Oggi vai a sette metri sotto terra a ispezionare uno dei cento più suggestivi templi mitraici al mondo. Se soffri di claustrofobia lascia perdere. Non sei a Vulci o a Caracalla, o a Paestum, ma vicino a Piccadilly. La società di comunicazione Bloomberg, sobbarcati i costi di acquisto terreno, scavo, catalogazione e collocazione del materiale te lo faceva visitare gratis, al pian terreno si tengono mostre di sedicente arte contemporanea, ovvio che devi prenotare, gliInglesi detestano il disordine. L’ambientazione èmozzafiato, la suggestione ti inchioda al nostronebuloso passato, fra giochi di luci, suoni, litanie,recitativi e fumo introduce nel misterioso mondo diMitra che uccide la bestia sacra, secondo l’anticoculto persiano diffuso anche nell’impero romano.Ma allora gli Inglesi amano le loro radici romane, te dirai. Per niente! Le loro sono di altro genere,affondano in culture che ospitano anche la nostrama da cui prendono le distanze appena possono.
“La profondità degli scavi ha provveduto a lasciare resti in eccellenti condizioni, con anche materiali come il legno o la pelle, che raramente si mantengono. Questi scavi hanno portato alla luce più resti che in ogni altro sito archeologico della città, rendendo possibile un’ulteriore comprensione della fondazione della città. Sono stati trovati più di 14.000 artefatti, 63.000 pezzi d’artigianato e tonnellate di ossa animali, lasciando tracce di scambi, cibo e industrie che racchiudono storie di vita quotidiana. La profondità di questo primo insediamento (9m) ha permesso la costruzione di un percorso in discesa tra le diverse epoche romane e non solo, fino a una Britannia non ancora colonizzata dai Romani.” scrive Londraculturale.it blog.
Quasi tutto ciò che oggi sappiamo su Mitra è il risultato di un’interpretazione, non essendoci testimoni del tempo. Mitra è principalmente simboleggiato dalla sua immagine mentre uccide un toro, interpretato come un mito della creazione, una rappresentazione e una visione dell’Universo. I londoners raccontano delle origini romane di Londinium senza vanto, arrivando a farci un predicozzo, dicendo che gli spettacoli circensi dei gladiatori non erano eticamente corretti, con tutta quella violenza e il sangue versato nel Colosseo per sollazzare la plebe. Era forse etico il loro traffico di schiavi durato più di un fine settimana?” Quando Lorenzo Ferrara parlava di argomenti che gli stavano a cuore, si infervorava, dicendo che gli inglesi capivano poco la storia di altri popoli e meno che mai quella degli italiani.
Delle radici greco latine non hannonemmeno un’unghia e non ne sentono affatto la mancanza. Ulisse e la tragedia greca, insomma, non appartengono a loro, ma a noi.
“Boudicca regina degli Iceni. I Brits ne hanno fatto un simbolo. Anche se li avesse da terra non li vedresti,” scrive Lorenzo Ferrara, “i baffi dico; la statua bronzea di Thomas Thornycroft eretta sul Tamigi, a due passi da Westminster, non può raffigurare in modo veritiero la regina celtica della tribù degli Iceni, magari con una folta peluria sul labbro. La statua interpreta vendetta e orgoglio nazionale. Per forza deve essere fascinosa. La sovrana svetta sul suo carro trainato da snelli destrieri, avvolta in una tunica che mette in luce la sua improbabile avvenenza. Il terribile carro a lamefalcianti è diretto verso la gloria eterna della suaterra e arriva fino a noi. Vendicatrice e con le tettea punta, la sua figura, in compagnia delle due figlieviolentate in pubblico duemila anni fa, colpisce.”
Ferrara mi aveva sconsigliato il film che la ritraevano, bella e intrepida affrontare i soldati romani.Boudica Queen of War, è un film drammatico d’azione britannico del 2023 diretto e scritto da Jesse V. Johnson. Il film segue l’omonima guerriera celtica del popolo Iceni, nella Britannia romana e come si ribellò contro i romani dopo la morte di suo marito, Prasutagus. Le critiche generalmente sono negative. “Colpite! uccidete! colpite!” questo deve aver gridato la gran regina celtica mentre arringava la torma inferocita dei suoi scalmanati guerrieri. Difendeva la sua terra e la liberta’ del suo popolo, contro lo strapotere dei Romani invasori, invano.
Per comprendere cosa c’è alla base dell’Italia post bellica e cos’è accaduto all’italica stirpe in questi ultimi 80 anni ci vorrebbe un trattato di Fisica Quantistica, e di Psicopatologia sociale, forse non basterebbero, ma stando coi piedi per terra, e desideroso di saperne di più, riporto un capitolo tratto da Albione la perfida, Solfanelli edizioni, che ospita in prima battuta l’analisi schietta e limpida di Sergio Romano, ex ambasciatore, scrittore, giornalista, analista politico, con un palmares di onorificenze da urlo).
“Questioni in sospeso Spinosa e irrisolta, la questione del come abbiamo digerito o rimosso la sconfitta della seconda guerra mondiale rimane sottopelle. L’argomento parrebbe obsoleto ma non è così. Ce lo dice lo stesso dopoguerra e ce lo ricordano gli Inglesi. I nostri ultimi ottanta anni riguardano anche loro, essi si interrogano su questioni nostrane senza capirci molto. Sergio Romano su Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, mette a nudo alcune “peculiarità” italiche scrivendo: “(…) In Italia dopo la seconda guerra mondiale, non vi sono stati né desiderio di rivalsa né processi alla nazione. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio la grande maggioranza del paese si è ritirata nell’attendismo e si è limitata a guardare dalla finestra il resto del dramma misurando diplomaticamente e prudentemente il proprio consenso alle forze in campo. Dopo la sconfitta della Germania e del suo satellite fascista ha stretto un patto tacito con l’antifascismo trionfante…I politici antifascisti potevano proclamare diessere stati ingiustamente e violentemente espropriati del potere, gli italiani potevano sostenere d’essere stati oppressi e asserviti da una dittatura aliena. Era una menzogna, naturalmente, ma presentava molti vantaggi, fra cui quello di permettere all’Italia di finire nel campo dei vincitori.” (in linea teorica perché poi non è stato così, come qui vedremo). “Se il fascismo era davvero, come essi avevano sostenuto per meglio vincere la guerra, una sorta di incarnazione satanica… nessuna potenza vincitrice era tenuta a interrogarsi sulle cause della seconda guerra mondiale e sulle proprie responsabilità dopo la fine della prima. Promuovendo il fascismo al rango di “male assoluto” gli alleati permisero agli italiani di sbarazzarsi del loro passato con una menzogna e di mettere la guerra sulle spalle di un uomo, Mussolini. Se gli italiani non avevano perduta la guerra non era necessario intentare un processo alla nazione per individuare gli errori materiali e morali che avevano portato il paese alla disfatta. In realtà tutti sapevano che le cose erano andate diversamente, che il consenso aveva accompagnato Mussolini sino alla fine degli anni Trenta e che si era gradualmente dissolto soltanto dopo i bombardamenti e le prime sconfitte. Una menzogna – “non abbiamo perso la guerra” divenne così l’ideologia fondante della Repubblica democratica”. Amen.
Se lasci “fermentare” le cocenti parole di Sergio Romano ti accorgi che ci sarebbe moltissimo da commentare e analizzare, ma occorrerebbe spogliarsi di ogni faziosità o appartenenza. Temo al proposito che sarebbe più facile eliminare concrezioni calcaree centenarie che manco il Viakal riuscirebbe a rimuovere. Venendo agli Albionici, essi versano sale sulle nostre ferite. Tony Barber, European comment editor su Financial Times del 27 ottobre 2022: (…) l’Italia si è scagionata dai crimini commessi sotto il Duce. Descrivere Giorgia Meloni… e Fratelli d’Italia come diretti discendenti di Mussolini e dei fascisti è fuorviante. Hanno conquistato il potere in elezioni libere e competitive; non uccidono né usano la violenza di massa contro i loro oppositori; non intendono creare una dittatura a partito unico; e non hanno intenzione di invadere paesi stranieri e costruire un impero italiano nel Mediterraneo e nell’Africa orientale. I libri, Mussolini in Myth and Memory di Paul Corner e Blood and Power di John Foot, raccontano perché l’estrema destra sta cavalcando l’onda oggi. Una spiegazione: sebbene Mussolini non sia stato ufficialmente riabilitato, molti italiani guardano al suo governo con tolleranza e ammirazione. Tendenza non limitata ai politici di destra, perché? Corner, professore emerito all’Università di Siena e autore di libri sul fascismo si chiede: “Come mai un uomo giustiziato da italiani, il cui corpo è stato appeso al cavalletto di una pompa di benzina per pubblica esecrazione, è diventato una figura a cui si guarda con un certo riguardo, persino nostalgia?” Corner sostiene che, nella memoria collettiva italiana, alcuni aspetti apparentemente benigni del fascismo sono stati “salvati” e altri – come la violenza di stato, la repressione delle libertà, la polizia segreta, le atrocità coloniali e la costante marcia verso la guerra – opportunamente dimenticati, vile la complicità dell’establishment politico e della monarchia. Di qui l’esonero di colpa o responsabilità.
Vittime, non carnefici, dunque. Corner considera la polemica sorta per l’affermazione dello storico Renzo De Felice secondo cui il fascismo aveva beneficiato del “consenso di Massa” almeno dal 1929 al 1934. Per gli italiani moderni, questo non ha indotto “costernazione e ricerca interiore sul modello tedesco ma una sorta di autoassoluzione nazionale”. Come mai? Perché gli italiani si considerano brava gente – buoni e rispettabili. Incapaci di sostenere un regime malvagio, e quindi la dittatura di Mussolini non avrebbe potuto essere così grave. Come Corner, Foot, professore di storia italiana moderna all’Università di Bristol, sottolinea che la violenza è stata il tema dell’ascesa della dittatura fascista. “essa è stata costruita su un cumulo di cadaveri, teste spaccate, vittime traumatizzate della violenza, libri bruciati, cooperative e sedi sindacali distrutte”. Il problema, descritto da Corner e Foot, è che molti italiani hanno un’immagine gravemente distorta della storia del loro paese nel XX Secolo, è difficile trovare paesi che abbiano una corretta comprensione del loro passato, delle loro “verruche” (cosi la traduzione) e di tutto il resto. La piena conoscenza di sé è dolorosa e forse impossibile da raggiungere. Ma c’è un prezzo da pagare per questo in termini di qualità della democrazia e della vita pubblica”. Ecco ciò che pensano i Brits di noi.
Agli amici inglesi dico: se democrazia fa rima con trasparenza, e se noi dobbiamo pagare un prezzo per migliorare la qualità della democrazia cosa aspettano a farlo anche loro? Di scheletri nel loro armadio ne hanno diversi. Quando i Brits prenderanno atto dei loro crimini distribuiti equamente nel mondo? Sai quante verruche abbiamo da curare tra noi e loro?! Ma ora conviene smorzare i toni. Dov’eravamo rimasti?
Nel cataclisma succeduto alla fine della seconda guerra mondiale si annidano i semi di una pianta velenosa e antica: l’inconciliabilità di fatti, opinioni, uomini e inclinazioni, tipiche del nostro modo di essere, fenomeno prettamente italico; è questo il periodo che Gianfranco de Turris indaga nella sua ultima fatica, recensita da Giovanni Sessa su Barbadillo: Dialoghi sgradevoli , Idrovolante edizioni. I lemmi correlati al termine sgradevole, nel titolo, secondo l’Enciclopedia Treccani riportano: spiacevole, disgustoso, nauseabondo, nauseante, repellente, ributtante, ripugnante, rivoltante, schifoso, stomachevole, vomitevole. Mi fermo qui. Per chi ha avuto amici o parenti torturati o accoppati dalla polizia segreta fascista o dal terrorista rosso di Prima Linea i sinonimi valgono un niente. Sono state vendette, delitto e crimine e il crimine non ha sinonimi se non quello di tragedia incancellabile a futura memoria. In tutte le vicende succedute dal 1945 in poi non emerge alcuna volontà di ricordare per capire e per non ripetere la tragedia nazionale, non c’è stato, come dice Sergio Romano, alcun ravvedimento, alcuna necessità o volontà di dialogo o confronto chiarificatore, si è preferito emulare gli struzzi. il Male assoluto, cioè il Fascismo, aveva scelto noi, non il contrario, come alibi traballa non poco. Tutti assolti dunque, ma così si sconfessa la storia.
Come fai a rinnegare le immagini d’epoca di piazze strabocchevoli inneggianti al Duce? I fotomontaggi sono venuti dopo. Il libro di de Turris, appena uscito, parla di questi conflitti irrisolti, rovistando in armadi che custodiscono nomi, fatti, sconvenienze, interessi e voltafaccia. Dialoghi sgradevoli è assimilabile a una serrata partita di tennis condotta in forma di dialogo tra Simplicio e il ben informato e polemico Filarete, un volo d’uccello radente che rispolvera antichi e nuovi dilemmi politici, dissidi, faziosità incendiarie e contrasti irrisolti fino alle tragedie ricorrenti.
Consentimi una digressione personale. Avevo un amico, spirito bizzarro, provocatorio ma verace e sincero. Non nascondeva affatto le sue frequentazioni in ambiente nobiliare e monarchico e contestava, sarcastico, i compagni di classe, contestatori del ‘68. Viveva in una casa in collina nel torinese, in cui infissa al muro c’era una lapide, alla memoria di una partigiana, Eleonora Gazzignato che lui spolverava. Dall’animo socialista era convinto che capitalisti e imprenditori britannici dell ‘800-’900, se non avessero imposto turni inumani a giovani e donne, che per questo si ammalavano gravemente, Marx non avrebbe avuto quel successo che ha avuto. Il mio amico incarnava, senza saperlo, l’inconciliabilità dei fenomeni della storia, infatti teneva sul comodino Rivolta contro il mondo moderno di Julius. Evola, che consultava assiduamente e alcuni brani sottolineati di Gabriele D’annunzio, uno dei quali recitava: “Liberiamoci dell’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Separiamoci dall’Occidente degenerato, divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica”. Ma non divaghiamo. L’autore non risparmia nessuno e l’ultimo libro è una carrellata impietosa sul chi come dove e perché del dopoguerra, che pare non finisca mai. La sua narrazione non fa sconti e mette in luce anche il ruolo non secondario di una stampa a dir poco faziosa che si sente investita di Verità assoluta.
Alcuni stralci aiutano a capire il contenuto del volume: Pag 107: “Filarete – Della guerra… Perduta, e non certo vinta come da decenni ci si vorrebbe far credere. Nonostante il cambiamento di campo dell’8 settembre – una resa incondizionata e non un vero armistizio – nonostante il Regno del Sud alleato degli angloamericani, nonostante il sacrificio di sangue dei militari del Sud aggregati alle armate alleate, non ci venne fatto alcuno sconto: sconfitti eravamo e sconfitti siamo rimasti, il Trattato di Pace di Parigi ci ha considerato tali privandoci delle colonie, di ampi lembi di territorio nazionale, condannandoci alle riparazioni di guerra, alla perdita della flotta. Ti sembra che siamo stati trattati da alleati-vincitori?”
Pag 122: “Filarete – Dunque, il 4 settembre 1993, in vista dei 50 anni del cosiddetto “armistizio” il generale Luigi Poli, presidente dell’Associazione nazionale combattenti della guerra di liberazione, e Giulio Cesco Baghino, presidente dell’Unione combattenti della RSI, inviarono un messaggio al capo dello Stato, il cattolicissimo Oscar Luigi Scalfaro, chiedendo di essere ricevuti “per simbolicamente dare il via alla pacificazione e parificazione fra tutti gli italiani che in quei tragici giorni impugnarono le armi per la Patria, a prescindere dalla parte in cui si schierarono”. Non se ne fece nulla di pubblico per gli strilli degli antifascisti in s.p.e. Ma i militari con le stellette e con il gladio, come li definì Poli, un atto di riconciliazione lo fecero lo stesso. Qualche coraggioso disse: “Un’Italia pacificata e parificata per la ricostruzione: a 50 anni dalla guerra civile, cessino le discriminazioni fra italiani, si ricrei la concordia nazionale, si mettano al bando i fomentatori di odio tra i figli di una stessa patria. La data dell’8 settembre può rappresentare l’occasione del riscatto della nazione se il presidente della Repubblica saprà dar seguito all’appello rivoltogli dal generale Poli e dall’on. Baghino a nome dei caduti e dei combattenti di 50 anni fa dell’una o dell’altra parte”. Simplicio – Nobili e alate parole, ma senza seguito. Chi le pronunciò? Filarete – Effettivamente senza seguito… È una dichiarazione all’Ansa di Gianfranco Fini, segretario del MSI.”
Se delitti e infamie politiche dell’Italia del Duecento e Trecento. così ben tratteggiate da Dante Alighieri, fra Guelfi e Ghibellini, fra bianchi e neri, fra papato e impero, e tra lega e impero, si fossero trasferiti paro paro, radicandosi nei nostri giorni, per scandire nuovi tragici contrasti, nuove contrapposizioni? Ovvero impedendoci di realizzare la parte migliore di noi, vietando di stimare e promuovere la nostra unicità, il valore e le virtù italiche? Se insomma quegli antichi dissidi si fossero trasformati in una cifra ontologica, in connotato ineliminabile, perdurante, descrivendo un’inclinazione tutta e solo italiana alla rissa, all’isteria, al sopruso, alla vendetta, all’incapacità di farsi vera nazione. -Sei di destra?- -NO,- -sei di sinistra?- -NO…sono “solo” italiano.- Scritti come quelli di Sergio Romano e di Gianfranco de Turris e, in fin dei conti anche quelli degli studiosi inglesi, sono sale sulle piaghe ma anche stimolo per tentare una vera, definitiva riconciliazione patria e cercare una via d’uscita. Spetta alla nostra generazione farlo, prima che il velo d’ignavia e indifferenza scenda, irreparabile, ad annebbiare ancora di più quegli eventi.
Catilina fra noi, dopo più di duemila anni. Una manciata di pagine per il capolavoro di Sallustio che lascia senza fiato. È un preciso avvenimento della Roma antica in cui giganteggiano alcuni illustri protagonisti, nella capitale, perennemente preda di fermenti sociali. Cicerone, Catilina, Catone e Cesare si muovono sull’instabile palcoscenico in un clima drammatico e politicamente precario.
È il 63 avanti Cristo e a confrontarsi in quel periodo arroventato, sono plebei contro potenti, oppressi e diseredati contro signori corrotti e arroganti, l’idea ambiziosa e forse presuntuosa e tuttavia sincera della rivolta risolutrice contro lo stato di diritto, anche se non più integerrimo e ancora l’abuso e la corruttela contro il rigore di una moralità ormai perduta e di cui c’era il ricordo (e il rimpianto?) Dopo più di duemila anni siamo forse al punto di partenza? Poco, infatti, sembra essere cambiato per le classi sociali in conflitto, allora come ora. E ci viene il perfido dubbio che se né la rivoluzione francese, né quella marxista leninista sono riuscite a instaurare una solida, dialettica equità fra le parti sociali, nella seconda in verità si voleva sostituire, abbattendola, un’intera classe sociale, il motivo risiede nell’impossibilità di quell’attuazione; se l’immane rivolgimento di coscienze e aspettative teorizzato e promosso da Marx Engels e Lenin e poi degenerato si è risolto ancora una volta in una fallace rovinosa utopia, allora significa che proprio nulla potrà in futuro davvero risolvere tale conflitto. Sono dubbi legittimi? Conflitto evidentemente insito nella specificità stessa dei rapporti fra le classi e funzionale alla loro stessa natura. Possiamo anche sbagliarci, anche se l’evidenza dice quello. Ma qui il discorso ci porterebbe fuori dal seminato. Esaustiva e avvincente come solo poche prefazioni sanno essere, le pagine di Lidia Storoni Mazzolani vanno subito al cuore del problema:
Catilina and his soldiers drink blood, Bartolomeo Pinelli, 1819, Lucius Sergius Catilina and his soldiers drink the blood, mixed with wine, of a dead slave, print maker: Bartolomeo Pinelli, (mentioned on object), Rome, 1819, paper, etching, h 315 mm – w 422 mm. (Photo by: Sepia Times/Universal Images Group via Getty Images)
Fu un evento grandioso e terribile. Certamente a Roma se ne parlò per anni e forse i contemporanei e, due decenni più tardi, i lettori del breve saggio di Sallustio si posero gli stessi interrogativi che ci poniamo noi dopo duemila anni: Catilina era veramente quel mostro di ferocia e depravazione che hanno descritto Cicerone e Sallustio? Qualora Catilina non fosse stato ripetutamente frustrato nelle sue aspirazioni e fosse riuscito ad attuare legalmente e poco per volta i provvedimenti che lui stesso con tutto l’animo auspicava, specialmente quelli riguardanti situazioni particolarmente inique -come quella dei debitori e i figli dei proscritti di Silla, la sua figura non sarebbe forse passata alla storia come un accorto e attento riformatore, il cui interesse privilegiato era rivolto al bene comune, anziché come un losco e bieco terrorista? Era stato solo a concepire il suo piano rivoluzionario o l’avevano segretamente incoraggiato mandanti autorevoli, Cesare e Crasso, in odio a Pompeo ? La congiura di Catilina è opera che lascia senza respiro, complice la serie di colpi di scena e la trama incalzante degli avvenimenti che si dipanano, rapidi sino al finale. Sul campo di battaglia gli insorti, male equipaggiati e animati da sentimenti di rivalsa e cambiamento sociale, suggestionati dalla figura potente e sinistra di Catilina moriranno da prodi. Un esercito di ribelli che aveva tentato il tutto e per tutto per abbattere il sistema, ingiustizie e iniquità. Saranno tutti uccisi guardando in viso il nemico, cioè lo stato che volevano più giusto, onesto, umano e solidale con le necessità del popolo. Se quello scontro dopo due millenni affascina e turba ancora il lettore è anche perché non è stata ancora fatta piena luce su protagonisti e moventi di allora.
Un bel grattacapo per lo stesso Sallustio che, alla fine, sembra voler rivalutare la figura di Catilina, se non altro sotto il profilo del valore e del coraggio dimostrati. Stesi morti in quel lontano 63 avanti Cristo furono nullatenenti, sognatori, fuorilegge, malfattori e propugnatori di uno stato più giusto. Alla radice di quello scontro ci fu un complotto così vasto da turbare l’intero Senato romano. Velleità rivoluzionarie e sogni di rivalsa furono così soffocati nel sangue, nel nome intoccabile di Roma, di quella città ancora grandissima e potente, ma certamente assai lontana dal mitico rigore morale che aveva ispirato gli esordi. Un grande piccolo libro che si legge in poche ore. L’edizione scelta è un prodigioso volumetto stampato su carta ecologica dalla mitica Newton Compton che sfogliavo in metro, a Milano, costava la metà di un caffè.
Ho deciso di utilizzare uno scambio di vedute vivaci tra un “uomo moderno” e me che si trascina da molto sulla diversità degli umani e sulle razze. Unica premessa: baso le mie idee su fatti riscontrabili, incontri in prima persona che nel tempo, stratificandosi, si sono fatti convinzione e su ciò che sostengono studi scientifici, storici e antropologici vecchi e recenti non sprprio concordanti. Le sue affermazioni contestano le mie e sono certo che egli vorrà spiegare ciò che, talvolta con foga, egli sostiene a spada tratta. In questi casi spesso ci si accalora solo per spirito di polemica. Cosa sostiene l’uomo moderno?
Egli sostiene l’uguaglianza fra le razze umane (e sin qui non ci piove), ma poi va oltre dicendo che esiste una sola razza, quella appunto umana. Che tutti gli uomini sono identici e che la loro apparente diversità è dovuta al 90% a fattori esterni, all’educazione e alle condizioni dell’ambiente. Ma a te sembra plausibile? Le opportunità offerte a ciascuno sarebbero determinanti. Sostiene che l’intelligenza è omogenea, nel senso di uguale per tutti gli esseri (?!) e che, obbedendo al concetto onnicomprensivo di uguaglianza non esiste il tonto o il dotato naturalmente, come natura decreta, il geniale o il meno adatto ad apprendere la fisica delle particelle e che la sua fatica a capire è esclusivamente o prevalentemente condizionata da fattori socio ambientali, salvo quel dieci per cento di cui parla, e che non so a cosa si riferisce, è anche convinto che non esistono propensioni per materie, soggetti di studio, (i test attitudinali per lui non esistono) che indifferentemente possiamo diventare tutto ciò che desideriamo, se fossimo stati sollecitati in modo appropriato. Indica insomma nelle condizioni ambientali e nelle opportunità della società gli unici fattori di condizionamento e crescita dell’individuo causa delle disuguaglianze, che stando a quello che lui sostiene tutti potremmo essere, (ma il fattore genetico ereditario che fine ha fatto?). Einstein o il più esperto cuoco della storia.
Arriva a dire che il ruolo di Marlon Brando nel Giulio Cesare di Mankiewitz potrebbe essere impersonato con uguale veemenza daI primo che passa per strada se solo questi avesse frequentato l’Actor Studio. Ovvero se fosse, come dice lui, io avrei potuto essere come il grande Totò, o Lawrence Olivier nei panni dell’Amleto. Anche il postino o lo spazzino avrebbero potuto interpretare il comandante del Bounty, tanto per capirci, con tutto il rispetto per loro. Tali sono perché non è stato loro offerta sufficienti opportunità. In ultima analisi egli sostiene che siamo tutti uguali e che non esistono esseri più o meno dotati di intelligenza, che non ci sono differenze fra individuo e individuo e che, se ci sono come davvero appare, esse non sono biologiche, ereditarie, intellettive, e che tutti apparteniamo a un’unica razza, quella umana. L’insalata è servita. In poche parole, come dicevano i vetero comunisti un tempo, siamo tutti uguali al punto che, per rispettare questo assioma non esiste più il singolo uomo pensante ma il pensiero collettivo unico, in sostituzione dell’uomo autentico e pensante ecco l’uomo massificato e collettivizzato che non DEVE pensare in autonomia, se no il Comunismo si squaglia, come in effetti si è squagliato. Qualcosa che la loro fallita rivoluzione voleva dimostrare. Ma l’evidenza di queste aberrazioni ha poi detto il contrario, inevitabile. Ricordo confusamente che l’amico Aldo conte di Ricaldone un tempo mi disse che proprio i comunisti russi nella convinzione genuina che tutti gli uomini fossero uguali avevano ideato un esperimento “scolastico” per dimostrare il loro assioma, esperimento fallito miseramente com’era logico prevedere. Perché? Perché nessuno è uguale a un altro, nemmeno se piovessero elefanti. Ora, cosa rispondo io, inorridito, dalle affermazioni di costui? Che non esiste un essere, dico uno (nemmeno fra i gemelli) che possa dirsi uguale ad un altro, forse simili, forse… Che esistono le differenze, causate dall’ambiente e che sono importanti, ma non le uniche e non assolutamente ed esclusivamente determinanti. Che esistono vari gradi di intelligenza, innata, ereditata, che poco hanno a che fare con i condizionamenti dell’ambiente. Che le razze (vorrei sapere chi reputa insultante o avvilente dire che le razze sono diverse una dall’altra, non inferiori, ma diverse! Per attitudine, cultura e tradizioni. Ci andrei molto cauto nel dire che esiste una sola razza, frutto di una insostenibile e fumosa convinzione astratta, visto anche che neri, indiani, pellerossa e sudamericani potrebbero sentirsi (e a ragione) offesi dall’essere equiparati ai bianchi, considerati soprattutto i soprusi e le turpitudini che questi hanno perpetrato fino a ieri nei loro confronti. Ma non divaghiamo.
Non so se siete stati in mezzo ai Turkana o ai Dinka o ai guerrieri Shilluk, come ho fatto io con Paolo Novaresio, (viaggio un po’ diverso dal recarsi a Rimini) o ai pastori afghani o fra i cammellieri di Goulimine, tanto per capirci. Io non mi sento per niente uguale a loro e loro non si sentono uguali a me. Per tradizione, inclinazione, ereditarietà, cultura, condizioni ambientali, sociali e indole. Perché dunque ridurre tutto a un unico broccolo senza sapore di diversità, cos’è che dobbiamo dimostrare o difendere o sostenere? Ci hai mai pensato che dicendo che siamo tutti uguali, che l’intelligenza è uguale per ogni uomo e che esiste solo una razza, milioni di persone potrebbero risentirsi. Meglio? Peggio? Tonto? Genio? Fanno parte del concetto di diversità sancito da evidenze quotidiane e verificabili in ogni momento. Non indifferenziazione fra le razze ma la loro diversità intesa come bene prezioso, come frutto di complessi processi storici e bio evolutivi, escludendo una volta per tutte il concetto nefasto di superiorità di una razza sull’altra, che porta come è accaduto per secoli, allo sfruttamento di beni, genti e territori da parte di chi si sente superiore e oggi invoca democrazia. Al contrario di quanto sostiene l’uomo moderno io affermo che ogni uomo ha le sue inclinazioni, propensioni, preferenze. Non esiste un essere uguale all’altro, che la matematica mi fa venire l’orticaria, perché mi costringe a essere quello che non sarò mai: logico, eppure astratto, e non è certo colpa di traumi infantili o dell’educazione se non so fare due o più due ma di una naturale, profonda, innata avversione per cifre ed equazioni, amando io esclusivamente le lettere. Sostenere che ogni uomo è assolutamente uguale all’altro è un affronto alla sua stessa essenza di uomo, un non senso, in quanto psiche, fisico, spirito, che si basa su fattori ereditari, attitudini, caratteristiche e propensioni a varia intensità, introiettati nel corso dei millenni nello spirito e nel corpo di ogni razza. Non ammetterlo è come dire che la luna è uguale a Saturno è che Saturno è uguale a Giove. Che non occorre scomodare Julius Evola e quello che scrive il filosofo sulla razza. Dico semplicemente, documenti se richiesti alla mano, è un errore scientifico, storico e antropologico sostenere l’uguaglianza fra gli uomini. Se l’uguaglianza deve e può esserci va solo letta e sostenuta nella diversità. Che tutti, quello certo che va sostenuto con forza, devono godere di stessa dignità, di rispetto e attenzione in quanto esseri umani. Tutti uguali? Certamente, ma solo nel rispetto della diversità degli esseri. E se proprio devo dirla tutta: io non mi sento affatto superiore a chi ho visto scaricare balle di cento chili di alghe secche sulla spiaggia di Bali, ma solo diverso e che nel sentirmi diverso non è affatto implicito il concetto di superiore a quei nerboruti facchini fatti d’acciaio. Così come una pescatrice di perle non è affatto simile a una manager della City, ma solo diversa, non migliore o superiore…Il concetto di diversità nell’uguaglianza e nel rispetto della dignità degli esseri a me pare cosa ovvia, così come sono ovvie le differenze psicologiche e attitudinali, indole, inclinazioni, le quali esistono da sempre e fanno dell’umanità un affascinante mosaico, incredibilmente variegato perché non uguale a se stesso. Una materia umana scolpita dal tempo, l’ambiente, il clima, le abitudini…Ma se l’uomo moderno sostiene ancora l’insostenibile non dimostrabile, basato su una uguaglianza astratta e fumosa fra gli uomini e per il timore (lecito) che avvengano ancora soprusi di una razza sull’altra io lo invito a spiegarsi meglio, lui, o i suoi amici, colleghi, datori di lavoro o altri. Do il benvenuto a chi volesse confrontarsi su questo tema. La biodiversità anche umana, ovviamente, è la cifra saliente che natura, evoluzione, lotta per la sopravvivenza e condizioni ambientali che hanno decretato per ognuno di noi. Temere l’evidenza di riscontrabili diversità e attitudini NON LEGATE solo alle condizioni socio ambientali non porta a nulla, anzi confonde le idee. Evviva dunque le diversità, patrimonio inalienabile delle razze umane e non, vero autentico sale della terra (retorica a parte).
Nostra sorella Wikipedia riporta sull’intelligenza: “Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), alcuni identificano l’intelligenza (in questo caso l’intelligenza pratica) come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti; nel caso dell’uomo e degli animali, l’intelligenza pare inoltre identificabile anche come il complesso di tutte quelle facoltà di tipo cognitivo o emotivo che concorrono o concorrerebbero a tale capacità. Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.“
E sulla razza: “Nel linguaggio comune, la razza identifica l’appartenenza degli esseri umani a determinati raggruppamenti in base ai loro tratti fisici, alla discendenza, alla genetica, o alle relazioni tra tali caratteristiche. È comunemente accettato che le categorie razziali siano dei costrutti sociali di uso comune pur non risultando concettualmente corrette e che dunque i gruppi razziali non possano essere definiti biologicamente. Alcuni studiosi suggeriscono che le categorie razziali possano essere comunque collegate ai tratti biologici (fenotipi) e a certi marcatori genetici che si trovano con una certa frequenza in talune popolazioni umane, alcuni dei quali corrispondono più o meno a gruppi razziali, ma sotto tale aspetto non vi è consenso universale sull’uso e la validità delle categorie razziali.“
Mia la foto del signore con la lancia in mano, scattata in Sudan.
Dopo aver caricato su un carrettino prosciutto e formaggio acquistati dai contadini romani, una pattuglia tedesca lo blocca senza troppo riguardo (1943 o 1944). Infuriato, si mette a strillare, poi telefona al colonnello delle SS Eugen Dollmann, protestando. Verrà accompagnato a casa in auto con tante scuse, prosciutto e formaggio non gli verranno sequestrati. Braccato dagli agenti della Military Police delle forze Alleate (6-7 giugno 1944) trascina per Roma una valigia di cartone piena di preziosi appunti e testi, riuscendo a sfuggire alla cattura. Spaventa Federico Fellini che lo va a trovare in incognito, (anni ‘60) raccontandogli del suo grave incidente mentre “trafficava con l’occulto.” Né solo saggio, né racconto aneddotico e nemmeno esclusivamente cronaca. Di questi generi Un filosofo in guerra edito da Mursiaha ereditato e sintetizzato il meglio: avvincente, incalzante, a tratti un giallo poliziesco, dal ritmo sostenuto. Il “detective” Gianfranco de Turris racconta un brano della storia d’Italia, narrando con passione, puntiglio, dovizia di documenti, informazioni di prima mano e di autentiche scoperte. Il periodo: quello tra i più spinosi e controversi del nostro Paese. Dal ‘39 al ‘45, quando l’Italia cambiò volto. Nel volume molte le cose di rilievo: gli incontri segreti, i depistaggi, i complotti e le misteriose scomparse di uomini e di casse con preziosi archivi ed elenchi di nomi (1945). Forse inabissati di proposito nel Garda, forse nei meandri del Vaticano, o magari stipati negli armadi del PCI. Al riguardo c’entra anche un sacerdote, che, innamoratosi di una bellissima donna, esponente del PCI, per lei lasciò la tonaca ma poi, pentito, abbandonò la femmina per chiudersi in un convento. Ma chi è il filosofo in guerra? Il barone “nero” Julius Evola, al cui proposito Aldo di Ricaldone sugli Annali del Monferrato scrisse: “Il barone Evola coi suoi testi sottolinea con una delle più brillanti sintesi della storia umana il crollo del mondo Tradizionale di fronte allo sguaiato, ipocrita materialismo a favore delle masse, con la decadenza della genuina cultura e dei valori ideali e spirituali.” L’opera di Gianfranco de Turris qui si fa trama, vissuto speciale, avvincente racconto, sedimentato in una scrittura tesa e asciutta come ci ha abituato il suo stile. Un filosofo in Guerra fa pensare a quei giorni, alle sorti dell’Italia, a ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Costringe a riflettere, a confrontarsi e infine a prendere posizione, indirizzando l’attenzione anche verso scritti di altri autori come Finis Italiae, di Sergio Romano, ex ambasciatore, che parla del dopo disastro bellico. Questo è un altro pregio de Un filosofo in Guerra: sollecita interesse, invita ad approfondire e a interrogare altre fonti. Il protagonista indiscusso dell’opera, pittore dadaista, filosofo, esoterista, orientalista, e, secondo molti, profeta, Julius Evola, alias Carlo de Bracorens ovvero un fantasma che si aggira ancora nei meandri della cultura italica (o nei suoi rimasugli.) Un articolo di Luca Gallesi su Barbadillo precisa i contorni dell’opera accennando anche a qualcuno che di recente, turbato all’udire ancora il nome Evola, ha gridato allo scandalo e alla vergogna.
Nel libro: numerosi gli incontri del barone, fra questi quello con Mussolini, subito dopo la sua liberazione, nel Quartier Generale di Rastenburg (20 luglio 1944); scriverà al proposito Evola: «Aveva ancora indosso gli abiti borghesi sgualciti che portava al momento della sua liberazione al Gran Sasso: ricordo le scarpe pesanti e sporche e una cravatta tutta attorcigliata. Aveva una certa speciale luce, un’esaltazione febbrile negli occhi».
Mussolini salvato e subito ricattato da Hitler “marrano con lo scettro di pagliaccio feroce” secondo la definizione di Gabriele D’annunzio. Scrive de Turris: “Questo testo mi ha dato l’impressione di essere una specie di “fabbrica di San Pietro” mai conclusa: specie nell’ultimo periodo, sino alla vigilia della consegna all’editore, è stato riletto più volte con continui ripensamenti, correzioni, tagli e aggiunte, ritocchi, controlli di molti particolari in origine solo accennati e dati per scontati, tentativi di essere sempre più chiaro ed esatto per evitare equivoci e fraintendimenti altrui (anche voluti…), convinto che la precisione dei riferimenti e anche di singole parole in questi casi sia fondamentale. Se alla fine ci sia riuscito lo decideranno i lettori.” E più avanti: “Non avevo ancora capito la lezione della…Storia, di quanto sempre si nasconde nelle sue complicate pieghe! Incredibilmente, infatti, lo sottolineo ancora, notizie, testimonianze, informazioni, documenti e libri prima non noti sono continuati a balzare fuori nei modi più inaspettati e anche curiosi, addirittura casuali. Ed è quindi da supporre che continueranno a farlo, come se, ancora oggi nella vita di Julius Evola ci sia sempre da scoprire qualcosa, tanto è stata complessa e avventurosa su tutti i piani.”
Ignoriamo se de Turris sia consapevole di aver rivoluzionato il modo di fare saggistica: aggiungendo cioè al piede di ogni capitolo una formidabile messe di note, riferimenti, rimandi a libri e a documenti, spesso di lunghezza equivalente al capitolo stesso.
Quello di cui non siamo affatto sicuri è che alla quarta edizione (tradotta per gli Stati Uniti e la Russia) riveduta e ampliata con documenti e immagini non se ne aggiungano altre. Il «guerriero immobile», come lo ha definito un suo biografo francese potrebbe riservarci ancora molte altre sorprese…dall’al di là.
Dalla quarta di copertina del libro: “Una trama che non ha niente da invidiare a una spy story, tra servizi segreti, false identità, attività e viaggi misteriosi, ferite del corpo e dell’anima.Tra l’agosto 1943 e la fine della guerra, Julius Evola si muove in un’Europa al collasso: da Berlino al Quartier Generale di Hitler, poi a Roma, come agente dietro le linee; dopo l’arrivo degli americani è a Verona e quindi a Vienna dove, sotto falso nome, studia archivi massonici e viene ferito durante un bombardamento nel gennaio 1945, restando paralizzato.”
Nelle immagini: Mussolini a Rastenburg, nel Quartier Generale di Hitler, Julius Evola e Gianfranco de Turris a colloquio.
Prova a pensarci, anche te ne hai, magari li conservi ancora, polverosi, sbrindellati, ingialliti, in qualche ammuffita valigia, in soffitta o in cantina. Quanto hai penato su quella pagine! Ti ricordi? Ti hanno accompagnato per anni, magari tediandoti a scuola e nei compiti di casa e adesso alcuni te li ricordi ancora. Pochi, davvero pochissimi, quelli che erano speciali, appasionanti, se considerati con gli occhi di oggi e con la vita che hai vissuto. Libri scritti col cuore e con l’intelligenza. Libri che, anche dopo decenni, sanno emanare forza e suggestione perché intendevano farti amare mondi trascorsi, passioni di uomini e il loro mondo scomparso. Libri eroici, dico io, se son riusciti a resistere nella tua memoria e agli insulti del tempo. Ci sará pure un motivo. Qui sto scrivendo di un normalissimo testo da cui abbiamo appreso di mitiche gesta di eroi. Studenti sedicenni eravamo, distratti da cento cose, allora, ma affascinati da quello che migliaia di anni prima stava accadendo alle soglie della storia e della leggenda.
Stanno ancora agitando spada e lancia cercando di darsi la morte. C’è un’ombra che si allunga e che trapassa i secoli, l’ombra del legno di orniello su cui s’innesta la lancia di ferro, che trafigge il tempo. Ancora si danno battaglia, nutriti di odio assetati di vendetta. Attori di una contesa che sembra non finire mai. Mitici. Quell’ombra lunghissima, che si proietta a terra, giunge sino a noi, dopo millenni. Seguendola a ritroso scopriamo che è l’ombra fatta dal giavellotto di Achille, scagliato inutilmente contro Ettore e raccolto dalla rapida mano di Athena, alleata dell’eroe troiano. Achille e Ettore, titani piegati al volere degli dei.
Il duello
Davanti a quel duello il cuore si stringe, il respiro rallenta. Quante fantasie! Te dirai, eppure i due combattenti sono i simboli di un odio assoluto, di umana richiesta di clemenza, subito respinta da Achille. Ma non ripeto quello che altri hanno già detto assai meglio di me. Quello che mi preme è parlare del libro, non dei miti che racchiude. Cos’ha di speciale? Tutto. A quarant’anni di distanza ricordo ancora le traduzioni di Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, gli appassionanti scritti di Manara Valgimigli e di Fustel De Coulanges, di Jacob Burckardt e di Will Durant. Un libro speciale per gli istituti tecnici di allora. Aveva delle intenzioni quel vecchio testo scolastico: mettercela tutta per farci amare quella metà di mondo sviluppatosi 24 secoli fa fra l’Egeo e il Mediterraneo. I miti, le gesta, gli eroi sono gli archetipi ancora vivi, seppur sepolti nell’ignavia dei moderni. Gran libro se ancora oggi lo ricordo dopo decenni trascorsi.
Ulisse e Nausicaa con le ancelle
Chi può dimenticare la scena in cui Ulisse scruta, non visto, gioendo commosso, alla vista delle candide braccia di Nausicaa. E poi in quella in cui lui appare, vergognoso e seminudo alle fanciulle. La figlia di Alcinoo, re dei Feaci che giocava sulla spiaggia, bella fra le belle, più di duemila quattrocento anni fa non ne ha timore…una scena che ti sembra di vedere ancora recitata magistralmente da Barbara Bach e Bekim Fehmiu,…e sembra ieri. L’ho messo sull’ultimo scaffale, il libro, fra i volumi importanti. L’eredità del mondo antico – pubblicato da Zanichelli, Bologna
Alla voce Mao Tse Tung il dizionario di Filosofia della Rizzoli del 1977, revisione e bibliografie di Emanuele Ronchetti dell’università di Milano, redattore capo Italo Sordi si legge: Rivoluzionario, pensatore e uomo politico cinese, figlio di contadini, eccetera…ma la parola criminale non compare, possibile che quelli della Rizzoli ignorassero le sue nefandezze a carico del suo popolo? Ovviamente il dizionario riporta i nomi di Marx, Lenin, Sartre, Marcuse e anche Nietzsche, dedicando loro ampio spazio. Il libro di Jung Chang e Jon Halliday MAO the unknown story sostiene che a carico del dittatore cinese ci sono, malcontati, circa settanta milioni di morti. Ovvero un criminale sfuggito al giudizio della storia. Rammento ancora, sbarbatello, i cortei per le vie di Milano e Torino che gridavano: Boia Johnson! (non che questi fosse un’anima candida) e Viva Mao! E altri studenti che avevano rifiutato un incontro con Alberto Moravia sbattendogli in faccia la porta e dicendo: “Mao sì, Moravia no.” La RIZZOLI mi dovrebbe spiegare perché non ho trovato sul suo dizionario le voci che cercavo: Evola, Tradizione e Rivolta contro il mondo moderno, la sua opera più complessa ed esaustiva. Forse perché il Barone Julius Evola era colluso col Fascismo anche se critico non poco nei confronti di Mussolini e perché teneva contatti col Nazismo, da cui peraltro veniva spiato, perché individuo sospetto. Chi teme ancora questo personaggio? Gigante del pensiero europeo, filosofo controcorrente del Novecento. Perché Mao sì e lui no? Dopo questo lungo preambolo introduttivo ecco un libro appena pubblicato da IDROVOLANTE EDIZIONI. Curato da Gianfranco De Turris IL RITORNO DEL BARONE IMMAGINARIO, una raccolta di diciassette racconti ispirati a questo, per certi versi, enigmatico personaggio, che ha subito e tuttora subisce l’ostracismo di critici e storici italici. Racconti che hanno Evola, il Barone ritornato alla ribalta, per protagonista.
Un puzzle di brevi narrazioni fantastiche e realistiche, tutte interessanti, basate su personaggi, fatti e luoghi reali, che concretizzano una idea di Gianfranco De Turris, curatore del volume, il quale nell’introduzione del libro scrive: “Julius Evola resta in fondo l’unico e forse ultimo tabù della cultura italiana del secondo Dopoguerra. Questo libro che segue il primo è un po’ la risposta per dimostrare che Evola è una personalità/personaggio tale da superare tanti ostracismi al punto da indurre una quarantina di scrittori a porlo al centro di altrettante storie…io credo che il Barone, quello in carne ed ossa ci avrebbe celiato su dopo averlo letto.” Le opere di Evola sono conosciute all’estero e la loro diffusione è crescente, ma l’Italia lo elimina dall’elenco dei grandi protagonisti del pensiero occidentale. Il volume publicato, da IDROVOLANTE EDIZIONI è un omaggio dovuto e sentito all’uomo ironico e autoironico che ha sempre rifiutato l’etichetta di Maestro o di Guru. Nelle foto il suo ritratto durante la Prima Guerra mondiale e un suo dipinto dadaista. Il volume pubblicato da IDROVOLANTE EDIZIONI va così incontro a un’esigenza, una curiosità di sapere, alla volontà di non dimenticare l’uomo e la sua opera ancora avvolte nel limbo di un incomprensibile ostracismo, dettati probabilmente da trascuratezza e timore. Ma occorre non mitizzare Evola, non lo avrebbe gradito.
Che il filosofo, storico esoterista e pittore Dada risulti oggi un antidoto è evidente, le sue analisi e tesi appaiono, dopo decenni, lucide e profetiche; a chi si rifiuta di studiarlo o anche solo di prenderlo in considerazione bastano evidentemente lo sfascio, l’oblio di grandezze trascorse, l’approssimazione infine, caratteristiche del nostro essere moderni. Ma i balbettii di chi cerca e non trova nessun appiglio nell’odierno, ovvero le stimmate del sordo e del cieco, non possono costituirsi valori di riferimento in alcun modo. Il Nichilismo di Nietzsche del resto ha fatto il suo tempo da un pezzo. Delle innumerevoli frasi che emergono dall’opera di Evola, superato l’imbarazzo della scelta, ne scelgo alcune tratte da RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO: “L’uomo tradizionale sapeva della realtà di un ordine dell’essere molto più vasto di quello a cui oggi corrisponde di massima la parola “reale”. Oggi come realtà, in fondo, non si concepisce nulla più che vada oltre il mondo dei corpi nello spazio e nel tempo. …Le basi della gerarchia e della civiltà tradizionale, in tutto e per tutto sono state distrutte dalla trionfante civiltà “umana” dei moderni…”
VIAGGIO A LONDRA. L’officina del mondo. Alzi la mano chi non si è mai recato in questa città o chi non ne ha mai sentito parlare. E chi non è stato colpito dalla convulsa miracolosa mescolanza di razze, abitudini, tradizioni, stili, attività, stravaganze e costumi provenienti da tutto il mondo. Io ci vivo da tre anni e la giro in lungo e in largo.
Poi vado a intrupparmi alla Guildhall Library e al Barbicane centre per scrivere ore e ore. Ovviamente sto parlando della Londra conosciuta prima di questa deprimente e mortifera pandemia. Se Londra è madre di New York, come la storia insegna, nel 1834 doveva apparire alquanto diversa e forse un poco scoraggiante al visitatore di allora. La città che oggi conosciamo è nata dalla ferrea decisione di essere tolleranti. Tolleranza che sembra innata nei suoi abitanti, insieme a un (menefreghismo o disinteresse per l’altro?) spinto ad eccessi clamorosi, non riscontrabili sul patrio suolo. Dalla fede indiscussa verso la rivoluzione industriale, le fabbriche, gli opifici, emblemi del progresso materiale e sociale. Da Londra è partita una colonizzazione culturale globale che non ha precedenti. Il genio caratteristico di Londra? La sua cifra nel mondo? L’accoglienza e la promozione delle diversità, l’accettazione di ogni e qualsiasi stile di vita. (per necessità, o convenienza, aggiungo io, perché le sue scelte e i suoi “affari” lo impongono). Essa è la vera Babele dei tempi moderni, come recitano le prime pagine del libro VIAGGIO A LONDRA; (attenzione che siamo nella prima metà dell’Ottocento, un libro scritto oggi interesserebbe meno e poi c’è la TV!). In quella metropoli, anticipatrice di mode e tendenze l’anonimo autore ti propone una guida acuta e ironica che parla di virtù e vizi del popolo che ha giurato di non essere mai schiavo; utile strumento e godibilissima lettura per il distratto turista di oggi (dalla quarta di copertina del libro). L’autore del VIAGGIO, come scrive Giulio Giorello, è colpito dallo stupendo corredo di macchine che in questa o quella circostanza finisce col ridurre o sostituire l’umana fatica. Quattro anni dopo la pubblicazione di questo libretto, nel 1838, in un discorso ai Comuni, Benjamin Disraeli aveva definito l’Inghilterra officina del mondo. Dalla presentazione di Giulio Giorello: È nelle taverne, tra il fumo della pipa e la schiuma della birra, che si forma l’opinione pubblica britannica. L’anonimo autore di questo piacevole e intrigante VIAGGIO A LONDRA , edito da IL POLIFILO, non esita ad affermare che la taverna è il foro degl’Inglesi, con la differenza che qui non vi sono risse né contese e poco oltre: vie, piazze e monumenti di Londra svelano le cicatrici della storia- dalle ribellioni del tardo medioevo alla guerra delle Due Rose, dallo scisma di Enrico VIII alla decapitazione di Carlo I, dal Protettorato Cromwell alla Gloriosa Rivoluzione di Guglielmo d’Orange per non dire della morte in battaglia di Nelson e della sapienza militare di Wellington.
A sua volta,
l’autore del Viaggio annotava: Non è una bizzarria della sorte che dove avviene
meno luce sia nato il gran Newton che doveva analizzarla? La città infernale,
versione moderna della Dite cantata da Dante, è nel 1834 – anno della
pubblicazione del VIAGGIO – anche la città che meglio sa coniugare tecnica,
scienza e industria: l’inglese ha fatto la grande scoperta che le utili
scoperte aumentano gli agi, ed arricchiscono le nazioni.
A pagina 5…il forestiero che giunge in Inghilterra, seduto sul cielo d’una carrozza a quattro cavalli che lo trasporta ad otto miglia per ora a Londra deve credersi rapito dal carro di Plutone per discendere nel regno delle tenebre; soprattutto s’egli arriva dalla Spagna o dall’Italia. In mezzo alla meraviglia non può almeno, a prima vista, di non essere colpito da un’impressione malinconica. L’ambasciatore Caracciolo, in tempo di Giorgio III, non aveva torto di dire che la luna di Napoli scalda più che il sole di Londra! Mica male l’osservazione.
A pagina 9 …se gli Inglesi non hanno un bel clima, essi credono di averlo, il che vale lo stesso. Io lodava ad una giovane inglese il cielo altissimo, purissimo, di madreperla di Madrid, di Napoli, di Atene, di Smirne. Essa mi rispose mi annoierebbe quel sol perpetuo: è più bella la varietà e la fantasmagoria delle nostre nubi… A pagina 11 La profondità degli scrittori inglesi è un prodotto del clima, come lo sono il ferro, lo stagno, il carbon fossile dell’isola. Lo stesso amor della famiglia ne è pure un prodotto. Il sole dissipa e sparpaglia le famiglie, le chiama continuamente fuori di casa…
Beh, viene a vedere oggi com’ è ridotta la famiglia inglese e poi mi dirai, dico io.
A pagina 15 Perché gl’inglesi non sono esperti ballerini? Perché non si esercitano; le case sono tanto piccole e deboli che se uno spiccasse una capriola al terzo piano, arrischierebbe di sprofondare come una bomba sino in cucina che è posta sottoterra…Ben sovente fra le condizioni d’affitto delle case di Londra v’è quella di non ballare… A pag 40 il primo e più antico ponte di Londra, detto il Ponte Vecchio, venne costrutto di legno, or saranno mille anni. Nel secolo XI fu ricostruito di pietra con una magnificenza ed un’audacia d’archi che non si potrebbe attribuire a tempi nei quali in tutta Europa giacevano anneghittite in una seconda infanzia. Non so francamente dove possiate trovare questo bel libro, la casa editrice ha chiuso i battenti da un po’.
Julius Evola mina alle fondamenta l’impalcatura della cultura sociopolitica occidentale degli ultimi duemilacinquecento anni e poi fa esplodere le cariche. Un paesaggio nuovo, esaltante, angoscioso, prende allora a delinearsi sulle macerie della nostra civiltà. Il mondo della Tradizione coi suoi riti, con le gerarchie, con l’impronta inconfondibile di un’ispirazione spirituale superiore. Evola si rifà alle età di Esiodo. Esiodo: dall’età dell’oro all’età del ferro. Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo; come dei vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro terre.
Esiodo (VIII secolo a.C.) e le cinque età del mondo Esiodo, poeta greco, probabile contemporaneo di Omero. Interessante vedere che in “Le opere e i Giorni” ci parla delle cinque età del mondo: – età dell’Oro: gli uomini vivevano “sempre giovani” e non avevano preoccupazioni di alcun tipo. Siamo ai tempi di Crono; – età dell’Argento: gli uomini sono governati da Zeus. Per il loro comportamento si estinsero; – età del Bronzo: è il mondo di uomini violenti che si dedicavano solo alla guerra e si estinsero per la loro stessa stupidità; – età degli Eroi: è l’età in cui gli Eroi combatterono a Troia e a Tebe; – età del Ferro: è l’età del mondo di Esiodo ed anche la nostra, e finirà anch’essa, come le precedenti. Ancora una volta un “antico” ci parla di età del mondo e di come queste si sono susseguite nel tempo… ci parla di guerre e di estinzioni di massa… Ci parla di un passato remoto e ancora per la gran parte sconosciuto…
Le parole chiave per accedere alle tesi di Evola riguardano la sacralità, il sacerdozio, il culto dei morti, il rito, la gerarchia, gli uomini dei e la regalità dei veri capi, Dio, anche se tale parola ha scarsa corrispondenza col mondo attuale della religione. Evola scrive di qualcosa che trascende la contingenza, immanente, meraviglioso e luminoso e al contempo temibile. Egli rintraccia nelle antiche scritture provenienti dall’India, Grecia, Europa e Sudamerica la presenza di una forza nuda e non condizionabile; non una persona, non un essere, non di deus ma di numen, si tratta. I valori sono quelli delle civiltà scomparse e di antichissime società, (si parla di seicento – ottocento anni avanti Cristo); già allora, scrive Evola, inizia il processo di degenerescenza (dall’età dell’oro all’età del ferro.) Mondi scomparsi fra le pieghe della Storia ispirati ai valori della Tradizione, strutturati in società gerarchicamente organizzate attorno al capo, all’imperatore, al re-sacerdote. Genuinamente e radicalmente antidemocratico e anticapitalista, Evola sostiene che il potere non deve e non può essere né legalizzato né voluto dal basso. Occorre che sia ispirato dall’alto, dal regno della forza trascendente, attingendo in quel sopramondo invisibile, in cui scaturisce l’energia, in cui la pura divinità risiede. A pagina 102 de RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO, si legge: All’origine di ogni vera civiltà sta un fatto divino. Ad un fatto dello stesso ordine, ma in senso opposto, degenerescente, si deve l’alternarsi e il tramontare delle civiltà. Quando una razza ha perduto il contatto con ciò che solo ha e può fornire stabilità – col mondo dell’essere-; quando in essa è decaduto anche quel che ne è l’elemento più sottile ma, in pari tempo più essenziale, cioè la razza interiore, la razza dello spirito, di fronte alla quale la razza del corpo e dell’anima sono solo manifestazioni e mezzi di espressione- gli organismi collettivi che essa ha formato, ….scendono fatalmente nel mondo della contingenza: sono alla mercé dell’irrazionale, del mutevole, dello storico, di ciò che riceve dal basso e dall’esterno le sue condizioni.
A proposito dell’impero a pagina 121 riporto: Di quelle grandi potenze, sorte dall’ipertrofia del nazionalismo secondo una barbarica volontà di potenza di tipo militaristico o economico a cui si è continuato a dare il nome di imperi- vale appena parlare. Sia ripetuto che un Impero è tale solo in virtù di valori superiori ai quali una determinata razza si è innalzata. Nei riguardi del lavoro moderno, a pagina 153: Nessuna civiltà tradizionale vide mai masse così grandi condannate ad un lavoro buio, disanimato, automatico…. nelle masse degli schiavi moderni le forze oscure della sovversione mondiale hanno trovato un facile, ottuso strumento pel perseguimento dei loro scopi. Nei campi di lavoro noi vediamo usato metodicamente, satanicamente l’asservimento fisico e morale dell’uomo ai fini di una collettivizzazione e dello sradicamento di ogni valore della personalità…
A proposito della
guerra, a pagina 172: Che milioni e milioni di uomini, strappati in massa ad
occupazioni e vocazioni del tutto estranee a quella del guerriero, fatti
letteralmente, come si dice nel gergo tecnico militare, materiale umano,
muoiano in simili vicende-questa sì che è cosa santa e degna del punto attuale
del progresso della civiltà…
Sull’America, a pagina 391: L’America ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione industriale, alla realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità……
mentre a pagina 395 continua: Lo standard morale corrisponde a quello pratico dell’americano. Il comfort alla portata di tutti e la superproduzione nella civiltà dei consumi che caratterizzano l’America sono stati pagati col prezzo di milioni di uomini ridotti all’automatismo nel lavoro, formati secondo una specializzazione a oltranza che restringe il campo mentale ed ottunde ogni sensibilità. Al luogo del tipo dell’antico artigiano, pel quale ogni mestiere era un’arte ….si ha un’orda di paria che assiste stupidamente dei meccanismi…..Qui Stalin e Ford si danno la mano e, naturalmente, si stabilisce un circolo: la standardizzazione inerente ad ogni prodotto meccanico e quantitativo determina e impone la standardizzazione di chi lo consuma, l’uniformità dei gusti…E tutto in America concorre a questo scopo: conformismo nei termini di un matter-of-fact, likemindedness, è la parola d’ordine, su tutti i piani….. E ancora a pagina 398 leggo: E anche se non dovesse verificarsi la catastrofe temuta da alcuni in relazione all’uso delle armi atomiche, al compiersi di tale destino tutta questa civiltà di titani, di metropoli d’acciaio, di cristallo e di cemento, di masse pullulanti, di algebre e macchine incatenanti le forze della materia, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo che oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non vi è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua stessa caduta.
L’imbarazzo nella scelta di brani che mi hanno particolarmente colpito è grande, avrei voluto inserire altre decine di passaggi significativi, ma tanto vale consigliare l’acquisto di questo libro indigesto e illuminante.
Voglio gettare, per concludere, un sasso nello stagno asfittico della cultura italica contemporanea. La figura di Evola non deve più appartenere a schieramenti ideologici o a fazioni politiche. La profondità e complessità del suo pensiero, l’onestà intellettuale dello studioso, l’originalità delle sue tesi rivoluzionarie impongono che la sua opera così articolata e, per certi versi, ascetica, divenga materiale di dibattito e di ricerca, uscendo dalle secche di interpretazioni univoche o partigiane. Julius Evola, l’anti D’Annunzio appartiene alla cultura europea; ed è al centro dell’Europa che deve tornare, a rianimare un dibattito sui valori e sulle prospettive della nostra civiltà (se prospettive rimangono). Sarebbe, fra le altre cose, una bella dimostrazione di forza e saldezza dei nostri sistemi democratici, da lui così tanto osteggiati.