-…Martino vieni qua…- e un lungo belato si levò dalla fornace ancora rovente entro cui i poveri resti del bianco agnellino erano stati gettati poco prima. Martino comparve, vispo e ubbidiente, andando a leccare la mano del futuro beato Giovanni Liccio di Caccamo che lo aveva chiamato a nuova vita
Il frate compiva con estrema semplicità, dicono i testi, sbalorditivi miracoli, come guarire i lebbrosi, con la sua sola presenza. Alla sua morte i 24 ceri accesi attorno al feretro arsero per due giorni e due notti senza consumarsi. Parlava con gli angeli, esaudiva la volontà della Madonna, ma, soprattutto era in stretto contatto con Dio.
Giovanni Liccio (Caccamo, aprile 1426 Caccamo, 14 novembre 1511) predicatore Domenicano e discepolo di Pietro Geremia. Papa Benedetto XIV lo dichiarò beato il 25 aprile 1753.
Il culto e la devozione del Beato Giovanni Liccio promossa dall’Ordine Domenicano si è diffuso in tutto il mondo, anche attraverso gli emigrati caccamesi. Nel 1997 vennero edificate e alui consacrate una cappella a Chicago (USA) e nel 2002 una chiesa a Monte de Los Olivos (Guatemala) .
È stato Padre Angelo Zelio Belloni, in visita alla cappella di Chicago, a farmi scoprire questa figura che rende omaggio alla nobile città di Caccamo. La città natale lo festeggia con crescente devozione. Perché ne voglio parlare?
Perché Giovanni Liccio è stato ed è tuttora un testimone, protagonista spirituale di assoluto rilievo. Catalizzatore fra terra e cielo, anello necessario per riflettere la potenza incommensurabile della luce divina. Non è indispensabile essere ferventi cattolici né credenti: occorre solo osservare gli uomini del passato e del presente. Le considerazioni vengono da sé. Giovanni Liccio appartiene allo sterminato elenco dei predestinati, dei servi di Dio; sorta di uomo divinizzato e illuminato.
Esseri che percorrono corsie preferenziali, sospesi fra terra e cielo, appunto, in una sorta di dimensione provvisoria e a temporale, in attesa di ricongiungersi all’infinita forza della deità. Creature semiperfette che emanano semplicità, serenità, concordia. Nella scala dei valori umani stanno su uno dei gradini più alti, basta loro alzare un dito per toccare il cielo.
Cos’hanno di così singolare? Qual’è il loro messaggio? La loro forza permane intatta (nel caso del frate siciliano perdura da 500 anni). Essi sono uomini antichi, sacerdoti del cielo, divinizzati dalla luce, oggi si confrontano con uomini diversi, mai visti prima. Non dico che fossero migliori, ma sicuramente diversi.
L’uomo nuovo è una creatura che ha impiegato gli ultimi 600 anni per definirsi e caratterizzarsi. Nato con Galilei, Keplero, Copernico, Newton. È l’uomo tecnologico di oggi, il cui credo è in ciò che vede, crea, sperimenta e progetta, affrancato, così almeno crede, dall’idea di Dio. L’uomo tecnologico è l’uomo post industriale, anello ultimo di una catena che rifiuta il sacro perché non sa più cos’è, ritenendolo superfluo, estraneo al suo progetto di vita. Non c’è più potere salvifico perché non c’è più richiesta di salvezza, di ulteriorità, l’atto del cercare il divino trascendente è relegato nell’archivio affollato delle attività dismesse.
L’uomo tecnologico è creatura progressivamente e necessariamente (?) desacralizzata
Nei casi migliori: non superbo, non agnostico, non ateo, per volontà, ma per cessazione di rivelazione divina, (forse Dio si è stancato di parlare a un universo di sordi?) o forse perché la fede nel progetto tecnologico è totalizzante e non ammette distrazioni. Così l’immensa civiltà della tecnologia che ammanta i continenti è civiltà in cui la deità non risiede, perché non richiesta e conseguentemente non rivelata.
L’uomo nuovo fruisce della sua formidabile creazione, di un’edificazione imponente e senz’anima, di una grandezza esclusivamente terrena. Egli ha ispirato la sua realizzazione e ora la contempla, scorgendovi il suo volto riflesso, e niente più. Qualsiasi curiosità di tipo escatologico o ultramondano non esiste, non lo riguarda.
L’uomo tecnologico e il suo cibo
L’uomo tecnologico ha esorcizzato l’atavica mancanza del cibo. Ha ideato percorsi preferenziali per favorirne la produzione, il trasporto e la vendita degli alimenti. L’uomo tecnologico ha vinto la guerra per il cibo. Per farlo ha dovuto desacralizzare gli alimenti: pane, vino e carne hanno definitivamente perduto la loro veste sacrale che li connotava. Il processo di spoliazione del sacro ha coinvolto gli animali che, in vita, non detengono più alcuna dignità tipica dell’essere vivente ma sono prodotti per diventare alimento. Si pensi all’oscena ed esecrabile catena di produzione delle carni bianche (mio zio aveva un macello di polli) o di carne da macello dai bovini progettati in laboratorio. Il cibo tecnologico è stato inventato dall’uomo tecnologico che ha sottratto all’animale ogni dignità; la produzione, organizzazione e distribuzione del cibo su scala industriale esige l’annullamento della creatura; il cibo/cosa non necessita di remore ingombranti e solo così può essere prodotto, come qualsiasi merce.
L’uomo tecnologico ha investito e pianificato per la realizzazione di nuove cattedrali. Esse sono parte integrante e soggetto attivo del processo di negazione dell’ultramondo. Le nuove cattedrali sono i presidi del nuovo rito, luoghi di incontro, acquisizione della merce nata da esigenze indotte, poi divenute indispensabili perché a loro volta creatrici di sovrastrutture tecnologiche essenziali per la sovrapproduzione, cioè del superfluo. Alle esigenze primarie di cibo, indumenti, abitazioni e trasporti se ne sono aggiunte all’inverosimile. I banchi con ogni tipo di merce del supermercato ne sono esempio. Montagne di cibo, detergenti e vestiario. Nuovo nutrimento distribuito nelle cattedrali supermercato. Il cibo eucaristico sconsacrato giace sugli altari scaffali dei magazzini occidentali. Centri commerciali e mega supermercati costellano le nostre contrade, meta di un nuovo tipo di pellegrino: il consumatore tecnologico, protagonista dell’ultima fase di un rito desacralizzato che ha sostituito l’ostia con le confezioni di pollo nelle vaschette di polistirolo. Stiamo esagerando? No. La realtà descritta è giornalmente riscontrabile e in ogni luogo. I nuovi pellegrini aderiscono al rituale del consumo, la loro cattedrale è l’asettico e mistificatorio teatro del supermarket. Fra gli scaffali del supermarket si consuma il nuovo rito. La differenza c’è, mi pare.
Ma cosa c’entra il beato padre Giovanni Liccio da Caccamo con tutto questo? Semplice. Il frate domenicano è ciò che abbiamo perduto. Egli risiede agli antipodi dell’uomo tecnologico del quale ha preso il posto. Ogni testimonianza del frate domenicano manifesta la trascendenza, l’assidua presenza della luce divina. Il domenicano raccoglieva e affascinava col suo eloquio fedeli e non, convertendo incalliti peccatori. Testimone di quel legame fra terra e cielo, rinnegato dall’uomo tecnologico-consumatore. Il religioso siciliano, ancor prima di essere beato, irradiava la calda luce del Cristo, pronunciando parole redentrici, producendo miracoli e guarigioni. L’uomo tecnologico lo osserva, disincantato, immemore, forse scettico. Egli continuerà a bastare a se stesso, rinnegando l’uomo antico e l’immanenza dell’ultramondo che gli compete? Mah!
Giovanni Liccio da Caccamo era un frate domenicano, come il nostro amico, padre Angelo.