Xu dipingeva i suoi nudi?

Xu Beihong (1895-1953) chi era costui? Alzi la mano chi lo conosce, siamo in pochi a quanto pare, eppure Xu meriterebbe maggiore attenzione e con lui le sue opere, frutto di una precisa volontà di introduzione dell’arte occidentale in Cina previo adattamento al temperamento e alla cultura del suo paese. Gli esiti dell’operazione meritano attenzione. Mai prima di lui i cinesi avevano ammirato il corpo nudo di una donna. Ci pensa Xu a svelarla e con risultati che lascio a te commentare, e poi cavalli, la sua prima passione, cavalli al galoppo sfrenato, liberi e selvaggi ma anche deliziosi ritratti di mici che rivelano la sua passione per la natura. Xu è stato un autentico pioniere per avere introdotto nuovi canoni stilistici, sollecitando inedite suggestioni.

Basta ammirare i suoi nudi che, lontani da immediati e pedissequi erotismi, indagano il mistero del corpo femminile che libera una sensualità composta ma potente, immediata e primitiva, vibrazioni e suggestioni difficili da definire e che non ricorrono a facili ammiccamenti. Doveva avere chiari in mente precisi dipinti occidentali, come ad esempio la Venere del Velasquez quando dipinse i suoi nudi di schiena.

Non tutte le opere di Xu mi convincono, alcuni volti delle sue donne ad esempio, hanno qualcosa di duro, rigido, estraneo alla nostra idea del bello, dell’esteticamente gradevole ma sicuramente, anche se vestite, le sue donne emanano un indubitabile fascino sottilmente erotico. Con lui due culture millenarie e agli antipodi si confrontano trovando nella sua arte il loro interprete originale e acuto, capace di creare un punto di contatto fra due mondi lontanissimi, fra due sensibilità apparentemente inconciliabili. C’è molto Occidente nei suoi quadri e un po’ di Cina. Xu fa le cose sul serio e approfondisce la nostra scuola e le tecniche di composizione occidentale, studiando all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi, proprio qui acquisisce una solida base nella tradizione accademica occidentale.

Tornato in Cina, Xu diventa un convinto promotore introducendo l’arte occidentale insegnando, scrivendo, organizzando mostre. Quello che importa è capire che l’arte non ha davvero confini, che parla linguaggi universali solo apprentemente estranei, che trasforma, favorisce il dialogo fra i popoli, interpreta e rilegge gli stessi soggetti e ambienti con sorprendente innovazione. Evito facili retoriche ma le opere di Xu dimostrano che l’arte non ha patrie ne’ confini, essa parla immediatamentre al cuore e alla sensibilità di ognuno anche se questi vive in altri mondi e in altre culture. Pittore ed educatore fra i più apprezzati nella Cina moderna, Xu ha influenzato lo sviluppo della pittura cinese del XX secolo.

spedivamo artisti in Cina su richiesta?

Xiang Fei in armatura europea

Due delle teste di bronzo disegnate da Giuseppe Castiglione per il Vecchio Palazzo Estivo imperiale di Pechino sono state battute all’asta a Parigi per 30 milioni di euro, era il 2009; asta vinta da un cinese, certo Cai Mingchao, il quale però si rifiuta di pagare la somma sostenendo che: “questi oggetti appartengono alla Cina e devono tornare nel mio paese”. Ma chi è Giuseppe Castiglione? Nato nella parrocchia di San Marcellino a Milano. Gesuita e artista sopraffino, apprezzato da ben tre imperatori cinesi che vanno in visibilio per i suoi ritratti. Castiglione trascorre 51 anni nel Celeste Impero in qualitá di  pittore di corte dipingendo svariati soggetti. Il suo genere è unico, sorta di fascinoso compromesso fra pittura europea e canoni estetici della ritrattistica cinese del XVIII secolo. I ritratti dell’imperatore e delle sue concubine, straordinariamente apprezzati a corte, e dei cavalli imperiali, soprattutto il lungo rotolo dei cento cavalli e il dipinto verticale degli otto cavalli, conservati nel museo del Palazzo di Taipei lo consacrano a gloria imperitura, diventa un artista glamour, tenuto in altissima considerazione ancora oggi, al punto che nemmeno la rivoluzione rossa e riuscita ad affossarlo. Missionario in Cina, assume il nome di Láng Shìníng (郎世寧, Pace del Mondo).

L’imperatore Qianlong

Alla sua morte gli furono tributati onori imperiali, il rango di mandarino di seconda classe lo imponeva. La sua fama e la sua bravura come artista fecero sì che l’imperatore  Qianlong affidasse a Castiglione la progettazione e il completamento delle fontane e delle decorazioni dei padiglioni in stile occidentale all’interno dei giardini del Vecchio Palazzo Estivo. I padiglioni divennero un luogo favorito per i pomeriggi dell’imperatore e delle concubine. Purtroppo gli interi padiglioni occidentali vennero poi distrutti dalle truppe anglo-francesi nel 1860, oggi trovi solo le rovine. Se i Francesi non guastano qualcosa non sono contenti, quando non possono sottrarre opere d’arte altrui, soprattutto italiane, infatti le distruggono, Napoleone docet. Nell’aprile 2015 la Jiangsu Broadcasting Corporation ha trasmesso un documentario su di lui raccogliendo una audience di oltre 360 milioni di telespettatori.

Nel 1990 capolavori di Castiglione furono portati a Torino per una mostra nel palazzo reale di Venaria.
Nel 2007 la mostra “Capolavori dalla città proibita. Qianlong e la sua corte” organizzata dalla Fondazione Roma nel Museo di via del Corso, ha esposto quattro capolavori di Giuseppe Castiglione prestati per l’occasione dal Museo della Città Proibita di Pechino.
Nel 2015 (dal 31/10 al 31/01/2016) l’Opera di Santa Croce, a Firenze, allestisce la mostra “Nella lingua dell’altro. Giuseppe Castiglione gesuita e pittore in Cina”: è la prima mostra monografica sul pittore in Italia, organizzata in collaborazione col Museo del Palazzo Nazionale di Taipei per celebrare il terzo centenario dell’arrivo di Castiglione in Cina. Queste e altre notizie in dettaglio le puoi trovare su internet.

Caccia al cervo

Quello che mi preme aggiungere in calce è che noi esportiamo e realizziamo cultura, bellezza, arte, da sempre, che artisti italiani sono tra i migliori al mondo, se non peccassi di campanilismo e faziosità direi che sono i migliori al mondo, che tutti ci conoscono, apprezzano e stimano. Che l’eredità dei sommi maestri del passato è presente nel DNA italico in misura cospicua, rendendo di riflesso unica e ammirata la penisola. Ma c’è un ma. Cosa fanno le odierne istituzioni della penisola per promuovere il genio italico, per scovare, incoraggiare e lanciare artisti e opere degne di essere esposte alla National Gallery o in qualsiasi altro prestigioso museo internazionale? …Niente.

la donna era regina?

Federica è una giovane blogger romana alla quale piace TI RICORDI QUANDO…? Ho scelto alcuni suoi post che nel tempo pubblicherò, questo è il primo anche se la festa della donna è appena trascorsa. L’ho scelto per la sua freschezza e spontaneità. Sulla condizione della donna di oggi ci sarebbe molto da dire, oltre alle banalità che leggo ogni giorno, perché essa merita molto di più. Sicuramente riprenderò il tema proposto da Federica, accennando anche a una donna, ai più sconosciuta, una pittrice di enorme talento che mi fu grandissima amica e con la quale parlavo proprio delle pittrici ricordate nel suo post.
Federica ama l’arte e la cultura non solo italiana e non solo al femminile. Ecco quello che Federica scrive sulla donna:

La Giornata internazionale dei diritti della donna, ricorre l’8 marzo per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in molte parti del mondo. Moglie, madre, comunque donna, indiscussa protagonista del proprio tempo, nelle sue molteplici valenze.

Fin dall’antichità la figura femminile è stata protagonista della storia umana, ma anche come essenza di vita, compagna, modella, fonte di inesauribile ispirazione artistica e rappresentazione simbolica e filosofica di valori fondanti nelle diverse culture e regioni del mondo. Ecco come la donna viene rappresentata e valorizzata grazie alla storia dell’arte

Evoluzione nella rappresentazione della donna

Nell’iconografia antica, la donna era associata alla fecondità, alla bellezza e l’armonia. Ma furono i Greci che si avvicinarono ancor di più all’immagine della donna madre o dalla vergine vestita, passando al nudo puro dell’Afrodite. Nell’arte romana e bizantina tornò invece la figura ricoperta di vesti fluenti, dove aumentò lo sfarzo e la raffinatezza.

Si passò poi all’iconografia medievale, influenzata dalla diffusione del Cristianesimo. La donna appariva sacra, mistica e svuotata di ogni connotato sensuale. Furono per questo dipinte soprattutto Madonne e Sante. Con il profondo rinnovamento dell’arte rinascimentale, la donna viene vista in tutti i suoi aspetti fisici ed introspettivi, quindi sia esuberante e sensuale che semplice e graziosa.

Le grandi artiste della storia dell’arte
Nella storia dell’arte, raramente troviamo un’artista di sesso femminile. Solamente dal 1500 vi fu un contingente numero di donne dedite all’arte, anche se la maggior parte figlie di artisti noti. Tra queste Marietta Robusti, Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana, Barbara Longhi e tante altre.

Ma è l’800, con il movimento Romantico, ad abbattere tutti i preconcetti sulla figura femminile nell’arte, segnando un punto di non ritorno nell’affermazione delle donne. Ed infatti questa accresciuta consapevolezza si vedrà soprattutto nel Novecento che vede le donne praticamente affiancate agli uomini. Citiamo Natalia Goncarova, Frida Khalo, Tamara de Lempicka.

Federica dice di sé: sono laureata in Storia dell’arte, uno degli indirizzi della Laurea in Beni Culturali. L’arte, in tutte le sue forme, è sempre stata al centro della mia vita. Non solo intesa come il quadro da contemplare, ma anche come musica, danza, scrittura, pittura.

FEDERICA

Artemisia fu violentata sulla sponda del letto?

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne»
Lo stupratore si chiamava Agostino Tassi. La vittima Artemisia Gentileschi. Lui: ceffo di talento, virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil con cui Orazio Gentileschi, padre della vittima, collaborava nel dipingere la loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Fu proprio lui nel 1611 ad “affidare” la figliola alla guida di Agostino «lo smargiasso» – come era sovente soprannominato il malandrino stupratore, dal carattere iracondo e dalla fedina penale compromessa e pare anche mandante di alcuni omicidi. Ciononostante, il padre di Artemisia aveva grande stima di Agostino, che frequentava assiduamente la sua dimora, felice di iniziare Artemisia alla prospettiva. Come andrà a finire te l’ho appena detto. Artemisia Gentileschi è una delle piu grandi pittici europee. Alla National Gallery le sue tele stanno al pari coi piu grandi pittori del Seicento. La sua traumatica vicenda umana pare fatta apposta per suscitare indignazione e scalpore al di là dei secoli, non so se le femministe di oggi ne sono al corrente. Si sa chi l’ha denigrata, diffamata e offesa e anche chi l’ha apprezzata, si sa come sia stata torturata per farla meglio confessare rischiando di compromettere per sempre la sua capacità di dipingere rompendole le dita, umiliata più volte di fronte a chi doveva verificare mediante ispezione ginecologica il fattaccio, svergognata infine e insultata anche dopo morta da quanti non credevano alla sua innocenza. Un crudele e malvagio epitaffio dedicatole dai veneziani Giovan Francesco Loredano e Pietro Michiele (Venezia 1653), recita infatti: in cui si ironizza sul suo nome Arte / mi / sia / Gentil / esca:  Co’l dipinger la faccia a questo e a quello Nel mondo m’acquistai merto infinito Nel l’intagliar le corna a mio marito Lasciai il pennello, e presi lo scalpello Gentil’esca de cori a chi vedermi Poteva sempre fui nel cieco Mondo; Hor, che tra questi marmi mi nascondo, Sono fatta Gentil’esca de vermi.

Quello stupro non venne mai cancellato, vergogna, umiliazione, rimorso marchiarono per sempre la giovane. Per riabilitarla occorse un matrimonio riparatore, non troppo ben riuscito, visto che il marito si indebitava che era un piacere, e poi venne il consenso, il plauso verso la sua pittura di impronta caravaggesca dove le figure di donne forti abbondano scandirono i suoi anni a venire, cosi che venne prima ricordata per la sua vicenza umana che per le sue doti di grande artista. Così scrive l’enciclopedia del mondo, nostra sorella Wikipedia:
L’iniziale fortuna critica della Gentileschi fu fortemente allacciata anche alle vicende umane della pittrice, vittima – com’è tristemente noto – di un efferato stupro perpetrato da Agostino Tassi nel 1611. Questo fu indubbiamente un evento che lasciò un’impronta profonda nella vita e nell’arte della Gentileschi, la quale – animata da vergognosi rimorsi e da una profonda quanto ossessiva inquietudine creativa – arrivò a trasporre sulla tela le conseguenze psicologiche della violenza subita. Molto spesso, infatti, la pitturessa si rivolse all’edificante tema delle eroine bibliche, quali Giuditta, Giaele, Betsabea o Ester, che – incuranti del pericolo e animate da un desiderio turbato e vendicativo – trionfano sul crudele nemico e, in un certo senso, affermano il proprio diritto all’interno della società. In questo modo Artemisia è divenuta già poco dopo la morte una sorta di femminista ante litteram, perennemente in guerra con l’altro sesso e capace di incarnare sublimemente il desiderio delle donne di affermarsi nella società.

Questa lettura «a senso unico» della pittora, tuttavia, è stata foriera di pericolose ambiguità. Molti critici e biografi, intrigati dall’episodio dello stupro, hanno infatti anteposto le vicende umane della Gentileschi ai suoi effettivi meriti professionali, interpretando dunque la sua intera produzione pittorica esclusivamente in relazione al «fattore causale» del trauma subito in occasione della violenza sessuale. Gli stessi storici contemporanei della pittrice misero disonorevolmente in ombra la sua carriera artistica e preferirono interessarsi piuttosto alle implicazioni biografiche che ne segnarono tragicamente l’esistenza. Il nome della Gentileschi, ad esempio, non compare nelle opere del Mancini, Scannelli, Bellori, Passeri e altri illustri biografi del XVII secolo.


Te ne parlo perche il “poco” che si vede della sua pittura alla National Gallery incanta. Quando ancora si poteva andarci e cioè prima del Covid. Ci ritrovi uno sguardo fermo, dolce, diretto, a tratti vagamente canzonatorio, che sostiene lo sguardo dell’osservatore con aria di vaga sfida, o e solo una mia impressione? Il suo autoritratto nelle vesti di Santa Caterina di Alessandria .

Te ne parlo anche perché la sua figura e la sua opera insieme a quella di Rosalba Carriera compariva spesso nei discorsi che facevo con Matilde Izzia, mia grandissima amica dei cui dipinti mi piace riportare quello sulla destra.
Una tragedia e uno stupro del Seicento proiettati nel mondo di oggi, dove, pare proprio che la mania di offendere e calpestare le donne abbia preso nuovo vigore.
In soli in tre anni di apprendistato la Gentileschi aveva raggiunto una competenza equiparabile a quella di artisti maturi:[5] Questo puoi leggere su di lei scorrendo Wikipedia: una celebre missiva che il padre Orazio inviò alla granduchessa di Toscana il 3 luglio 1612, nella quale egli affermava con vanto che la figlia in soli in tre anni di apprendistato aveva raggiunto una competenza equiparabile a quella di artisti maturi:[5] «Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere» Da questa lettera, dunque, si può facilmente dedurre che la Gentileschi sia divenuta artisticamente matura tre anni prima del 1612: nel 1609, per l’appunto. Ma lo stupro resta, a macchiare e a riconfermare ancora una volta la nefanda reputazione del maschio di ieri e di oggi.

c’era ancora l’arte?

Non dirmi che non te ne sei accorto! Come: di cosa? Del fatto che si sia estinta, e che se vuoi rintracciarla ancora devi aprire le pagine di un libro gigantesco che si chiama Passato e andare indietro di mezzo secolo o poco più. La puoi trovare ancora, per esempio, andando nei musei, in una galleria di quadri o di sculture, in qualche cinema d’essai (ma ne esistono ancora?) o in una biblioteca, oppure a teatro, a goderti Lo Schiaccianoci o qualche vibrante concerto di musica classica. Oppure col naso in su visiti le città italiane, che si chiamano, indovinate un po’? Città d’arte, per l’appunto. Lì ancora gli esempi abbondano. Fanno testo essendo bene comune e condiviso. Luoghi dislocati ovunque, come piovesse, nell’italica penisola e un po’ meno in altri luoghi, sparsi per il mondo. Vuoi che tiri un sasso in piccionaia? Tanto la piccionaia è deserta da anni. L’arte è morta, come del resto è accaduto al Dio cristiano (così dicono molti esperti). Per cui ti chiedo: Ti ricordi dell’arte? Scomodando Wikipedia veniamo a sapere che: L’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Nel suo significato più sublime l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano.

Non ci piove, non fa una grinza. E allora beccati questa a proposito dell’interiorità e dell’animo umano: Sai quanto vale l’orinatoio di Du Champ? Te lo dico io. Ho sbirciato su Wikipedia che scrive: Il prezzo più alto attualmente raggiunto da una replica, edizione o lavoro contenente tracce dell’opera originale, è quello di una delle otto copie che Duchamp fece realizzare nel 1964. Il suo prezzo è pari a 1,7 milioni di dollari, e venne acquistata tramite Sotheby’s nel 1999. Hai capito bene: un pisciatoio, ovvero l’arte è morta, perché in una pisciata non ci può essere ispirazione, ma solo sollievo di sgravarti la vescica, o in un barattolo il prodotto di una (vera?) defecazione, pare infatti che dentro le scatolette numerate ed etichettate di Piero Manzoni ci sia gesso e non cacca di artista. Il contenuto di dubbia origine messo in barattoli di latta dall’artista e conservati nei più importanti musei del mondo assume il suo significato preciso fatto di polemica e critica. Pare che Manzoni avesse voluto polemizzare (giustamente) contro il mondo del mercato dell’arte mettendo in scatola della cacca o del gesso. Pero adesso la cacca rimane, boh! Al posto di Madonne, angeli, guerrieri, nature morte, paesaggi e sbalordenti ritratti di insigni maestri c’è urina e feci e il taglio sulla tela di Fontana, Chiaro il concetto? Ovvero la morte dell’arte, uccisa da chi dell’arte se ne intende, ossia dal mercato, ma non solo da quello, ovvio. Ti risparmio l’evoluzione della definizione di arte nei millenni. Essa ha subito varie modifiche, ampliamenti e correzioni. Giordano Bruno, condannato a morte sul rogo, uno dei primi pensatori a prefigurare idee moderne, disse che: “… la creazione è infinita, non c’è un centro e non ci sono limiti – né Dio né l’uomo – tutto è movimento, dinamismo. Per Giordano Bruno, “esistono tante arti, quanti artisti, introducendo il concetto di originalità dell’artista. L’arte non ha regole, non si apprende, ma viene dall’ispirazione”. Pía Figueroa Co-Direttrice di Pressenza, umanista di lunga data, autrice di numerose monografie e libri. (così lei scrive, tradotta da Annalisa Pensiero ) dice che: Oggi, nel bel mezzo di una grande destrutturazione globale, in un momento in cui impera la coscienza disillusa, dove gli esseri umani non vedono un futuro chiaro, dove crescono l’isolamento e la violenza, gli artisti devono proporci di fare una scelta chiara a favore della vita e di una cultura ispirata da e per il futuro. Torniamo a noi: alla base dell’arte, di qualsiasi arte, c’è l’ispirazione; un impiegato, un postino, un taxista non hanno bisogno di essere ispirati, fanno il loro lavoro e basta, con o senza partecipazione, dipende. Correggimi se sbaglio. Ma un artista no, ha bisogno dell’ispirazione, del, come si diceva una volta, fuoco sacro, che, se canalizzato e reindirizzato, crea l’opera d’arte. Per farlo ha bisogno del combustibile, e cioè dell’ispirazione: Secondo il pensiero greco, un poeta era ispirato quando cadeva in estasi e veniva trasportato al di fuori della sua mente, a contatto con i pensieri di Dio. Le divinità che concedevano l’ispirazione erano le Muse, guidate da Apollo. Per i poeti italiani del Dolce stil novo le Muse ispiratrici erano invece le proprie dame, donne trasfigurate in creature angeliche, simbolo di un ideale irraggiungibile per quanto riguarda l’Occidente. L’artista nella sua ispirazione più genuina si sente in dovere di esprimere una sintesi (poetica, in senso lato) della realtà in cui gli tocca vivere, usando il linguaggio della metafora, dell’allegoria o del simbolo. L’ispirazione, quando possiede sufficiente carica affettiva, quando ribolle, quando si sperimenta come un turbamento interiore che si sforza di manifestarsi attraverso la parola, la forma o il colore, i suoni armonici, il corpo, ecc. spiega un particolare stato di coscienza che puó invadere il sogno, l´insogno e la veglia. Così si vive l’esperienza artistica, come un invito ad esprimere un sentimento profondo, accompagnato da un forte impulso a voler essere liberi di creare, di sentirsi trasformati. dice ancora Pía Figueroa. Di cultura e informazione su arte e ispirazione e pensiero creativo, te ne puoi fare quanta ne vuoi. Io dico che l’arte può essere anche protesta, o denuncia, come Guernica e certi murales dimostrano o come quella di Jean-Michel Basquiat, che sconcerta ma coinvolge, oppure le ossessioni psico oniriche di Francis di Bacon che personalmente non ardirei di mettere in soggiorno. O, come diceva Picasso: L’ispirazione esiste, ma deve trovarti già al lavoro. Quello che sostengo io, è che l’arte non è più merce facilmente riscontrabile al giorno d’oggi. Non escono più dalle botteghe del Verrocchio: Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, Francesco Botticini, …L’Arte non informa più un’intera epoca dell’uomo come ha fatto da noi per il Rinascimento e senza riferirsi a quelle vette probabilmente irripetibili, non è più pane quotidiano condiviso, per constatarlo devi andare nei cimiteri, (reali, come quello di Milano e Genova o di Londra e metaforici che, sempre se nessuno si offende, visto che anch’io sono italiano, sono costituiti dall’intera nostra penisola.) Ovvero tracce, reperti, tutta la nostra bellezza che il mondo ci invidia, ma noi lo sappiamo che ci invidiano? Frutto di una ispirazione morta e sepolta, di un segno creativo inimitabile che prima parlava esclusivamente del sacro e poi dell’uomo nuovo e anche del ricco commerciante delle Fiandre che si autoeleogiava nei suoi ritratti, poi di papi, dogi, re e regine e…, beh lo sai anche te che la lista risulta interminabile, e poi non ha parlato più di nulla l’arte, auto dissoltasi, prova a pensarci. Cosa vai a vedere a Pisa? a Firenze a Urbino e a Siena o a Venezia e a Napoli e Palermo, vai a vedere la colonna spezzata, il marmo corroso, le mura cadenti, il bello, il mito, la grandezza estinta seppur tenuta in vita, ovvero il passato, piazze, chiese, fontane, ponti e statue, a valanga, la bellezza pura o riflessa che si disfa e che tu restauri ma che si disfa ancora, le perfette proporzioni, il genio reinterpretato, in tutte le declinazioni possibili. Ovvero casa nostra, dove abbiamo vissuto per millenni. Si tratta di un dato di fatto, riscontrabile e sotto gli occhi di tutti. Ma facci caso, vai a vedere il Passato, qualcosa che è stato fino a poco tempo fa, e che ci ha resi grandi e unici al mondo.

E che non è più. Come vedi non ho messo immagini, non sapevo cosa e perché metterle. Anzi, no, ci ho ripensato. Una immagine la voglio mettere. Un’ “opera” e il suo artefice che non ha bisogno di presentazioni, mettendo egli la parola FINE al valore e al significato dell’arte.

dipingeva sir Frederic Leighton?

.
Gli splendori vittoriani nella pittura del grande Frederic Aveva 25 anni quando nel 1855 Frederic Leighton vende un suo dipinto per 600 ghinee. L’acquirente? La regina Vittoria. Da quell’istante l’inarrestabile successo che lo porta a diventare baronetto e pari del regno, anche se per sole 24 ore (morirà il giorno dopo l’investitura per angina pectoris). Lord Frederic Leighton fu pittore raffinato e colto, un gentiluomo che parlava cinque lingue, gran viaggiatore e presidente della prestigiosa Royal Academy of Arts. Si sentiva a suo agio in tutti i salotti londinesi e fu cospicuo il successo della sua pittura presso i contemporanei. La sua pregevole collezione andò dispersa alla sua morte, scrive Giovanni Biglino sul settimanale IL NOSTRO TEMPO…Le sue due sorelle

Alexandra e Augusta non riuscirono a mantenere la proprietà, organizzarono presso Christies una serie di aste, smembrando così una collezione lunga una vita intera. La sua pittura interpreta e descrive un’epoca. Il trionfo dell’impero britannico si riflette nelle atmosfere e nei soggetti che Leighton sa magistralmente creare. E allora sono gli incantevoli ritratti femminili, la serenità della mamma e della sua bimba che le sta porgendo una ciliegia, la compostezza plastica della BACCANTE, lo splendore luminoso di donne con fiori, frutta e canestri intrecciati. Tutto è composto, godibile, equilibrato. I soggetti sono appagati, vivono in una dimensione olimpica, ovattata, irreale. O quasi. C’è la consapevolezza di uno status acquisito, di una ricchezza (anche interiore?) ormai raggiunta. Nei suoi dipinti affiora la nostalgia verso un’età arcadica, l’epoca dell’oro. Una visione idealizzata dove il mito greco romano è padrone. Donne mollemente sdraiate, discinte, molte delle quali nude, oppure avvolte in ampi drappeggi, simili a nuvole di stoffa. Scene di trionfi dove abbondano le corone di alloro, i drappi, le insegne della gloria. Leighton sembra voler rappresentare l’appagamento dello spirito, la sublimazione dei valori della società inglese ottocentesca. In LA LEZIONE DI MUSICA le due figure femminili sono così assorte, alle prese con una lunga mandola, che nulla sembra poterle turbare. E così è per le due giovani che dipanano una matassa di lana sulla riva del mare. L’uomo mitizzato ha spesso sembianze efebiche, si sazia di una gloria maturata altrove, in precedenza. Spesso trasfigurato in pose eroiche, ma molli; è anche il caso del famoso DEDALO E ICARO, pronto per il volo. Fin qui la prima lettura, di questo magnifico arazzo fatto da eroi dalla virilità vellutata, ricco di donne assorte nella delizia di un eden (artificiale?) fatto di appagamento, sontuosità, voluttà. Proviamo a mutare l’angolo di osservazione e una seconda dimensione affiora, inquietante. Nella pittura di Leighton non troveremo mai, per intenderci, l’esplicito e angoscioso ritratto di Ofelia di John Everett Millais del 1852, attratta verso il basso dalla morte. Occorre ricercare verso altre direzioni.

Cosa rappresentano, ad esempio, quei cetacei neri e guizzanti, alle spalle della bagnante nuda sulla spiaggia? Una minaccia emergente dall’inconscio, forse? Così è per il drappo nero, così funereo da apparire premonitore per Icaro, e con la statua di Minerva che volta loro le spalle, così è per IL GIARDINO DELLE ESPERIDI, perse in un paradiso di luce dorata (e di incoscienza?) accosciate sotto l’albero delle mele d’oro; protette o piuttosto prigioniere di un poderoso serpente. Un altro segnale dell’inconscio? Come non rimanere abbagliati dallo splendido e famoso ritratto della giovane dama in nero, vestita da una nuvola di stoffa? Grazia, delicatezza, equilibrio, tutto sembra perfetto, tutto pare suggerire una disposizione dello spirito armonica e equilibrata, in virtù del raggiungimento di una situazione sociale, psicologica appagante. È la perfezione della moda, dell’eleganza, dello stile che trionfano in questa figura intera, dove anche il dettaglio dei guanti e del candido merletto attorno al collo incantano. Davanti a questo quadro sembrano sparire i nostri sospetti, gli indizi di un mondo in procinto di frantumarsi si allontanano. l’inquietudine e i dubbi ritornano, attratti come siamo, dallo sguardo ammaliatore di PAVONIA che ci mostra una

giovane donna con lunghe sopracciglia, dalla chioma spessa e lucente: come non rintracciarvi una delle tormentate creature di Edgar Allan Poe, colta in un momento di serenità? Solo suggestioni, letture e interpretazioni avventate? Può darsi. Ma nell’apollineo paesaggio tratteggiato da Lord Leighton si celano comunque le insidie di un mondo al suo apogeo, le crepe appena visibili eppure reali, di un impero che festeggia i fasti della scienza e dell’etica del lavoro, anche se Engels scrive in quegli anni, (era il 1845 per l’esattezza) ne: LA SITUAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA IN INGHILTERRA: Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta, quaranta ore di seguito, e cioè parecchie volte alla settimana e conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe… La sbalorditiva esposizione universale di Londra nell’immenso Crystal Palace del 1851 esprime il tentativo di celebrare le conquiste dell’ingegno e le meraviglie del mondo, fra queste uno smeraldo gigantesco, dono del Maraja indiano. Un catalogo di meraviglie dal futuro incerto. Marx, Freud e i nuovi narratori Stevenson, Hardy e Conrad, con la loro rivoluzionaria e inedita visione del mondo, bussano già alle porte.

sei andato a vedere la mostra di Ligabue a Milano?

Milano. Palazzo Reale – 2008. Son passati undici anni! E mi ricordo come fosse ieri. E poi dicono l’età! Non andate a vedere i suoi dipinti a stomaco vuoto come ho fatto io se ci fosse un’altra mostra in programma su di lui. Che mi sono trovato alle prese con una serie di opere emozionanti e commoventi insieme, autentiche emanazioni di una energia psichica fortissima. Purtroppo, l’indicazione non servirà a molto visto che la mostra si è chiusa a novembre 2008. Stiamo parlando della fantastica esposizione di tele del grande folle, a Palazzo Reale di Milano, curata da Augusto Agosta Tota.

Di quel Ligabue che spaventava donne e bambini, ringhiando e spaccandosi la testa con dei sassi. Un grande, un monomaniaco, uno che per tenersi tranquillo aveva bisogno di farsi l’autoritratto. Per centoventitre volte ritrae la sua faccia, torva, triste, scomposta, con quell’occhio che ti fissa, inquietante. Il suo viso non è altro che una serie di ritratti psichici, come poteva vedersi lui, scomposto e ferito. Il grande pitur  che girava sulla moto, che andava dentro e fuori ospedali psichiatrici e che si rabboniva solo al cospetto della tela da dipingere. I suoi oli su tela, compensato e faesite mostrano galli che si azzuffano, cieli plumbei che incombono, paesini svizzeri sospesi a mezz’aria mentre poderosi cavalli da tiro imbizzarriscono in mezzo al campo. Un’opera complessa, un’emozione che ti prende le viscere e poi il cervello. Ti riporta al primordio, a come doveva essere la terra non troppo tempo fa (quella dei nostri nonni, per capirci). E poi ci sono gli occhi, tremendi, che scrutano e minacciano. Occhi di gattopardo, tigre, leopardo e di volpe, ci sono le ali possenti dei rapaci che predano volpi, e quelli micidiali della Tigre-ossessione, visione, scultura pittorica che si deforma, che ti mostra ugola e tonsille, tigre che a un certo punto ti pare un fiore che vibra e si scioglie. Tante parole di studiosi su questo grande protagonista della pittura, che non vogliamo ripetere. Quello che abbiamo rilevato, soffermandoci davanti alle sue tele, è pura inquietudine e una sorta di energia emozionante e tuttavia casalinga, assai vicina a noi e ricca di simboli. La natura come doveva essere, anche mostruosa, cieca, piena di insetti giganteschi, così pericolosi da minacciare un grande felino. Ma non è solo questo.

Qualche studioso, l’ho letto alla mostra, ha scritto che Ligabue dipingeva e si ritraeva per controllare quella natura, per confrontarsi con essa, col giaguaro e la tigre e con la volpe e il cavallo, ma anche con gli insetti ripugnanti e gli scorpioni, la magnificenza dell’aquila  e della sua furia regale e il disgusto davanti dell’enorme ragno che attacca; un tutt’uno, senza differenze: è la Forza che erompe dai suoi quadri; la sua follia gli serviva a capire, a farsi strumento di comprensione di forze telluriche e sotterranee, gli serviva per mediare, attraverso il grande orecchio, il grande occhio, la faccia da matto. L’Italia comincerà ad apprezzarlo dopo morto, normale, no? Lo scimmiottava. Lui al quale era difficile parlare, diffidente, geniale, solitario, e anche sgradevole e pieno di bizzarrie. Mentecatto che allude a una forza primordiale, sprigionata dalla palma, dall’espressione ottusa di un equino, dal balzo ripetuto dieci, venti, cento volte del giaguaro, della tigre, mentre teschi umani sorridono, quasi innocui, testimoni di vite trascorse, parallele a quella che ospita la grande energia. Ligabue si rappresenta come Napoleone a cavallo: volontà di potenza? Mah! Il quadro non è stato finito. Ligabue-Napoleone cavalca verso il nulla che è una macchia bianca, verso un luogo non finito. Basterebbero le poche sculture di bronzo a farlo grande. La scimmia, i cavalli, i felini che lottano, e ancora la sua faccia, assorta, che ti scruta. Un grande del ‘900. Antonio Ligabue sta a ricordarci che là fuori, lontano dalle convulsioni metropolitane c’è il nostro passato, l’energia cieca che ci ha plasmato: parenti del bue, del cavallo possente che ara, della mosca, del babbuino e dello scorpione. Ligabue ci grida che siamo parte di quella energia possente. I suoi animali diventano altrettanti simboli. Obbedienti a forze ancestrali, della pura natura madre assassina.  Ecco perché molte delle tele sono ripetitive, perché Ligabue raffigura simboli e forze allo stato puro nell’atto di aggredire: il leopardo che azzanna, la tigre che minaccia, l’aquila che assale. Forze agenti per mezzo di (poche) figure. Simboli e figure a loro pertinenti. Negli animali e negli insetti troviamo parti di noi, schegge della natura che ci ha forgiato. E come fai a non trovarti a casa nella sua jungla? Come fai a non emozionarti? Le sue tele ritraggono luoghi e incontri che l’uomo della metropoli momentaneamente diserta. Momenti della psiche incubo rappresentati da scorpioni, vermi, ragni giganteschi e pelosi. I dipinti di Ligabue raffigurano un mondo non ancora perduto; sono il nostro passato prossimo. Il nostro io animale, pianta, cielo, uragano. Forze che non possiamo eludere. Ragni giganteschi, scorpioni, aquile regali e giaguari pronti al balzo. Dimorano nella nostra jungla-psiche, nel nostro io più autentico in cui il pittore pescava a piene mani. Immedesimandosi di volta in volta nel serpente, nel cavallo, nella tremenda faccia da tigre e poi ci sono i ritratti di donne e uomini di un’intensità senza precedenti. Ritratti di volti che emanano una forza magnetica e coinvolgente. Dipingeva il nostro io-bestia-sguardo svelando l’occhio, orecchio artiglio, frugando nella natura più profonda e oscura.
 Illuminante nel catalogo della mostra edito da Franco Maria Ricci l’intervento di Vittorio Sgarbi: …Un genio quello di Ligabue, che nella sua assoluta istintività, nella sua arcaica complicità con la natura, era in grado di inserirsi a pieno titolo nell’arte contemporanea, proponendo un linguaggio figurativo che parla di cose semplici a persone altrettanto semplici. Ligabue ha avuto il merito di rappresentare in modo decisivo forme di espressione che hanno trovato enorme consenso presso la grande anima contadina dell’Italia, un’Italia minacciata dal progresso industriale, civile, intellettuale…

Non posso avere figli, mi rimane l’arte

settembre 105Bon, chiuso, stop. Non se ne parla più di figli, Non posso averne, del resto ho la mia età. Aldo è distrutto, a chi andranno le sue cose? Il titolo nobiliare, e i suoi studi! La nostra casa, le nostre idee, tutto il suo archivio di storico?! Abbiamo amici, d’accordo, possiamo guardarci intorno, un erede adottato? Ma mica è la stessa cosa, e poi la faccenda non mi piace. Gli amici sono amici e basta. Non c’è il figlio? Pazienza, è andata così, mica c’è da impazzire, invece Aldo non mangia e non dorme. Gli passerà, sta preparando altri libri, altri scritti. Intanto io non mi rassegno a fare la madre fallita e qui sono dietro casa mia, al Romito, in una bella giornata d’ottobre. La vita deve andare avanti! Con o senza figlio, anche se a pensarci mi viene un magone pazzesco, per me, ma soprattutto per Aldo.

Un dipinto inedito eccezionale, di grande suggestione

Quadro di Matilde Izzia.jpgMatilde si muoveva raramente, organizzò un lungo, e per lei faticoso viaggio, e venne a portarmi il quadro, che si vede di fianco,  nella mia casa in Brianza, in provincia di Milano, dove allora abitavo. Insieme al quadro mi portò, però, anche una voluminosa cartella, di quelle grandi, da pittore, con dentro decine di fogli da disegno constudi vari e abbozzi di figure che riguardavano tutti Padre Pio. A quanto ho potuto capire in seguito, osservando quei disegni, in quel periodo, anni 1994-1995, Matilde Izzia deve avere dedicato molta attenzione al “frate con le stigmate”. In quei grandi fogli ci sono abbozzi per una specie di storia dei momenti emblematici della vita del santo: le estasi, le visioni, le stigmate, le guarigioni, Padre Pio che insegna, Padre Pio che soffre, Padre Pio che prega: scene che richiamano le storie popolari come venivano raccontate negli antichi ex voto. Matilde deve aver meditato a lungo sulla vita e sul messaggio di Padre Pio e deve essersi impegnata con passione per cercare modi significativi per raccontarlo con la sua arte. Non so se poi abbia realizzato i quadri abbozzati nei disegni, ma il suo progeera importante e grande. Di tutto questo avrei voluto parlare con Matilde, ma non ho potuto farlo perché, dopo quell’incontro, non l’ho più vista. Non so perché abbia voluto portarmi, insieme al quadro, tutti quei disegni riguardanti la sua ricerca pittorica su di lui. Forse voleva ringraziarmi perché, con i miei libri, avevo contribuito ad aumentare la sua conoscenza di Padre Pio. Può darsi, ma non lo so. E quando guardo il quadro che sta nel mio studio, mi sembra di vedere, accanto alla figura di Padre Pio, Matilde che, con un sorriso dolce ed enigmatico, mi scruta. In quel quadro, Matilde ha ritratto Padre Pio secondo un piano americano. Il religioso tiene le braccia aperte e mostra le stimmate delle sue mani dalle quali escono vistosi rivoli di sangue. È un quadro sereno e gioioso. Il colore dominante è il marrone chiaro del saio francescano, che si spande, come una luce soffusa e discrete, per tutta la tela, anche sul volto del personaggio, che è incorniciato dalla barba bianca e da corti capelli grigi. La testa del santo è appoggiata a una grande croce di luce, intorno alla quale danzano oggetti imprecisati, rotondi, di varie dimensioni, di color marrone chiaro, con al centro macchie bianche, che creano una atmosfera di festa e che potrebbero richiamare presenze soprannaturali, angeli, astri, pianeti e cose del genere. Il volto di Padre Pio è quasi sorridente. Ma di un sorriso che palesa anche un dolore acuto, espresso con la tipica contrazione facciale di chi ha nel corpo una piaga viva, aperta, martellante, e sta attento a  non fare movimenti inopportuni per non accentuare lo spasimo, che però egli non odia, non rifiuta, anzi lo interiorizza, lo vive e vorrei dire lo ama. È un atteggiamento singolare e insieme emblematico. “Trasmette”, secondo me, in modo perfetto, lo stato d’animo del santo. Padre Pio è consapevole che quelle misteriose piaghe, con le quali convive giorno e notte, sono sì un martirio ininterrotto, ma sa che sono anche il mezzo con cui può testimoniare il suo amore per Dio e per il prossimo, come aveva fatto Gesù sulla croce. E poiché il  suo amore per Dio e per il prossimo è grande, immenso, egli affronta quel dolore lancinante abbracciandolo, amandolo, diventando lui stesso “dolore sorridente”.

Renzo Allegri