dai numerosi interventi offerti dall’opera, che si legge come un racconto avventuroso, uno significativo, quello di Chiara Nejrotti tratto dal capitolo Nostalgia del sacro e critica alla modernità, l’opera di J.R.R. Tolkien: Negli anni Settanta del secolo scorso Gianfranco de Turris, insieme a Sebastiano Fusco, propose un’interpretazione simbolica del fantastico che si dimostrò particolarmente feconda nell’indicare chiavi di lettura e significati, che probabilmente sarebbero rimasti nascosti secondo analisi meramente letterarie o di stampo strutturalistico, così in voga in quegli anni. Egli, infatti, indicò per primo in Italia il legame esistente tra mito, epica e letteratura fantastica, mostrando come quest’ultimafosse l’erede – più o meno consapevole – delle prime due e, per suo tramite, si manifestasse, nell’epoca del modernismo razionalista e del disincanto, una autentica e, a prima vista insospettata, “nostalgia del sacro…”

Nelle immagini: dipinto di Julius Evola e la copertina dell’opera.

Sotto il segno di Urania

Ci sono opere delle quali si apprezzano anche i punti e le virgole, è il caso de Sotto il segno di Urania  (per una storia dell’immaginario italiano), recita il sottotitolo, di Gianfranco de Turris. Il volume è stato appena pubblicato da Oaks editrice. L’opera sfugge a ogni seppur volenterosa classificazione, se mai ci fosse bisogno di inquadrarla in un genere letterario. Si legge come un romanzo, ma romanzo non è, e neppure saggio o antologia, quello che sicuramente fa è fornire gli strumenti a chi intenda inoltrarsi nell’intricato dedalo della genesi della fantascienza italiana. Sotto il segno di Urania  riserva sorprese a non finire, appassiona e intriga, attraverso la formidabile messe di nomi, date, riferimenti storici, sociali, politici e culturali. La sua equilibrata prosa trascina comunque spingendo a leggere ancora e ancora, fino all’appendice, anch’essa di rilievo. L’opera soddisfa gli appetiti degli appassionati di fantascienza e non. I primi scopriranno la ricchezza racchiusa in una miniera di informazioni e dati tutti godibili, i secondi saranno tentati di sondare l’universo fantastico italiano dischiuso dall’opera. Basta lasciarsi trasportare dal racconto (forse abbiamo trovato il termine appropriato) da rimandi, annotazioni e confronti per scoprire una verità parallela e affascinante. Sotto il segno di Urania suscita anche interrogativi: la davvero impressionante marea di titoli, autori, editori che si sono cimentati nell’offrire supporto e nutrimento alla nascita e al prodigioso sviluppo del fantastico italiano, conduce a un dubbio: e se la vera realtà, la più autentica, genuina e spontanea non fosse quella quotidiana, ma quella descritta nelle opere? onirica e imaginifica, grottesca e formidabile, spesso eccessiva e sbalorditiva proprio come il pensiero dei suoi creatori? La vera vita, insomma, sarebbe quella immaginata/immaginaria, col corredo dei suoi ambienti e invenzioni fantastiche, riedificata infine dalla Fantascienza. Ovvero la dimensione virtuale onirica che diventa autentica vita, in sostituzione di quella assai più piatta del quotidiano. Essa realizza il pensiero senza limite, dando corpo all’incubo o al sogno di un mondo migliore. 
Sarebbe poi eresia includere negli autori del fantastico quello più spettacolare e grande del mondo, interprete del fantastico allegorico teologico, ma sì, l’insuperato Dante Alighieri? A mio avviso scrittore fantastico per eccellenza. Una cosa appare fuori di dubbio: il termine “fantascienza” con la sua osmotica natura e le innumerevoli sfumature e contaminazioni appare sfuggente, pregnante, penetrabile al massimo grado; indica una morfologia concettuale e creativa vastissima e Gianfranco de Turris in questa opera, ce ne fornisce ampia dimostrazione. Qui di seguito alcuni suoi interventi più significativi: 

Pag. 144 “(…) La parabola di Luigi Capuana sembra quasi quella di Sir Arthur Conan Doyle che passò dal razionalismo assoluto di uno Sherlock Holmes allo spiritismo di cui divenne famoso sostenitore e divulgatore. Un aspetto dello scrittore siciliano che è come una filigrana sottotraccia della sua sterminata narrativa e che sarebbe il caso di riscoprire e studiare finalmente e in modo organico per fargli assumere il posto che gli compete alle origini del fantastico e della fantascienza italiani…”


Pag. 160: “(…) Verne e Salgari sono
riusciti a ben individuare quali sarebbero stati i lati negativi, gli errori del “mondo moderno”, del brave new world: il progresso vertiginoso che immaginavano ai loro tempi non avrebbe portato soltanto benefici materiali, ma anche effetti nefasti sull’umanità che non sarebbero riusciti a ripagare del tutto il benessere fisico. È una critica, anche abbastanza esplicita, a quella che oggi viene definita l’“americanizzazione del mondo”, non tanto in termini di super tecnologia alla portata di tutti, quanto di come l’American way of life ha profondamente modificato il nostro modo di vivere e di essere, quindi la nostra mentalità: ricerca disperata della prosperity a ogni costo, efficientismo, velocità, spasmodico arrivismo, commercializzazione di tutto (compresa l’istruzione e la cultura), ogni cosa ridotta a merce, declassamento dell’umanesimo, trionfo dello scientismo, dittatura delle banche e della finanza. È lo Specchio Oscuro della Modernità in cui noi oggi ci riflettiamo. Basti osservare l’umanità odierna che in tutto il mondo cammina, mangia, conversa, lavora, gioca con in mano cellulare e smartphone che guarda o maneggia incessantemente, always connected con tutto il mondo...Quello di Verne e Salgari era un mettere in guardia i contemporanei nei confronti di un futuro negativo che non volevano si realizzasse. Hanno fallito, non ci sono riusciti, si deve dire, ma così hanno scritto entrambi delle vere, piccole distopie anticipandone i dettami concettuali: società che paventavano e che noi viviamo in pieno sulla nostra pelle…”

Pag. 199: “ (…) L’Italia non ha una “tradizione” fantastica e fantascientifica vasta come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna: il “fantastico” si bloccò con l’Orlando furioso dell’Ariosto, e dal Cinquecento in poi praticamente nulla apparve, imperando l’Umanesimo prima, l’Illuminismo poi (le eccezioni– Carlo Gozzi, ad esempio – confermano la regola). Per di più, il Romanticismo italiano fu essenzialmente “politico” e “civile”, impegnato come fu nelle Guerre d’indipendenza…”

Dalle note dell’autore: “ (…) Uno dei temi che più mi ha interessato nella mia vita di critico e antologista è stato, dal momento in cui ne ho avuto consapevolezza, quello del nostro immaginario, delle origini e dello sviluppo nel corso dei decenni della narrativa fantascientifica, fantastica e orrorifica italiana, e che penso di essere stato uno dei primi, se non forse il primo, a indagare con una certa metodicità, insomma, la cosiddetta “protofantascienza”. 

nelle immagini: la copertina, l’autore Gianfranco de Turris, la città di Antonio Sant’Elia.

tutti parlavano del bosone di Dio?

Cosa c’entra Dio col bosone di Higgs? Questo è un post Lettera postuma aperta, indirizzata all’illustre defunta Margherita Hack, astrofisica di fama mondiale e Dama di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, e a tutti coloro che la pensano come lei.
Gentile Signora, giochiamo pure con le battute a effetto, come in una sua intervista a proposito del bosone di  Peter Higgs.  Non costa nulla e ci si fa un po’ di spirito. Secondo lei i fisici hanno trovato Dio. Bene. La particella divina si è fatta scovare, finalmente! e così l’origine della materia ha dunque un volto. Ne siamo felici. Non sapevamo che Dio fosse dietro l’angolo anche se ci sono voluti decenni di ricerca, studi ed elaborate teorie.  Che lei non creda in Dio pazienza, sarebbe stata un’ottima testimonial per coniugare scienza e fede, considerati i suoi interessi extrascientifici. Nel suo ultimo intervento tuttavia c’è qualcosa che mi urta. E considerata la notorietà di cui lei ha goduto, qualche anima candida può davvero pensare che Dio si celi in una particella. Può anche essere, ma almeno non confondiamo sacro e profano.  Dio è in ogni cosa, luogo e anche nelle creature che lo negano. Porti pazienza. Tuttavia, gli studi sull’origine della materia non conducono a Dio ma alle cose e agli uomini. Forse questo va chiarito. A meno che non si vogliano mescolare fave con patate. L’equivoco evidentemente continua. Quindi, tanto per puntualizzare, non mi pare il caso di tirare in ballo Dio, sempre se Dio esiste.

Non ce ne voglia la dottoressa Hack. Ci auguriamo che questa scoperta possa aiutare la diagnostica in medicina perché se servisse solo a far funzionare meglio telefonini e i pod. –come ha detto lei- beh, allora…I miei sospetti erano fondati Non c’è niente di certo a proposito del Bosone. Vediamo se nel 2015 gli scienziati saranno in grado di confermare – perché ora c’è bisogno di un po’ di anni per avere la conferma della scoperta – che quella particella è effettivamente il Bosone di Higgs con delucidazioni varie per farci capire come funziona, oppure se dovranno molto umilmente riconoscere, – in barba alla scientificità – come nel caso dei neutrini, che la spina elettrica della macchina del CERN di Ginevra era difettosa….

Io iscriverei le smanie degli scienziati ed in particolare quelle della illustre prof. Hack, non ce ne voglia chi ne coltiva la memoria, nel desiderium naturale videndi Deum (cfr. Summa theologiae, I-II, q. 3, a. 8). Dice molto bene il filosofo e teologo Tommaso: “Ora, dal momento che l’intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l’esistenza di Dio, la perfezione da esso conseguita non è tale da raggiungere veramente la causa prima, ma rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la natura. Quindi l’uomo non è perfettamente felice. Per la felicità perfetta si richiede dunque che l’intelletto raggiunga l’essenza stessa della causa prima. E così esso avrà la sua perfezione unendosi a Dio come al suo oggetto”. L’uomo, lo vogliamo o no, lo esprima in un modo o in un altro, lo neghi ostinatamente in nome dell’ateismo, è preda di questa inquietudine che è il desiderio di ritrovare pienamente sé stesso in colui che è la sua causa prima e il suo archetipo, giacché ad immagine e somiglianza di Lui è creato. Del resto abbiamo sempre l’alternativa di credere che siamo figli del caos, della probabilita e della statistica ovvero di un brodo primordiale sollecitato dalla luce e fagocitato dal Tempo. Con un discorso di carattere diverso potremmo dire che l’uomo inquieto viandante ma anche straniero su questa terra è sempre alla ricerca della propria casa e del proprio Padre in cui scopre il disegno di amore intelligente che abbraccia e invade l’universo. Il voler escludere Dio A PRIORI dalla ricerca scientifica è davvero una lotta impossibile perché quanto più ci si addentra nei meandri del creato tanto più si ha a che fare con la sua amorevole perfezione e le categorie pseudoscientifiche inventate per giustificare i problemi insorgenti in una visione laicista si colorano di assurdo. A questo proposito basta riflettere sull’importanza data al “caso” e all’evoluzione nelle varie discipline scientifiche. 

Siamo certi che anche i desideri tutt’ora frustrati dei nostri scienziati di trovare la causa e quindi la spiegazione di tutto avranno un giorno piena soddisfazione se avranno quel tanto di onestà e umiltà per sottomettersi alla verità evidente delle cose. Senza giudicare le intenzioni nutrite dalla  prof. Hack mi sentirei di affermare che le sua prospettive  sono davvero limitate  e che si accontenta di poco, se riesce a trovare la spiegazione di tutto in una particella misteriosa che gli scienziati veri definiscono non “Particella di Dio” –  in realtà questo nome è semplicemente una censura del nome originale  – ma “particella maledetta”… perché non si riesce a misurare…Buon lavoro professoressa e non smetta di cercare magari ripensando a quello che disse una volta un suo illustre collega:  “La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa” (A. Einstein). Ma temo che l’illustre scienziata non possa darmi alcun riscontro visto che è deceduta da anni.

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Beato Giovanni Liccio da Caccamo e l’uomo tecnologico

-…Martino vieni qua…- e un lungo belato si levò dalla fornace ancora rovente entro cui i poveri resti del bianco agnellino erano stati gettati poco prima. Martino comparve, vispo e ubbidiente, andando a leccare la mano del futuro beato Giovanni Liccio di Caccamo che lo aveva chiamato a nuova vita

caccamo 1Il frate compiva con estrema semplicità, dicono i testi, sbalorditivi miracoli, come guarire i lebbrosi, con la sua sola presenza. Alla sua morte i 24 ceri accesi attorno al feretro arsero per due giorni e due notti senza consumarsi. Parlava con gli angeli, esaudiva la volontà della Madonna, ma, soprattutto era in stretto contatto con Dio.
Giovanni Liccio (Caccamo, aprile 1426  Caccamo, 14 novembre 1511) predicatore Domenicano e discepolo di Pietro Geremia. Papa Benedetto XIV lo dichiarò beato il 25 aprile 1753.
Il culto e la devozione del Beato Giovanni Liccio promossa dall’Ordine Domenicano si è diffuso in tutto il mondo, anche attraverso gli emigrati caccamesi. Nel 1997 vennero edificate e alui consacrate  una cappella a Chicago (USA) e nel 2002 una chiesa a Monte de Los Olivos (Guatemala) .

È stato Padre Angelo Zelio Belloni, in visita alla cappella di Chicago, a farmi scoprire questa figura che rende omaggio alla nobile città di Caccamo. La città natale lo festeggia con crescente devozione. Perché ne voglio parlare?
Perché Giovanni Liccio è stato ed è tuttora un testimone, protagonista spirituale di assoluto rilievo. Catalizzatore fra terra e cielo, anello necessario per riflettere la potenza incommensurabile della luce divina. Non è indispensabile essere ferventi cattolici né credenti: occorre solo osservare gli uomini del passato e del presente. Le considerazioni vengono da sé. Giovanni Liccio appartiene allo sterminato elenco dei predestinati, dei servi di Dio; sorta di uomo divinizzato e illuminato.
Esseri che percorrono corsie preferenziali, sospesi fra terra e cielo, appunto, in una sorta di dimensione provvisoria e a temporale, in attesa di ricongiungersi all’infinita forza della deità. Creature semiperfette che emanano semplicità, serenità, concordia. Nella scala dei valori umani stanno su uno dei gradini più alti, basta loro alzare un dito per toccare il cielo.
Cos’hanno di così singolare? Qual’è il loro messaggio? La loro forza permane intatta (nel caso del frate siciliano perdura da 500 anni). Essi sono uomini antichi, sacerdoti del cielo, divinizzati dalla luce, oggi si confrontano con uomini diversi, mai visti prima. Non dico che fossero migliori, ma sicuramente diversi.

L’uomo nuovo è una creatura che ha impiegato gli ultimi 600 anni per definirsi e caratterizzarsi. Nato con Galilei, Keplero, Copernico, Newton. È l’uomo tecnologico di oggi, il cui credo è in ciò che vede, crea, sperimenta e progetta, affrancato, così almeno crede, dall’idea di Dio. L’uomo tecnologico è l’uomo post industriale, anello ultimo di una catena che rifiuta il sacro perché non sa più cos’è, ritenendolo superfluo, estraneo al suo progetto di vita. Non c’è più potere salvifico perché non c’è più richiesta di salvezza, di ulteriorità, l’atto del cercare il divino trascendente è relegato nell’archivio affollato delle attività dismesse.

L’uomo tecnologico è creatura progressivamente e necessariamente (?) desacralizzata

Nei casi migliori: non superbo, non agnostico, non ateo, per volontà, ma per cessazione di rivelazione divina, (forse Dio si è stancato di parlare a un universo di sordi?) o forse perché la fede nel progetto tecnologico è totalizzante e non ammette distrazioni. Così l’immensa civiltà della tecnologia che ammanta i continenti è civiltà in cui la deità non risiede, perché non richiesta e conseguentemente non rivelata.
L’uomo nuovo fruisce della sua formidabile creazione, di un’edificazione imponente  e senz’anima, di una grandezza esclusivamente terrena. Egli ha ispirato la sua realizzazione e ora la contempla, scorgendovi il suo volto riflesso, e niente più. Qualsiasi curiosità di tipo escatologico o ultramondano non esiste, non lo riguarda.

L’uomo tecnologico e il suo cibo

L’uomo tecnologico ha esorcizzato l’atavica mancanza del cibo. Ha ideato percorsi preferenziali per favorirne la produzione, il trasporto e la vendita degli alimenti. L’uomo tecnologico ha vinto la guerra per il cibo. Per farlo ha dovuto desacralizzare gli alimenti: pane, vino e carne hanno definitivamente perduto la loro veste sacrale che li connotava. Il processo di spoliazione del sacro ha coinvolto gli animali che, in vita, non detengono più alcuna dignità tipica dell’essere vivente ma sono prodotti per diventare alimento. Si pensi all’oscena ed esecrabile catena di produzione delle carni bianche (mio zio aveva un macello di polli) o di carne da macello dai bovini progettati in laboratorio. Il cibo tecnologico è stato inventato dall’uomo tecnologico che ha sottratto all’animale ogni dignità; la produzione, organizzazione e distribuzione del cibo su scala industriale esige l’annullamento della creatura; il cibo/cosa non necessita di remore ingombranti e solo così può essere prodotto, come qualsiasi merce.

caccamo 2Le nuove cattedrali

L’uomo tecnologico ha investito e pianificato per la realizzazione di nuove cattedrali. Esse sono parte integrante e soggetto attivo del processo di negazione dell’ultramondo. Le nuove cattedrali sono i presidi del nuovo rito, luoghi di incontro, acquisizione della merce nata da esigenze indotte, poi divenute indispensabili perché a loro volta creatrici di sovrastrutture tecnologiche essenziali per la sovrapproduzione, cioè del superfluo. Alle esigenze primarie di cibo, indumenti, abitazioni e trasporti se ne sono aggiunte all’inverosimile. I banchi con ogni tipo di merce del supermercato ne sono esempio. Montagne di cibo, detergenti e vestiario. Nuovo nutrimento distribuito nelle cattedrali supermercato. Il cibo eucaristico sconsacrato giace sugli altari scaffali dei magazzini occidentali. Centri commerciali e mega supermercati costellano le nostre contrade, meta di un nuovo tipo di pellegrino: il consumatore tecnologico, protagonista dell’ultima fase di un rito desacralizzato che ha sostituito l’ostia con le confezioni di pollo nelle vaschette di polistirolo. Stiamo esagerando? No. La realtà descritta è giornalmente riscontrabile e in ogni luogo. I nuovi pellegrini aderiscono al rituale del consumo, la loro cattedrale è l’asettico e mistificatorio teatro del supermarket. Fra gli scaffali del supermarket si consuma il nuovo rito. La differenza c’è, mi pare.

Ma cosa c’entra il beato padre Giovanni Liccio da Caccamo con tutto questo? Semplice. Il frate domenicano è ciò che abbiamo perduto. Egli risiede agli antipodi dell’uomo tecnologico del quale ha preso il posto. Ogni testimonianza del frate domenicano manifesta la trascendenza, l’assidua presenza della luce divina. Il domenicano raccoglieva e affascinava col suo eloquio fedeli e non, convertendo incalliti peccatori. Testimone di quel legame fra terra e cielo, rinnegato dall’uomo tecnologico-consumatore. Il religioso siciliano, ancor prima di essere beato, irradiava la calda luce del Cristo, pronunciando parole redentrici, producendo miracoli e guarigioni. L’uomo tecnologico lo osserva, disincantato, immemore, forse scettico. Egli continuerà a bastare a se stesso, rinnegando l’uomo antico e l’immanenza dell’ultramondo che gli compete? Mah!

Giovanni Liccio da Caccamo era un frate domenicano, come il nostro amico, padre Angelo.

padre Angelo Zelio Belloni

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