ti faceva venire i brividi?

EDGAR ALLAN POE
” Mi hanno chiamato folle…” ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale (da “Eleonora”, 1841)
Nella mia infanzia mostrai di avere ereditato questi caratteri di famiglia; discendo da una razza che si è sempre distinta per immaginazione e temperamento facilmente eccitabile» «Mia cara mamma, sono stato tanto malato, ho avuto il colera, o le convulsioni, certo qualcosa di ugualmente brutto. La gioia di vederti ci compenserà quasi dei nostri dolori. Possiamo almeno morire insieme… Inutile discutere con me ora; bisogna ch’io muoia».
Ti fissa in modo indefinibile, fanciullesco eppure profondo, la faccia asimmetrica, un sopracciglio più basso dell’altro. I baffi disallineati.

L’espressione assorta e depressa, come di chi ha in animo di chiedere consiglio, conforto. Il grande malinconico, alcolizzato per necessità, quel genio febbrile che si chiama Edgar Allan Poe, inventore di un nuovo genere letterario che trasforma e introduce il macabro nella sfera del quotidiano rendendolo quindi altamente probabile. Ma non è dell’opera che voglio parlare. È il personaggio che mi interessa. I pettegolezzi, le manie, la sua assillante richiesta di danaro, le emozioni che gli procura la morte. Ho il suo Epistolario edito da Longanesi nel 1955, raccolto da John Ward Ostrom con la densa prefazione di Henry Furst; così scopriamo subito cose davvero interessanti. A cominciare dalle primissime righe della prefazione: Tutto nella vita di questo poeta è difficile e oscuro; Edgar Allan Poe mentiva come un persiano: non per uno scopo preciso, ma così, a vuoto, per il gusto di mentire o forse nemmeno per quello: così come si respira. Giovanissimo, si invaghì di Elena Stannard, madre di un suo compagno di studi.

Inconsolabile per la precoce morte della donna, dalle lettere si desume che per parecchi mesi si recò solo, di notte, anche sotto la pioggia, a piangere disperatamente sulla tomba di lei. In una lettera dell’11 settembre 1835 scritta a Kennedy, uno dei pochi suoi ammiratori, si legge: Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino ad ora avvertito. Mi sforzo invano sotto questa malinconia e credetemi, quando Vi dico che malgrado il miglioramento della mia condizione mi vedo sempre miserabile. “Consolatemi Voi che lo potete e abbiate di me pietà perché io soffro in questa depressione di spirito che, se prolungata, mi rovinerà.” Solo per il desiderio di sottrarmi alla tortura dei miei ricordi ho messo in pericolo la mia vita e non per un desiderio di piacere. L’estrema povertà in cui viveva, lo costrinse addirittura ad usare le lenzuola del corredo matrimoniale (portate in dote dalla sposa) come sudario per la moglie stessa. Chiede danaro, amicizia, favori, cibo e impieghi di lavoro. Lui, il genio delle tenebre. Rifiuta inviti a pranzo chiedendo in prestito al suo stesso ospite 20 dollari per potersi presumibilmente abbigliare con decenza onde accettare il suo invito. Si fa cacciare da West Point per insubordinazione. «Sono abbandonato interamente alle mie risorse, senza professione e con pochissimi amici. Peggio di tutto sono senza un soldo» scrive a John P. Kennedy nel novembre del 1834. Da Richmond scrive ancora a John P. Kennedy a proposito di una nuova casa:
“…vi sarei assai obbligato se poteste prestarmi la somma di cento dollari per sei mesi, sarei così in condizione di far onore alla cambiale che matura fra tre mesi.” E ancora: “mi trovo nella più dura necessità non avendo toccato cibo da ieri mattina. Non ho un posto dove dormire la notte, girovago per le strade. ” Soldi appunto, non si fa scrupolo di chiederli ad amici e parenti. Scrivendo a Frederich Thomas: “Nemmeno il diavolo in persona è stato così povero. Dì a Dow da parte mia che non ho mai avuto la possibilità di rimborsarlo.” E scrivendo a John Allan: Aiuti pecuniari io non ne chiedo a meno che non vengano dalla sua decisione libera e imparziale. Ancora scrivendo al padre adottivo: Se desidera dimenticare che sono stato suo figlio, io sono troppo orgoglioso per rammentarglielo nuovamente, padre mio non mi respinga come un essere degradato, sarò doppiamente ambizioso, e il mondo sentirà parlare del figlio che lei ha ritenuto indegno della sua attenzione; anche a questa lettera Allan non risponde. Chiede al primo che conosce un prestito di cinque dollari che basteranno a salvare la sua vita. Vita sventurata, se si pensa che, a ventisette anni sposa la cugina tredicenne che muore a 25 anni. La morte di Virginia Clemm lo angoscia mortalmente: «Ogni volta subii tutti gli strazi della sua morte e a ogni ritorno del male l’amavo sempre di più e mi afferravo alla sua vita con ostinazione sempre più disperata. Diventai pazzo con lunghi intervalli di orribile lucidità.» Così scrive da New York il 4 gennaio 1848 a George Eveleth chiedendo nelle tre righe finali della stessa lettera aiuto economico. “Fra tutti gli argomenti melanconici, qual è, secondo il concetto universale dell’umanità, il più melanconico? ” La Morte – fu l’ovvia risposta. “E quando è più poetico questo argomento, fra tutti il più melanconico?”. Dopo quanto ho già abbondantemente spiegato, la risposta fu ovvia: “Quando è più strettamente congiunto alla Bellezza, dunque la morte d’una bella donna è il tema più poetico del mondo e le labbra più adatte a tale argomento sono quelle di un amante orbato dell’amata». Dalla “Filosofia della composizione” di E. A. Poe.

Ma accanto alla acutezza dei suoi pensieri e alla percezione degli spiriti che cavalcavano l’uragano, non visti da nessuno se non da lui, e le profonde creazioni metafisiche che si libravano attraverso le camerate della sua anima, erano la sua unica ricchezza (dall’introduzione di Henry Furst all’Epistolario) ecco di nuovo l’assillo avvilente, la solita reiterata richiesta. Scrivendo a Charles Astor  Bristed leggiamo: «Mi perdonerete, dunque, se vi chiedo di prestarmi  il denaro per andare a Richmond?…mia suocera vi spiegherà in quale condizione mi trovo»  Un mendicante patetico, un ubriacone, proprio lui, il grandissimo poeta visionario, invocato da Baudelaire, il finissimo psicologo, l’investigatore degli abissi dell’anima, per tutta la sua vita vide qualcun altro, infinitamente inferiore al suo genio, arrivare prima di lui per rubargli l’ammirazione della folla e la riuscita nella vita.

I miei insopprimibili indizi di scrittura

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