L’ho letto a scuola senza capirci molto, anzi, sbuffando e pensando a quanto palloso fosse. Non dirmi che ti è piaciuto alla prima lettura, perché non ci credo. Alla seconda lettura ho pensato: mica male, e alla terza mi son detto: ma questo è un genio che va oltre l’immaginabile e l’umano. È Vittorio Alfieri, il gigante astigiano, parlando di lui faccio contento anche il mio amico editore Lorenzo Fornaca, appena scomparso, astigiano verace.
Alfieri appioppò a Caterina II di Russia il non lusinghiero epiteto di Clitennestra filosofessa e la città di Pietroburgo divenne l’asiatico accampamento di allineate trabacche. All’Accademia rimase otto anni, senza apprendere nulla, rimanendo, come lui stesso scrisse: asino tra asini e sotto un asino. A Berlino Federico II risvegliò in lui disprezzo misto a odio, per quel sovrano e i suoi sudditi. Accessi di pianto e di allegria lo accompagnarono durante la lettura del Don Chisciotte mentre percorreva le lande desertiche andaluse. Ma quegli aspri paesaggi dovevano riuscire congeniali alla sua natura. Abbandonati ozi e trastulli amorosi si dedicò anima e corpo alla letteratura coltivando il desiderio di scrivere tragedie. Un desiderio di perfezione assoluto lo accompagnò nel pensiero, nella vita e nelle opere. I suoi versi fanno a brandelli la musicalità della scrittura del Metastasio. Caparbio, malinconico, irrequieto, artefice di una poesia tragica di enorme vigore che lascia, nei suoi esiti migliori, attoniti, compresi della grandezza dei personaggi. I suoi versi, asciutti ed essenziali conducono rapidamente il lettore verso l’unico esito possibile: l’annullamento dei protagonisti. La tragedia alfieriana non lascia scampo, non dà vie di fuga, non concede nulla alla teatralità. Il grande astigiano è inventore di un linguaggio che sovrasta l’individuo, trascinandolo con una grandine di endecasillabi liberi verso il baratro. Visto come unico esito possibile. Come via di fuga.
Alfieri merita attenzioni nuove. Il suo rivoluzionarismo lo porta a sposare e poi a respingere gli esiti estremi della rivoluzione francese. Affido a competenze più cospicue della mia l’analisi del suo aristocratico ribellismo e della infruttuosa ricerca di una patria dello spirito. Nuova luce, dicevo, nuova attenzione, ma verso quali aspetti? Partendo dai personaggi, dalla loro dimensione irraggiungibile, da quel piano esistenziale olimpico, dalla tensione spesso insopportabile del loro dramma esistenziale. Tensioni estreme, fuori dall’ordinario precipitano nella morte, nel suicidio, nella negazione di ogni luce; complici i versi, incalzanti e a nostro avviso, di grande modernità. Una cifra di lettura che merita attenzione: la modernità. Alfieri è moderno e precursore di assai più recenti eroi, occorrono circa due secoli per incontrarne altri degni di nota. La modernità dell’Alfieri risiede nel perpetuo rivoltarsi contro la tirannide, alla ricerca di libertà assolute, impossibili. Alfieri velleitario? Forse. Ma criticamente attento, in veglia perenne, alla ricerca di una patria dello spirito, di istituzioni e condizioni di vita accettabili. Il tiranno e la libertà vilipesa sono ovunque, contro di essi Alfieri spenderà la sua vita. Ma l’ipotesi da approfondire è un’altra: per vocazione, intenzione, professione Alfieri veste l’abito dell’ultrauomo, precursore dei più moderni Nietzsche, D’Annunzio, Evola (seppur quest’ultimo con altri esiti e aderenze). Alfieri, tuttavia è ultrauomo non trascendente, non ultramondano; la sua grandezza riguarda esclusivamente l’umano. E scusa se e poco! Il suo titanismo è compagno di un pessimismo esistenziale che ricorre al suicidio come estrema risposta e via di fuga. Non rassegnazione o cedimento alla sofferenza, ma dominio dell’esistenza e fine volontaria, se necessaria. Eroico per l’indomito contrasto al potere, eroici i suoi personaggi, tutti alle soglie di un futuro da suicidi, di titanica rassegnazione o di resistenza al fato. Alfieri è eroe contro e ribelle negli agi e nella ricchezza. Per carattere, vocazione e possibilità economica (non vanno dimenticati i suoi cospicui patrimoni che gli consentivano una vita errabonda, la frequentazione del bel mondo e continui viaggi in tutta Europa) . L’ultrauomo che disdegna, senza tuttavia disprezzarlo, il divino, al quale non farà mai ricorso. Ultrauomo che non ricorre alla luce della divinità per lenire il suo rovello, ma che attinge a un io cosmico esclusivamente terreno. Cè chi l’ha definito Sacerdote dell’umanità, per noi è un uomo contro, anticonformista, un supereroe non omologabile, la sua condanna non risparmia alcuno, né potenti né masse, destinate a deluderlo. Per lui la morte è affermazione del principio di libertà individuale.
E i suoi personaggi? Gli corrispondono. Egli stesso è Clitennestra, (Clitennestra dopo l’omicidio (1882), Guildall Art Gallery, Londra, qui con lo sguardo allucinato) umanissima e condannabilissima vedova di Agamennone, Alfieri è l’esterrefatto Ciniro, quando apprende l’infame amore della figliola Mirra per lui. E poi è il prode David, lo scalpitante Oreste che non sa trattenere la furia omicida contro Egisto. Abbiamo riletto i suoi capolavori: Saul, Mirra e Oreste, storie di destini, d’infamia di nobiltà e follia; il sangue dei protagonisti è il tributo necessario per onorare una sorte già decisa, un sigillo di morte che fa piombare nel dolore re, regine, nobili e plebe. Il supereroe, designato dal fato è Alfieri, l’antitiranno, l’ultrauomo che si batte (talvolta velleitariamente) contro la tirannide. Fra i personaggi ci vengono alla mente due figure analoghe, di due tragedie assai diverse per ritmo, contenuti e significati. Giulietta e Romeo del grande William e Mirra. Le figure delle nutrici, per intenderci, entrambe dimostrano un amore materno, entrambe soffrono e gioiscono alle pene e alle gioie delle loro creature. Vice madri all’anagrafe più che madri nei sentimenti. Ma se nella tata di Giulietta ci sono gioia, dolore, trasporto, afflizione e poi consolazione (ci vengono alla mente le preghiere collettive di un’intera comunità, sorta di rito collettivo autopunitivo, nelle splendide immagini del film di Franco Zeffirelli, diverso è il destino della tata di Mirra, Euriclea, alla morte di Mirra suicida, colpevole perché confessa la sua infamia, tocca un dolore senza conforto. Spenti i riflettori sulla vicenda, madre di tutte le tragedie umane, il dolore di Euriclea diviene cosmico; pura atrocità. Il pessimismo dell’Alfieri qui tocca il suo apogeo; anche o soprattutto (?) questo è la sua tragedia. Un urlo disperato, infinito, che non viene raccolto da nessuna divinità. L’urlo si diffonde in un vuoto assoluto, in uno spazio esistenziale che porta all’afasia, le cui pertinenze rimangono esclusivamente terrene. Se non è modernità questa, cos’è? Dimmelo tu.
Oh Ciniro!… Mi vedi…
presso al morire… Io vendicarti… seppi,…
e punir me… Tu stesso, a viva forza,
l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti…
ma, poiché sol colla mia vita… egli esce…
dal labro mio,… men rea… mi moro…