Dovrò scusarmi con Charles Baudelaire se, attingerò al suo saggio su Edgar Allan Poe, ma che io sappia non c’è niente di più acuto e partecipe in circolazione che tratti dello scrittore americano che egli tanto apprezzava. Parlare di Edgar Allan Poe può sembrare ozioso, considerata la mole di articoli, saggi e analisi dedicati a lui e alla sua opera. Davvero c’è ancora da dire qualcosa su di lui? Proverò a spigolare in un campo di grano mietuto da molti e agguerriti per cercare qualcosa di inedito e tentare collegamenti. Scrive Baudelaire: “I personaggi di Poe o meglio il personaggio di Poe, l’uomo dalla sensibilità acuta, l’uomo dai nervi a pezzi, l’uomo che con volontà caparbia e paziente sfida le difficoltà, l’uomo che fissa con uno sguardo gelido come una spada gli oggetti che si ingigantiscono man mano che egli lo osserva è Poe stesso. I personaggi femminili, luminosi e malati, che muoiono di strani mali e parlano con voci musicali, sono ancora lui; o per lo meno con le loro strane aspirazioni, con la loro cultura, la loro inguaribile melanconia, partecipano intimamente dell’indole del loro creatore…” Riprendo l’idea aggiungendo: Poe non solo è quello che scrive Baudelaire ma qualcosa di più radicale: egli è anche paesaggio, è trapasso incessante fra vita e morte, nel senso che si può ritornare dalla morte come nel racconto LIGEIA; tra cadaveri lividi e prossini alla decomposizione descriti peraltro senza indugio o compiacimento, aggiungendo quindi credibilità all’orrido, ed è ambiente-simbolo di spazi interiori, in cui abbondano spessi drappi funerei e violacei, direi anche che Poe è la frotta di topi dalle labbra gelide che lo mordono e la stessa cricca di inquisitori che lo vuole morto, ne IL POZZO E IL PENDOLO, lo scrittore è identificabile in quella cella schifosa e viscida che modifica la sua geometria, ovvero la sua mente cangiante, nello stesso racconto, è poi l’assassino che sfonda la testa con un’ascia alla povera moglie derelitta e anche il gatto nero che trionfa di quel crimine ne IL GATTO NERO,
senza che ci sia una conseguente presa d’atto e di coscienza nel colpevole, una sua sia pur minima manifestazione di pentimento e disperazione o desiderio di redenzione per il misfatto, è poi anche Ligeia e lady Rowena Trevanion nell’orribile macabro riflusso morte vita di un cadavere e anche ne IL RITRATTO OVALE è la fanciulla di rara bellezza, gaia e leggiadra del dipinto, e anche il marito di lei, il pittore assassino, inconsapevole (?) quando dipingendola le toglie la vita. Oso dire che non c’è nulla di esterno a Poe ma di assolutamente e manifestamente interiore, intrinseco alla sua singolare natura. Personaggi, ambienti, animali non sono all’esterno del suo essere ma al suo interno, egli li vede non con gli occhi ma li percepisce con tutto se stesso, attraverso lo sguardo interiore, che non necessita di occhi per vedere, per questo egli non deve cercare, al massimo sognare ad occhi aperti, e aprire la porta agli ospiti che affollano la sua psiche. In questo non c’è invenzione nell’opera di Poe ma la mia eretica affermazione gli va a merito onorando il suo genio contenente mondi degenerescenti, il riferimento all’opera di Evola lo farò più oltre e in modo puntuale. Poe è l’invenzione di se stesso, o meglio la trasposizione analitico scientifica artistica del suo io. Tutto ciò traspare anche dal suo viso, che lascia perplessi denunciando complessità nel temperamento e personalità singolari. Ti fissa in modo indefinibile, fanciullesco eppure profondo, la faccia asimmetrica, un sopracciglio più basso dell’altro. I baffi disallineati. L’espressione assorta e depressa, come di chi ha in animo di chiedere conforto; è Il grande malinconico, alcolizzato per necessità, e anche qui Baudelaire ci viene in aiuto: “…..Il suo profilo forse non offriva una vista piacevole…aveva grandi occhi tetri e insieme luminosi, di un colore indefinibile e tenebroso che tirava al viola; il naso nobile e solido; la bocca sottile triste, anche se leggermente sorridente…l’espressione un po’ distratta con un impercettibile velo di malinconia…” Io aggiungo, col rispetto dovuto al genio, che non affiderei in custodia nemmeno temporanea a uno come lui, non dico un bambino, ma nemmeno un gatto.
Al pari di Vincent Van Gogh che tentava di esorcizzare i suoi demoni dipingendo soli e stelle interiori, Poe non ci prova nemmeno, accetta i suoi demoni, perché essi sono parte di lui, li subisce, li coltiva, ne illustra la suggestione, il magnetismo, l’orrore; dà loro il benvenuto senza tentare tuttavia di scacciarli o dominarli come faceva Van Gogh. Sa che non ci sarebbe speranza. Non c’è tentativo di riscatto nei suoi personaggi, ma l’accettazione supina di una realtà ineludibile. Non riabilitazione, né happy end, per chi ha le stimmate del genio e del folle, né per lui né per i protagonisti dei suoi racconti. Sia lui, sia Vincent Van Gogh, sia Friedrich Nietzsche, con ovviamente diverse inclinazioni ed esiti camminano su sentieri paralleli, diretti a una meta comune: l’orlo dell’abisso, lo scrutano, lo valutano, lo patiscono l’abisso e la gran voragine della consapevolezza non si sottrae alla loro spietata e lucida indagine; i tre sono accomunati da una fine miserevole e tragica che non mi pare frutto di coincidenza. Loro hanno visto e, “bruciati” dalla consapevolezza, pagheranno. I tre hanno sondato l’abisso esteriore e interiore e da esso sono stati inghiottiti. Poe sa di non potersi salvare, non desidera del resto la piatta normalità del vivere dei comuni mortali. Genio, dicevo, ed ecco a questo proposito un riferimento puntuale dello stesso Poe (da “Eleonora”, 1841): “…Discendo da una famiglia famosa per il vigore della fantasia e l’ardore della passione. Gli uomini mi hanno chiamato pazzo. Ma non è stato ancora risolto il dilemma se la pazzia sia o non sia l’intelligenza più eccelsa, se molto di quello che è glorioso, se tutto ciò che è profondo, non scaturisca dal male del pensiero, dagli stati della mente esaltata a spese dell’intelletto comune. Coloro che sognano ad occhi aperti sanno molte cose che sfuggono a quelli che sognano soltanto di notte. Nelle loro grigie visioni balugina nei loro occhi l’eternità, e tremano svegliandosi, al pensiero di essere stati sull’orlo del gran segreto…E senza bussola e senza timone, si addentrano nell’oceano immenso della “luce ineffabile”…”
I prossimi post saranno dedicati al signore delle tenebre, la sua testimonianza appare troppo importante
È investigatore attento e sagace Massimo Boccaletti, mio amico di lunga data, e giornalistaa di razza, in grado di condurci per sentieri affascinanti e tortuosi, e ancora da esplorare appieno, alla scoperta dei misteri che la Santa Sindone gelosamente o (divinamente?) custodisce. Si tratta di un oggetto vero o di un falso di eccezionale fattura che fa propendere per la sua autenticità? Eccezionale oggetto artefatto o misteriosa traccia divina che intende sfidare, per ora senza soluzione definitiva, fede e tenacia degli uomini che la frugano e la sondano e la studiano, da secoli, soggiogati dal fascino che sprigiona, alla ricerca del vero. Già, ma quale vero? Se pare che sia un manufatto risalente al Medioevo. Come scrive Vittorio Messori: l’ipotesi più probabile è quella di una colossale truffa o burla della storia. Di un delitto atroce, di un disgraziato martirizzato come i Vangeli e ricavarne un lucroso falso… Oppure è stato Leonardo da Vinci, secondo la tesi di Vittoria Haziel: che scrive: Il maestro usò un ferro arroventato e disegnò sulla tela il suo autoritratto…o Leonardo da Lirey, un genio multiforme della contraffazione, in grado di creare quello stupefacente falso…peccato però, che nessuno conosca questo genio della mistificazione. L’ipotesi di una Sindone anteriore al XIII secolo non regge più, come scrive Boccaletti.
E poi ci si era messa anche Noemi Gabrielli, Soprintendente alle Gallerie e opere d’arte medievali e moderne del Piemonte che aveva scritto: La Sindone è la creazione di un grande artista, attivo verso la fine del Quattrocento …che ha usato la tecnica dello sfumato leonardesco….Non l’avesse mai detto! Apriti cielo! I capitoli del volume ritraggono l’attività indefessa di illustri scienziati, lavori quasi febbrili, con giornali che titolano a tutta pagina: La Sindone è un falso, gridando allo scoop, trascinando nella polemica personaggi di fama e “smascherando” la famosa reliquia. Attraverso interminabili e sofisticatissime analisi emergono altre supposizioni, altre copiose verità che tradiscono il desiderio di sapere ancora. All’infinito. Tuttavia, mentre leggevo le pagine dell’incalzante indagine di Massimo Boccaletti cominciavo a pensare: ma perché indagare…ancora? Perché tutto quell’affanno nel voler ricorrere a tecniche raffinatissime, per frugare ancora in quella reliquia che, probabilmente e per chissà quale volontà, intende rimanere inconoscibile? Il cristiano ha forse bisogno di conoscere…TUTTO per credere?
Se Dio è rivelazione e fede è anche mistero, ovvero accettazione di verità insondabili e non catalogabili per l’uomo al quale egli si rivolge con fiducia, senza chiedere prove per farlo, ma per sua necessità. Verità di cui forse la Sindone rappresenta solo una traccia seppur cospicua. Supponiamo per un istante che sia Dio a volerci mettere alla prova desiderando lasciare quella traccia indecifrabile, grattacapo per scienziati e fedeli, alle prese col desiderio e la brama (?) di sapere, di risalire, di dirimere. A che scopo? Per credere di più? Per credere meglio? Per sentirci il cuore in pace e sollevati da ogni dubbio residuo? Per essere fedeli perfetti? Illudendosi che prove e analisi umane identifichino e certifichino l’esistenza del divino attraverso prove provate, il cui canone è stabilito dagli uomini? Presuntuoso, alquanto meschino, non ti sembra? Ma tipicamente umano. L’imperante scristianizzazione coincide con la perdita della dimensione ultramondana. L’uomo nuovo scristianizzato è diventato l’uomo monodimensionale, autoreferenziale (finalmente o irreparabilmente?) voglio aggiungere. Ma qui il discorso si allargherebbe a dismisura. Amare la Sindone per quello che è: traccia insondabile del divino, o ritenerla apocrifa e quindi da rigettare, solo perché non mostra una data compatibile con la morte del Cristo? … La risposta la troviamo alla fine del libro: A pagina 281 Gian Maria Zaccone infatti scrive: Aver potuto dedicare tanti anni di studio, aver avuto il privilegio di stare a contatto con la Sindone lo considero uno dei doni più grandi, insieme alla mia amata famiglia, che il Signore ha voluto darmi. Possiamo passare anni chini a studiare quel Lenzuolo, ma quell’immagine non la puoi cacciare dalla mente e dagli occhi. Possiamo discutere e anche questionare sulla sua origine e sulle sue caratteristiche, tranne che su una: se vuoi e se sai ascoltare, quell’immagine è terribilmente eloquente…e ti costringe a un confronto, a interrogarti…Temo sia questa la vera ragione per cui tanti, forse anche inconsciamente, la rifiutano. Parole illuminanti, che a me bastano, e a te?
63 Ahimè, ché del libro di gioventù siam giunti alla fine, E il fresco april della vita sè fatto dicembre, E quell’uccello giocondo che nome avea Giovinezza Ahimé , non so quando venne, non so quando è partito.
65 Questo Intelletto, che della Fortuna calca la via, Cento volte ogni giorno ti dice questo di nuovo: Cògli quest’attimo, tu, del Tempo, chè certo non sei Quel porro che tagliano oggi e che rispunta domani
174 Fosse dipeso da me, non sarei venuto nel Mondo, E se da me dipendesse landarmene, mai me ne andrei. E meglio di tutto stato sarebbe se in questo diroccato Convento Non fossi venuto, né andato, né stato, giammai.
191 Non cercare la Gioia: la vita non è che un sol soffio, Ogni atomo è polvere secca di Kei-Qobâd e di Giàm. E tutte le cose del mondo, anzi l’intero Universo, Son fantasia di sogno, illusione d’inganno.
238 Il cielo che tutto contiene il nostro venire e l’andare, Non ha né visibile fine, né manifesto principio. E niuno mai disse il vero su questa difficil questione: Da dove siamo venuti e dove andremo.
Nulla di nuovo sotto il sole dunque, se quattrocento anni dopo Lorenzo de Medici scrive:
Quant’è bella giovinezza, Che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto, sia: Di doman non c’è certezza Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi; oggi siàn, giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi: facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.
E seicento anni appresso ecco Giacomo Leopardi, attanagliato dalla morsa del pessimismo cosmico. La tendenza al piacere, connaturata all’uomo, è per Leopardi infinita, sia perché non cessa mai, sia perché non accetta limiti all’intensità e varietà del suo soddisfacimento, ma nel contempo essa non può mai realizzarsi compiutamente poiché ogni piacere dell’uomo è comunque destinato al nulla della morte. Ne deriva un contrasto insanabile tra finito e infinito tra reale e ideale: una contraddizione che è propria dell’esistenza umana, condannata a cercare un piacere impossibile da conseguire pienamente e perciò inseparabile dal dolore e dalla noia.
Ma torniamo al nostro Omar Kayyām (Nshāpr, 18 maggio 1048 4 dicembre 1131) matematico, astronomo, poeta e filosofo persiano. Ghiyās od-Dn Abol-Fath Omār ibn Ebrāhm Khayyām Neyshābri (Persian: غاث الدن ابو الفتح عمر بن ابراهم خام نشابور) per il quale incomprensibile è la morte, l’ingiustizia del destino, e l’ingiustizia sociale. Incomprensibile tutte, e superabili solo per due vie, quella della tragica disperazione e quella della scettica ironia. Ma anche quella della terza via, non mistica ma robustamente musulmana.
190 Non sono io l’uomo che possa tremare di fronte alla Morte, Ché l’altra metà del Creato di questa metà m’è più dolce. Ho un’anima che Dio m’ha dato in prestito un giorno, La riconsegnerò puntuale appena il tempo sia giunto. Le QUARTINE con prefazione e versioni dall’originale persiano di Alessandro Bausani sono una riscoperta di cui vale la pena parlare (l’edizione è dell’anno 1963 e la sovra copertina, ahimè, è ingiallita.
Così apprendiamo che… secondo alcuni Khayyami era un razionalista negatore di ogni dogma religioso, anzi un ateo e uno scettico, secondo altri era proprio il suo contrario, cioè un mistico, e secondo il suo recente editore persiano Mohammad Alî Forûghî invece fu un dotto, filosofo e matematico, dotato di una potente sensibilità poetica e che esprime tristezza e amarezza nel non riuscire a trovare con la sua ragione la verità assoluta nel mondo.
Per gli uni un ateo scettico, per altri un mistico esoterico, per altri ancora un filosofo che esprime in bei versi l’ansia di conoscere il Vero, inappagabile con la sola ragione. Per Arberry, l’inglese che lo scoprì e lo fece conoscere al mondo: fu poeta del pessimismo razionalistico, ma che non si prende mai troppo sul tragico e che allegra e ravviva il suo dire con una delicata vena di umorismo. Nella densa prefazione si legge ancora che: il poeta scienziato visse, studiò e assorbì un pensiero, che è quello islamico, possentemente e nudamente teistico e demitologizzato… Dio è sovrana e liberissima persona, le leggi della natura non esistono di fronte all’arbitrario Suo agire, ché Egli è sempre presente e occasionalissimamente a volta a volta tutto produce. Concludo con questa accorata e splendida quartina che riconferma il desiderio inappagabile, centro del suo pessimismo cosmico, di tornare ad essere nel tempo fisicamente e individualmente:
163 Oh, fosse a noi dato di trovare infine un asilo di pace! Oh, questo lungo andare, avesse, in fondo, una Méta! Oh, fosse, dopo cento e mille anni, dal cuor della terra Oh, fosse a noi data speranza di sorgere a nuovo com’erba!
Non so ancora staccarmi da questo mitico e davvero grande protagonista della poesia persiana, nato due secoli e mezzo prima di Dante Alighieri, la cui figura è avvolta nella leggenda e così infine ancora cito:
57 Colui che fondò la terra e la volta celeste ed i cieli Quante brucianti piaghe impresse nel cuore dolente! E quante labbra di gemma e quante trecce di muschio Racchiuse in arca di polvere, in scrigno di terra.
Vi dico quello che ho in parte appreso dai media occidentali e cinesi, quindi di pubblico dominio, in parte da alcune testimonianze raccolte in loco. Ma soprattutto in base a una vicenda che mi ha coinvolto e sulla quale posso solo avanzare ipotesi pur essendo stato il suo attore principale. Non mi riferisco a qualche “incidente” simile a quanto rivelato da Le Monde e dalla trasmissione Quotidien, ovvero che due miei ex colleghi e la moglie di uno di essi sono stati sospettati di alto tradimento, avendo trasmesso informazioni secretate a una potenza straniera. Una fonte giudiziaria vicina all’inchiesta avanza più di una ipotesi: la potenza straniera sarebbe la Cina. Un precedente che si è forse ripetuto anche se in circostanze e modalità diverse riguardandomi da vicino?
Mi chiamo Blaise Lagarde. Sono stato un agente speciale del DGSE, la Direction générale de la sécurité extérieure, servizio informazioni all’estero, dipendente dal Ministero della Difesa francese; ho avuto il compito di “documentare” quello che stava accadendo nel laboratorio di Wuhan e che mezzo mondo sospettava. L’ho fatto e con successo, ma le mie riprese fotografiche, che dovevano rimanere top secret, inspiegabilmente sono apparse su Twitter e con mio sommo stupore, su China Daily, riprese com’è ovvio, subito dai media occidentali. Anche se è trascorso molto tempo la mia posizione mi vieta di rivelare particolari; si correrebbe infatti il rischio di compromettere del tutto i rapporti diplomatici tra Francia e Cina, rimasti precari da allora. Su altri fatti che mi hanno successivamente coinvolto e che potrebbero contenere la risposta a tanti perché devo comunque osservare il massimo riserbo.
IL RACCONTO
I laboratori cinesi di Wuhan sono stati il frutto di una travagliata collaborazione franco-cinese nata dall’intesa del 2004 tra Chirac e Hu Jintao. Non è una novità. Ma una volta terminati i lavori, noi francesi siamo stati estromessi dall’attività e da qualsiasi controllo del laboratorio. Diversi in patria l’avevano predetto. Infatti le decine di ricercatori del mio Paese, previsti dall’accordo, non sono nemmeno mai partiti per la Cina e il laboratorio P4 di Wuhan ha iniziato a operare a sua discrezione e in totale autonomia, al di fuori di ogni controllo francese, capitolo previsto inizialmente dall’intesa, e, forse, senza rispettare le scrupolose norme del protocollo per la manipolazione di sostanze estremamente pericolose… “Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica”, ha riportato Le Figaro secondo fonti attendibili. “Le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure analoghe a quelle adottate nei sommergibili nucleari.” Il timore che il laboratorio di Wuhan potesse funzionare al di là di qualsiasi verifica o tutela del mio Paese c’era e così è stato.
“Il coronavirus è un virus manipolato sfuggito accidentalmente ai controlli da un laboratorio cinese di Wuhan, mentre era allo studio un vaccino per l’Aids. La fuga può essere avvenuta negli ultimi tre mesi del 2019.” Lo sosteneva un illustre scienziato, connazionale, Premio Nobel per la medicina. Secondo lo studioso, l’origine dell’epidemia è acclarata e non necessita di ulteriori indagini. In base alla sua opinione non si tratta di dolo, ma di negligenza. Qualcun altro, sull’opposto versante, sostiene tesi diametralmente opposte: “Covid-19 non è nato in Cina”. A dirlo è la direttrice del laboratorio stesso di Wuhan, Wang Yanyi, che respinge categoricamente ogni addebito negando che la struttura di ricerca abbia avuto una qualsiasi responsabilità nella diffusione dell’epidemia. Il China Daily, con mia enorme sorpresa, aveva pubblicato i miei scatti “rubati” dell’interno dell’Institute of Virology di Wuhan, scatenando una polemica colossale, offrendo il fianco a bordate di interrogativi. Nello specifico: immagini di una delle celle frigorifere aperte, contenenti 1500 ceppi di virus diversi, incluso il coronavirus. Che talpe francesi operassero nella redazione del China Daily lo suppongo soltanto. Paradossale che qualcosa di quel genere potesse accadere considerata la posta in gioco. Tuttavia potrebbe trattarsi di una “vendetta” postuma. Ma di chi? Dopo aver documentato ciò che avveniva nel laboratorio di Wuhan sono stato subito arrestato, anche questo è strano. Avevo ritratto la presunta “pistola fumante” ovvero: la porta aperta di una cella frigorifera coi suoi sigilli in evidenza, e poi un’operatrice che regge una serie di fialette contenenti agenti patogeni. Quello che segue è la cronaca fedele di ciò che ho vissuto allora, dopo l’arresto:
(AUSTRALIA OUT) Virologist, Associate Professor Stuart Turville, analyses the COVID-19 Omicron variant, at St Vincent’s Hospital’s Centre
More, ancora more! depositate in una scodella di latta e, nella seconda ciotola, dell’acqua. Era tutto ciò che giaceva sul pavimento della cella oltre a me, s’intende. Cibo bizzarro accompagnato da un po’ d’acqua. More! Da quanto tempo ero steso a terra in quello stato?! Mi pareva che fossero trascorsi anni. Come potevo saperlo?! No! mi dicevo, non devo commiserarmi, ma resistere! Dovevano avermi somministrato qualche sostanza stupefacente, avevo perso i sensi subito dopo l’arresto. Ero ancora assai confuso. Mentre l’allucinazione riemergente, impediva ogni ricognizione dell’ambiente e delle circostanze che mi avevano condotto lì, tuttavia, come un cane in procinto di annegare, annaspavo cercando di addentare qualcosa di solido, di aggrapparmi a brandelli di una realtà frantumata e incongrua, da cui fuggivo subito dopo per averne percepito l’insidia. Sperare significava affrettarmi in direzione della fine. Dovevo rinnegare la guerra di parole che agitava la mia mente, resistere alle allucinazioni come quella di avere braccia lunghe come funi. Non osservare, non credere…a nulla! Dormire di un sonno ristoratore! Da tre giorni era quello il desiderio insoddisfatto. Nient’altro nella stanza illuminata giorno e notte dai neon se non le due ciotole e una seggiola che la mia alterazione suggeriva essere d’ausilio per le sedute di tortura condotte dai musi gialli. Da tre giorni il silenzio, l’assenza di ogni manifestazione di vita, c’erano solo le more. Minacciose che mi lasciavano immaginare la mia morte, probabilmente per inedia; avendo smesso di indagare quella stanza che dipingevo ancora più atroce di quello che le letture giovanili di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft suggerivano, non potevo che attendere. Ero assalito, non da orde di topi famelici, né da cadaveri che mi trattenevano per la caviglia, appena fuoriusciti dalla loro tomba, no, niente di tutto questo. La mia era una tortura luminosa, se così posso dire, con amara allusione ai neon sovrastanti, un tormento per ora solo psicologico. Pensavo a certe terrificanti torture cinesi, come quella della goccia che cade sul cranio, sino a perforarlo, anche se io non ero bloccato e non v’era alcun aggeggio sospeso a suggerire l’eventualità. Minacciato da quel “cibo” bizzarro e invitante la cui apparenza innocente ora mi terrorizzava! e che sicuramente i Cinesi avevano provveduto ad avvelenare. Resistere! Alle more appena colte, resistere a una ghiottoneria per molti. Infine resistere a me stesso! E poi, come ho detto, c’era quella luce potente sempre accesa che mi frugava. Quanto tempo ci voleva prima d’impazzire? Le more potevo evitarle, la luce no.
Persi conoscenza. Erano quelli i momenti che i miei carcerieri attendevano per portare nuove more e acqua in cella. Da qualche parte dovevano esserci uno spioncino e un’apertura! ma dove? La mia missione equivaleva a una esercitazione nella mia carriera di agente speciale, troppo facile era stato! Dovevo cercare una prova e l’avevo trovata ma la sensazione di essere stato facilitato proprio dai cinesi ce l’avevo. Perché? Le immagini che avevo catturato prima di sparire dalla rete il giorno dopo, seppi che avevano fatto il giro del mondo. Esse illustravano chiaramente una deficienza nella procedura di manipolazione delle fiale contenenti patogeni, sollevando dubbi sul grado d’isolamento della cella frigorifera stessa. Chi aveva trafugato le mie foto? Io avevo lavorato secondo un piano prestabilito nei dettagli che prevedeva in anticipo la loro pubblicazione a mia insaputa? O che altro? E la talpa cinese a cui dovevo dire grazie che faccia aveva? Per scattare quelle foto c’era bisogno della loro collaborazione, o meglio “disattenzione”. Fai presto, faccio finta di non vederti! Su, spicciati! Svelto! anche se conoscevo a memoria la topografia dei laboratori e l’ubicazione delle celle frigo, contenenti le fiale. Un rovello inestricabile contro cui nulla poteva la mia ragione. Ero io a tremare in tutto il corpo o fosse invece la scodella dell’acqua che le mie labbra tentavano di avvicinare. La scodella tremava. Mentre avvertivo un formicolio al cuoio capelluto e alle caviglie. La porta! Dov’era finita la porta d’ingresso alla cella? O non c’era mai stata!? L’LSD, fa questi “scherzi”. Da dove entravano allora? nemmeno l’ombra di una fessura. Una camera isolata, probabilmente sotterranea, adibita a prigione, in barba al protocollo internazionale sul trattamento dei prigionieri. Mi trovavo in un recesso sotterraneo sigillato dal mistero e dal silenzio da cui non sarei potuto più uscire, uno spazio ellittico dentro cui anche un animo più saldo del mio avrebbe capitolato. Il silenzio sarebbe stato il compagno della mia pazzia. Per quelle maledette foto che avrebbero dovuto servire “solo” come arma di ricatto o di rivalsa, o per rinfocolare dubbi, accuse per la collaborazione franco-cinese andata in malora.
Nel mio corpo febbre e incubo facevano strazio, forse ero stato venduto, o tradito, A ondate i dubbi mi tormentavano, la mia missione aveva uno scopo a me sconosciuto, oppure che altro? Catturato dai cinesi che sapevano in anticipo delle foto? A chi giovava la loro pubblicazione? Era forse una vendetta degli stessi cinesi, e se sì, perché? Stavano complottando per mostrare al mondo le deficienze del laboratorio di Wuhan! Ipotesi che rimava con la follia. Voci…no, mi sbagliavo. Solo rumori prodotti dal silenzio. Così sarei impazzito! A quella galera sotterranea illuminata a giorno ero stato condotto in stato di incoscienza. Assopito, riaprivo gli occhi senza tuttavia riconoscere la veglia dal sogno. Eppure… AncoraRumori! Fatti da chi sta armeggiando sul mio capo con utensili da scasso. L’inedia cominciava a farmi perdere il senno. Eppure nell’angolo più lontano da me i rumori ora si ripetono, distinti. Un intero pannello della soffittatura il cui perimetro corrisponde a quello della grata di protezione dei neon ora si sta muovendo. La luce ne impediva la vista. Per questo non l’avevo scorto, celato dal controluce. Qualcuno cerca di entrare da lì, ma non ci giurerei. Solo quando scorgo due figure in tuta scendere la scala retrattile che avevano calato sobbalzo, senza riuscire ad alzarmi tanta era la mia debolezza. Mi portano via! Mi uccidono! è finita! rumino. Ebbi la sensazione che la scena avvenisse dentro di me, tra retina e cornea. Sagome oscure che risaltano contro un sipario appena sfiorato da luminescenza. Come chi di colpo passi dal sole all’oscurità trattenendo l’impressione della luce negli occhi. Son dentro di me son bvenuti a uccidermi. Mi sollevano di peso facendomi cenno di tacere. Francesi! Sono salvo.
Se avete letto sin qui avrete notato che la mia storia contiene certe stranezze. La mia camera è la numero 23, numero dispari che non mi piace, sono ricoverato all’ospedale “La Timone” di Marsiglia al reparto psichiatria. Ogni tanto vengono degli uomini, uno di loro è in divisa, mi guardano, senza parlare con me, solo coi dottori. Non riesco a capire dov’è la porta della camera per cui mi dispero non sapendo come uscire di qui. Il mio dottore dice che però sto migliorando e anche che ho una prodigiosa fantasia. Così ha detto: prodigiosa! Volevo dirgli che a me le more mi fanno venire la nausea. Ma non trovo mai l’occasione.
Può una storia apocrifa come quella che sto per raccontarvi essere considerata inverosimile e poi possibile? Temo di sì. Quanti simboli e riferimenti essa riesuma e promuove per indurvi a considerarla autentica! La mia narrazione parla di un orrore antico che erompe in luoghi disparati, a distanza di anni, incarnato in una figura attraente e malvagia. Eventi tenuti a bada dalla memoria, che vorrebbe, invano, sbiadirli, condensati in vicende raccapriccianti, Il cui riscontro si conferma ma confuso e incerto. Così accade che disperazione e disfatta ribadiscano il passato, preconizzino il futuro, additando debolezze e miti infranti, lasciando libero campo alla pena. Questa, fra tante, è la storia di un incubo. Non sono del resto gli incubi, detentori di primordiali saggezze più reali del vero? Non è forse nel cuore del buio che ci destiamo di soprassalto, angosciati, stretti alla gola da una mano malefica? è solo un sogno, è solo un sogno, ci affrettiamo a voler credere, stropicciando il cuscino. La mia storia è come uno di quei sogni, in cui i simboli appaiono, svaniscono come ombre cinesi. Una vita parallela, che ospita brani di noi, sedimentati come ciottoli di fiume, in cui dovremmo cercare oltre le apparenze. Invano. Perché proprio qui, passato, presente e futuro, spogliandosi di senso, diventano un tempo ellittico, inquinato dalla fantasia, come recita appunto la mia storia. Tra Monferrato, Londra, Kaffa sul Mar Nero, teatri di sconcertanti profezie, l’eco del crollo dell’Occidente, consecutivo a sovvertimenti inimmaginabili. La “collusione” delle mie visioni col nostro presente smarrisce. Il primo virus, infatti, non fu che un incidente, elaborato in laboratorio o meno non si sa, un fiammifero gettato nella polveriera del pianeta, già pronta al collasso per altri motivi. L’inizio della fine, incapaci di difesa contro la marea montante del “pericolo giallo”.
LA MORTE DAL CIELO
La Cina dopo aver fiaccato e poi smembrato intere economie “amministrava”, se così posso dire, i Paesi del sud Europa e gli Stati Uniti con pugno fermo, il suo controllo, dopo aver ridotto a “province” dell’impero Stati sovrani e imparato a “usare” il virus Covid 19 come arma, era incontrastabile. Numerosi i campi di rieducazione chiamati dai cinesi “centri di formazione professionale volontaria” che nel passato avevano “ospitato” nello Xinjiang centinaia di migliaia di Uiguri. In Italia i centri erano insediati a Mori, in Trentino. Nella Penisola i cinesi si erano attestati, senza quasi colpo ferire, lungo la costa tirrenica, “punendo” immediatamente ogni presunta velleità di ribellione, rara peraltro. Incuriositi da quel secondo leader bianco vestito, seduto su un gran trono come il loro ultimo imperatore, fra croci e incensi biascicando l’incomprensibile, gli concessero la libertà di languire in un convento-carcere. L’eredità di Pietro cessava con lui.
La più potente portaerei al mondo, la Shandong, fiore all’occhiello della Marina delle Forze Armate Popolari di Liberazione, con quasi duemila uomini, attraversato lo stretto di Gibilterra e messasi alla fonda al porto di La Spezia, era venuta a riscuotere i crediti della politica di egemonia cinese nel Mediterraneo. A contrastarla, ma solo simbolicamente, si erano levati in volo, senza precise indicazioni, due aerei da combattimento Rafale d’Assault dalla base aerea 701 di Salon-de-Provence. Teatrale avvertimento di un fittizio asse franco-tedesco prossimo a dissolversi. Poi presero a giungere notizie frammentarie su orrori di armi immonde usate dai “gialli” per tenere a bada i territori soggiogati. Cosa c’era di vero?
Ottiglio Monferrato, 6 maggio 20…, giorno che mai dimenticherò. Tutto il pomeriggio ero rimasto a bearmi davanti a un anfiteatro di verde di rara suggestione. Obelischi di campanili, anfratti impenetrabili, ombre di chiese, cascine sparse su fazzoletti di verde, ocra, viola e giallo. Il bel suol d’Aleramo, cantato da Rambaldo di Vaqueiras mostrava un arazzo mosso dai tenui vapori della foschia serotina. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, teatro di fantastiche letture, a due passi da lì infatti si aprivano le grotte dei Saraceni con le loro turbinose leggende. Oltre il dosso le rovine di una casa di tufo, tra le cui mura, adolescente, ero stato a lungo ospite felice. Quanti anni erano trascorsi da allora! Le prime ombre già abbrunavano alcuni sentieri e lo sterrato, passando davanti alla cava di tufo. Complice di grati ricordi la profondità dell’azzurro sbiadente. Alle mie spalle la deliziosa chiesetta romanica di Moleto. Infine il piazzale davanti al bar all’aperto posto su un pendio. Stavo per abbandonare quell’incanto quando un fatto singolare, che riconobbi decenni appresso profetico, catturò la mia attenzione. Un rumore dalle parti della cava, poi un clamore crescente, forse lo sferragliare di ruote sullo sterrato, irraggiungibile con lo sguardo, come di chi, si stesse avvicinando in tutta fretta.
Oh! Mah! Sulla stradina un tiro a quattro apparve! Trascinava a folle velocità una carrozza. Quattro cavalli lucidi e neri scalpitano e l’esperta mano del cocchiere li blocca appena in tempo prima di piombare nel dirupo. Sbalordito, fissavo la scena. L’attesa durò lunghi minuti durante i quali fui tentato di avvicinarmi alla carrozza, quando la portiera venne aperta dal cocchiere e una figura nascosta da un mantello con cappuccio, a nascondere i connotati, scese lentamente. S’incamminò senz’altro verso il parapetto prospiciente il belvedere, seguita dal cocchiere che già aveva tranquillizzato i quattro animali. Il suo braccio coperto fino alle dita dal mantello fece un gesto indicando una zona, mentre il cocchiere assentiva. Il mio stupore non mi impedì di rilevare dettagli, ma l’animo distillava angoscia. I cavalli impennacchiati di nero se ne stavano immobili come pietra, in attesa. Mi sforzavo invano di scoprire le fattezze della figura intabarrata. Poi sembrò che la sagoma volesse passarmi accanto di proposito, e a due metri ne adocchiai finalmente il volto. Il sangue raggelò all’istante.
Felice allora se, prima di quella vista, fossi stato accecato da spiedi roventi. Non so se femmina o maschio o quant’altro di diverso dai due generi, una bellezza sovrumana si celava sotto il mantello. Ma gli occhi! Oh gli occhi! Malvagi e perversi, gli occhi, infernali, crudeli e beffardi, maligni e atroci, suggerivano abominio e scelleratezza oltre l’immaginazione, essi mi colpirono come lame in pieno petto. Caddi all’indietro felice di morire all’istante per aver constatato che nature simili esistevano. Precipitai nel baratro che si apriva oltre il belvedere del bar. Non potrei giurarlo ma nel cadere mi parve di udire le note ossessive di una chitarra e una risata, sicuramente frutto del mio intendere sconvolto. Mi spiacque destarmi all’improvviso perché la visione di quel volto infernale rimase nella veglia a tormentarmi, mentre, agitato, sapevo che mi avrebbe accompagnato per la vita.
Londra, luglio 20… Stanco di aspettare invano postino e moglie col carrello della spesa uscii verso Sheperd Bush. Dai rari amici italiani nessuna notizia. Mi azzardai a salire sulla Circle line, poca gente con mascherine, visiere e tubi di disinfettante ai tornelli. La calca di un tempo un ricordo. Il periodico riapparire del morbo dopo anni dalla sua prima comparsa aveva stremato l’ottimismo dei metropolitani scompaginando economia e politica. La Gran Bretagna non apparteneva più agli Inglesi: un padrone poco visibile giunto da lontano reggeva la sua sorte. Il morbo dipingeva la città coi toni lividi dello scoramento. Dopo lunghe tregue che facevano ben sperare il male tornava a colpire, improvviso, come una maledizione biblica. A Ruislip in un ex parcheggio avevano appena “inaugurato” un cimitero per 1600 salme. Obitori e ospedali temporanei a forma di igloo, ovunque. Era la nuova Londra.
The famous London Underground logo advertises the Moorgate subway station. England.
Scesi a Moorgate come un tempo, per ammirare i fastosi edifici della City, caratteristici di un passato dissolto. Quel giorno una sorprendente novità: doppie transenne proprio all’inizio di Roman Wall verso le rovine di pietra del monastero-ricovero St Alphage. E a ogni dieci metri un agente armato. Davanti al vecchio pub Globe, sei blindati della polizia, due ambulanze e un camion tir candido senza insegne. Qualcosa di clamoroso doveva essere appena successo. Non un passante! Nell’aria una indistinta minaccia. Girai l’angolo verso i bastioni del Barbican, alle spalle l’incisione murale a rammentare lo scoppio della prima bomba tedesca nel 1940. Non più nazisti ora, ma cinesi a presidiare la città, celati da amministratori-paravento indigeni. Proprio allora mi vennero in mente le parole dell’ex direttore dell’FBI che decine di anni prima aveva detto: “La Cina tenterà di imporsi come unica superpotenza dettando il suo volere al mondo con ogni mezzo”. Parole profetiche? Mezzi che in modo sinistro dovevano manifestarsi anche quel giorno in tutta la loro allucinante perversione. Poco prima della loro rimozione, riuscii a osservarli, li stavano fotografando: detriti elettromeccanici sparsi davanti al pub Globe. Curioso e bizzarro. Pezzi di motori elettrici, con la matassa di filo di rame del rotore sbobinata, uno dei quali era finito su una siepe di bosso, pale di eliche mozzate, fusoliere contorte e poi cofani contenitori per il carico, sfasciati. Il tutto suggeriva lo scontro accidentale di due droni a bassa quota. Ma non era tutto e non il peggio. Con ogni mezzo, ripensai. Accanto ai resti dei droni una decina di sacchi candidi, alcuni dei quali lacerati, a rivelare nefandi contenuti. Oltre l’incrocio, celati da un secondo cordone di incappucciati in tuta, cadaveri. Le tute stavano “maneggiando” le ultime salme spingendole dentro il tir refrigerato. La ruota di una lettiga si sfilò e il pesante sacco scivolò a terra, rabbrividii al rumore sordo dell’impatto del cadavere col selciato. Il mio stomaco in rivolta, polmoni e orecchie, compresse, come capita in apnea. Immaginai il ghigno dei poveri cadaveri che si beffavano di noi, non ancora come loro. Mi figurai le misere salme che guardavano me senza vedermi, col giallo delle cornee, bovine, oscene. La memoria ora inorridisce. Dove? Chi? Quando? La galleria cieca, davanti a “Costa Café” sprangato da anni, lasciava intravvedere un varco. Vi entrai a fatica, oltrepassando una soglia non esclusivamente fisica. Subito avvertii un tempo alieno, anteriore, impadronirsi di me, avvolgendomi. Cosa ci faccio qua? Rabbrividii. Non ebbi tempo di riflettere che fui urtato con violenza: senza neppure accorgersi, un soldato con una gran fascina, di furia mi era venuto addosso. Strepiti, ordini e un lezzo bestiale. Correvano stravolti, dal deposito dei carri allo spiazzo dove fiamme crepitavano. Quelli di fuori lanciavano, questi bruciavano. Cadaveri dal cielo e nel rogo, catapultati dentro le mura di Kaffa. Tramortito dal peso dei secoli e dall’orrore, abbassai lo sguardo, appoggiandomi per non cadere al muro di “Costa Café”. Indietreggiai, varcando ancora la soglia. La visione svanì. Libero! Libero? Era stato, nel 1347, a Kaffa, colonia genovese sulle rive del Mar Nero. Mongoli, capeggiati da Khan Ganī Bek, lanciavano cadaveri infetti all’interno delle mura, prima di levare l’assedio. Sono stato là dentro, io,e poi ora a Moorgate pensavo. Morti attraverso tempo e spazio. Allora la peste, ora il virus mortale. L’arma perfezionata dalla tecnologia moderna, assai più efficace delle catapulte mongole, droni assassini che seminavano morte, allora come ora! Non sapevo se avessi potuto respirare.
Per non cadere sedetti su un gran lastrone di pietra. I cinesi tenevano in scacco il mondo con piogge di cadaveri, liberando all’occorrenza nuvole di zanzare infettate dal virus. Quel giorno ne avevo avuto diretto riscontro. Il vaccino made in China funzionava sin dall’inizio per loro e solo per loro. Sciami di droni pronti a colpire per soffocare qualsiasi tentativo di ribellione nelle regioni sotto il loro impero. Obitori e ospedali rifornivano abbondanza di “materiale”. Mi chiedevo dove fossero in realtà diretti quelli incidentati.
Telefonai a casa. “Ma dove sei? Ma sai che ore sono? Vieni a casa, è tardi. Vieni a casa ti dico!” “Come?” La linea disturbata cadde. Sarei arrivato col buio, non me la sentivo di riprendere il tube. Per la prima volta constatai l’agonia della città sconsacrata, la più ricca del mondo un tempo, ora dimentica dell’antica frenesia; dietro le imposte di negozi sprangati da cui era sparita la merce, il suo illustre scheletro resisteva, carcassa ancora fastosa. Il notiziario della BBC delle venti avrebbe riportato un incidente nei pressi di Moorgate. Due droni GA da 880 libbre, ovvero con capacità totale di carico di 440 chili appartenenti a uno stormo diretto a Manchester si erano scontrati. Non si registravano vittime. Dei sacchi, caduti coi droni nemmeno un accenno. Chi stavano andando a punire? mi chiesi. La censura impediva di sapere il resto ... Con ogni mezzo e a costo zero, riflettei.
Dall’Italia le notizie dell’amico astigiano, brutte; dicevano di certi balordi che avevano fatto scoppiare petardi davanti a un posto di blocco a Moncalvo, i cinesi avevano subito reagito, pensando che fosse una bomba. “Di notte ne hanno lanciati non so quanti dal cielo.” Davanti al municipio di Bosco Marengo e anche a Moncalvo, pareva. “Chi li va a raccogliere? Son tutti infetti i morti. Chi li va a benedire adesso? Qualcuno dice che ha visto una carrozza e dei cavalli neri correre verso Moleto….”… Quei cavalli neri? …. pensai, atterrito.
Non so cosa potessi pretendere dalla notte incipiente dopo i fatti di Moorgate e le notizie dall’Italia. Se non avessi tentato di distrarmi in qualche modo altri turbamenti avrebbero compromesso il mio già precario equilibrio. Così chiesi a mia moglie di uscire. “Ma non sei stanco?” “No”.
Vagammo senza meta dopo aver imboccato una laterale di Askew Road dove c’era l’insegna spenta di “Fish and Chips bar St. Elmo”. Sconvolto a dir poco. Non un’anima e subito, paurose, chiome mormoranti di alberi e muretti bassi che potevano occultare i volti dei cadaveri in agguato di Kaffa e Moorgate! La fantasia sovreccitata non mi risparmiava nulla. Non c’era tregua per me, ogni cosa, anche la più innocua, rimandava a quegli orrori. Seguivo taciturno le orme di mia moglie. Più intenso, ora, corroborato da un filo di ragione, il primo sgomento alternato alla pioggia di cadaveri su Moleto, Moncalvo e Bosco Marengo, secondo le notizie dell’amico astigiano, l’orrore mi scoppiava dentro.
Improvvisa e a tutto volume una musica che ben conoscevo, le cui note ossessive ora mi perseguitavano! È me che vogliono! mi hanno scoperto! ormai è chiaro! Questo pensai. Era il brano Asturias di Isaac Albéniz, famoso pezzo per chitarra. Tanto più sinistro in quanto amavo il suo ritmo incalzante, ma qui fuori posto e a quell’ora, e poi nessuna autoradio era nei pressi, di furia mi diressi verso casa. Braccato e delirante.
Svoltammo in Wormholt Road, mia moglie evitò di chiedermi cosa mi avesse preso, sapendo quanto sono bizzarro. Poi a casa disse: “Non ne ho più”. “Fa niente, ci vorrebbe mezzo litro di Valium, non camomilla” risposi. Che un nuovo incubo mi attendesse al varco appena addormentato? Dopo aver paventato il precipitare di eventi orrifici, aggrappato all’idea che tutto sarebbe svanito se solo avessi spalancato gli occhi, cado in un sonno penoso. Non devo attendere a lungo: L’invito online descrive l’evento come il rave party più fabulous della stagione. Rigorosamente vietato dalla legge e dal nuovo incalzare del virus; è ancora buio quando a Ravenscourt mi infilo nel tube deserto della District. Scendo a Tower Hill mentre un’alba livida annuncia basse nuvolaglie in transito. Non occorre cercare il luogo, piantato davanti al nuovo ciarpame edilizio simboleggiato dall’ogiva di cristallo del Gherkin, che una fiumana gozzovigliante si sta dirigendo verso un punto preciso. La massa urla, scalpita, impreca, premendo per infilarsi dentro le mura. Sgomento, mi accorgo che non riuscirei a risalirne il flusso, tanto è fitta. Sei Beefeater impacciati con le loro ridicole livree bordate d’oro e il cappello a catino, indirizzano gli scalmanati all’interno della Torre di Londra. Dal primo cortile nei cui pressi un tempo scivolavano nel Tamigi i resti dei condannati, le raffiche di una musica urtante, contro lo stomaco. La massa si arresta, ondeggia, riprende ebbra. Alcuni invitati, a torso nudo, con lo scalpo dei Mohicani azzurro e rosa scivolano a terra, fradici di droga e alcool, tre ragazze lucide di sudore si avvinghiano ai forsennati, ululando. La folla si scalmana. Le torce ai muri lasciano fitte zone di buio. In direzione di un secondo cortile, oltre il fossato, è già iniziato uno strano esodo. Alla spicciolata e poi sempre più folta una processione si trascina, mesta. Gli stessi che poco prima facevano baldoria, a capo chino ora barcollano. Senza capire li seguo. Inciampo, calpestando qualcosa di elastico che emette un rantolo! Aguzzo la vista e l’orrore mi infilza. Sto costeggiando una fila di cadaveri e di corpi esalanti l’ultimo respiro. Nuovi infettati dal virus! Fuggo verso il primo cortile, in tempo per scorgere il maestro di cerimonie ergersi sul palco dell’immondo conclave, è lui, è lei, la sagoma intabarrata di Moleto, vomitata dal basso inferno. Ora dirige la danza macabra alla Torre. Mi vede l’infame, fa cenno a tre Beefeater che ora calpestano vivi e morti per agguantarmi. Imbocco un varco che si rivelerà cieco. Con le spalle al muro, il loro ghigno, stanno per afferrarmi. Grido da far spavento. Non è la prima volta. “Ma cos’è? ma sei impazzito? ma cos’è stato?” “…Scusa, dormi, scusa” balbetto verso mia moglie tapina. Ci sono orrori indicibili capaci di estendere le loro propaggini alle ore diurne. Tre giorni appresso la mia angoscia distilla raccapriccio, poi orrore. Proprio davanti alla porta di casa la carrozza coi quattro neri cavalli, immobili come pietra, nessun altro in vista; è me che cerca, lo so, me che vuole, lo sento.
Al fiume andava il mercoledì, il suo giorno libero. Il lavoro dell’uomo era compilare bollette di spedizione in un’azienda di trasporti. Ancora due anni e poi sarebbe andato in pensione. Ogni volta che poteva se ne veniva in quel posto, con il motorino. Dieci chilometri col sole o col freddo per andare a pescare in un angolo di pietraia del fiume Sesia, da solo. Lanciava cibo per il brumeggio, gettava la lenza e si metteva a gambe larghe, ben piantato sui sassi, e aspettava.
Gli piaceva il posto, il sole e la riva opposta che si allargava in una ripida spiaggia dove la melma era di casa. Magari non succedeva nulla per un’ora intera, nemmeno uno strappo, niente. Ma non importava. Il galleggiante correva lontano, poi la corrente lo succhiava via e allora lui recuperava il filo e poi rilanciava, per ore a quel modo. Così il tempo passava immemore e senza scosse.
Sopra il fiume un’estesa, abbacinante pietraia, capace di raccogliere la piena di primavera sino al margine dei pioppi. Scendeva con leggero pendio, solcata dalla traccia delle gomme delle auto, fino a riva. Ci venivano a fare il picnic, resistendo alla vampa che batteva sullo spiazzo. Qualche ombrellone, l’odore acre e dolce di carne alla brace. Ma non quel giorno e non di mercoledì, comunque. Il ponte reggeva strada e ferrovia. Corti treni di provincia trainati da motrici diesel passavano, lenti. Il fiume scendeva in certi tratti profondo, franando ciottoli ed erbe nell’acqua pesante. Ogni tanto guizzava un pesce, piccoli salti d’argento, sopra il pelo dell’acqua. Più avanti un tronco calcinato, incagliato sul fondale dove il corso era più basso e la corrente meno forte.
L’uomo recuperò la lenza impigliata in una bava d’alga. Si spostò di un passo, fece sibilare di nuovo la lenza. Ne aveva pescati davvero pochi quel mercoledì. Li sentiva sbattere contro la parete della nassa, appena presi. Gli doleva il collo e fra un po’ sarebbe tornato a riva. E poi quel giorno non era in vena; il freddo dell’acqua gli stava andando su per la la schiena. Formiche di freddo dentro le cosce, attorno alle ossa. Rabbrividiva, infastidito da un disagio che non sapeva spiegare. Avrebbe fatto meglio a starsene a casa e poi era troppo il pesce che, inspiegabilmente, quel giorno stava rifiutando la lenza. Immerso fino all’inguine contava gli stralci di muschio che il fiume gli buttava contro la gomma dello stivale. No, non ci doveva venire quel giorno. L’orizzonte era chiuso verso la direzione della corrente dai profili di alte bordure; alberi pallidi che facevano macchia alzandosi nella calura.
L’auto sbucò dalla macchia ai lati del sentiero. Una Volvo grigio metallizzato scese il leggero pendio e andò a fermarsi a pochi passi dalla riva. Un uomo e una donna ancor giovani, il pescatore li vide scendere dall’auto. Gonfiarono un poco il materassino e posero al fresco bottiglia e cocomero. Si erano messi proprio di fianco a lui, stando immerso nell’acqua e guardando di lato, poteva verificare ogni loro movimento. La donna si stese subito a prendere il sole, in reggipetto rosso fuoco. Aveva gambe lunghe e bei fianchi. Ma il viso non riusciva a vederlo. Poggiò il capo sopra il cuscino del materassino, supina. L’uomo aprì il baule, estrasse una saponetta e una spugna poi andò alla riva a riempire una tanica d’acqua. Arrivò una seconda macchina. Fece un largo giro sino al confine della pietraia, lì si fermò poi, in retromarcia, tornò indietro e scomparve. Il rauco grido del gabbiano graffiò lo smalto del cielo, e la nuvolaglia dileguò rivelando uno squarcio di sereno troppo pallido per dirsi azzurro. S’era alzato un po’ di vento e subito la zona morta del fiume si increspò, vestendo lamine luccicanti d’acciaio. Sull’altra sponda della gente pareva indicare un punto sulla stessa riva del pescatore. Stavano a guardare, si paravano gli occhi poi facevano gesti verso un punto. L’uomo aveva insaponato cofano e portiere e già sudava. Anche lui guardò in quella direzione. La donna in reggiseno rosso si era assopita; giaceva con la bocca semiaperta, il capo reclinato sul cuscino sgonfio. Così, come il sonno l’aveva colta il suo corpo non appariva granché attraente; il viso, leggermente insaccato, sembrava senza collo, rivolto alla radice del seno, come se cercasse di individuare qualcosa sulla pelle. Il pescatore udì l’uomo che diceva: “Elena, non stare così, ti fa male dormire al sole.” Le labbra della donna si mossero appena. Quelli sull’altra sponda, smesso di fare gesti, s’erano messi a sedere per terra. Erano arrivati altri curiosi. Ma la leggera ansa nascondeva la scena. Gli sguardi del pescatore e dell’uomo che aveva appena insaponato capotte e vetri si volsero verso il crepitio di un piccolo fuoribordo levatosi da dietro la giuncaia; una barca stretta e lunga apparve. “Cos’è successo laggiù? azzardò l’uomo della Volvo. Risposero. “Come?” disse l’uomo. Il pescatore udì: “Troppo avanti è andata, non riescono a tirarla su”
Due uomini e un ragazzo immobile, inginocchiato sul fondo della barca proseguirono risalendo la debole corrente, bordeggiando verso l’auto impantanata. Il suo sguardo serio, indecifrabile non aveva smesso di fissare l’uomo con la tanica vuota in mano, che ora indugiava, incerto sul da farsi, quasi imbarazzato dallo sguardo del ragazzo. Il pescatore bevve a lungo senza staccare lo sguardo dalla barca che filava via. Anche lui aveva notato il ragazzo il cui sguardo non era mai stato indirizzato a lui, ma esclusivamente all’uomo che lavava l’auto. Rimboccò gli stivali rovesciando la gomma fino a metà coscia e bevve ancora dalla borraccia foderata di stoffa. L’imbarcazione scomparve dietro la giuncaia per riapparire poco oltre. Il ragazzo impassibile, a scrutare l’uomo della Volvo, non si era mosso. Cercavano ancora i suoi occhi calmi e severi, come per comunicargli qualcosa, nostromo silenzioso, dallo sguardo magnetico inevitabile, messaggero di indicibili incognite, pareva fatto di pietra. L’uomo se n’era accorto e ora ricambiava apertamente il ragazzo che intuiva lo stesse ancora fissando, mentre la barca si allontanava. Lucido di sudore, eppure improvvisamente infreddolito, e con un senso di inspiegabile disagio ora fattosi inquietudine. “Che c’è?” disse la donna appena destata e ancora assopita. “mi gira la testa, ho sete” “Niente” si affrettò a dire il compagno “stanno provando a tirarla su” “Tirar su cosa?” “…una macchina, ma da qui non riesci a vederla” E il pescatore al quale le parole arrivavano ovattate ma distinte udì ancora: “non stare più al sole, Elena, poi ti viene mal di testa, vuoi una fetta di cocomero?” Non fece caso il pescatore, che stava pensando di raccogliere le sue cose e andarsene, al senso di apprensione con cui l’uomo aveva accompagnato le sue premure verso la donna. L’imbarcazione era sparita.
C’era la luce del mezzogiorno e il calore veniva su alitando dalle pietre. Una leggera foschia vagava oltre la pioppaia e il tronco incagliato. La calura maturava, inarrestabile. L’aria mortificata pareva refluire in un’invisibile voragine. Solo l’acqua, costellata del bruno spessore da barbe d’alga, rimandava a una incerta idea di vita. Biancheggiava in qualche gorgo, sotto i fittoni del ponte, si appianava per tornare crespa e poi ancora liscia. Attirava a sé ogni tarassaco, trattenendo chissà quali misteri e fiori putridi sul fondo.
Le due nature rimanevano estranee, non assimilabili: aria e acqua, esponenti di immemori repulsioni. Ogni bava d’aria era scemata, dissipata dalle vipere di fuoco della pietraia, né meta alcuna per la verde caligine di muschio che vagava sul pelo della debole corrente. Il conflitto perdurava, patrocinato dalla febbre del cielo. Lotta invisibile e tenace lungo l’istmo e la penisola dei salici. Un altro gabbiano si librò, questa volta assai più vicino ai salici, mandando allarmate strida. Un attento spettatore si sarebbe chiesto a che scopo voler rintracciare indizi di infauste metamorfosi. Per provare forse che sasso non era sasso e carne non era carne, per restituire ai sensi una natura tranquillizzante e plausibile, infine per non soccombere all’angoscia ridando alla mente indispensabili premesse per esistere? L’inevitabile non necessita di giustificazione. La verosimiglianza di polle, gorghi, sterpi era in forse. Perplessità ignote affioravano ponendo dubbi sulla natura del fiume, sul gabbiano, la libellula, il tronco calcinato, il ragazzo sfinge, messaggero del nulla. Il fiume sigillava col suo cofano liquido melme impenetrabili, misteri. Apparteneva a un altro pianeta quella terra; attraverso minimi indizi il luogo veniva dichiarandosi non conforme a natura. Qualcosa di iniquo stava maturando, oppresso dalla cappa di calore. Sulla riva, deserta di brezza, il nido di fuoco del mezzogiorno infieriva. Gli alti steli del canneto ora nascondevano il pescatore che si era spostato. Senza essere scorto lui poteva ancora vedere e ascoltare. Il pescatore, nell’acqua a mezza gamba, stava di nuovo lanciando per aria vermi e pane. Eppure avrebbe voluto andarsene da un pezzo.
“Vieni anche tu,” gli giunsero le parole.
“Fin dove?” chiese la donna col reggiseno rosso.
“Fin là,” disse l’uomo indicando un punto del fiume, verso cui si era diretta l’imbarcazione.
“Ma è profondo,” disse la donna. Si misero a mezza coscia tenendosi per mano nell’acqua, badando a reggersi in piedi nella corrente. Appena sorridenti.
“Ti porta via la corrente,” disse lei, rabbrividendo. Avanzarono ancora sino a bagnare gli inguini. La spuma bianca barbugliava poco sotto i fittoni del ponte mutandosi poi in un verde liquore. Gli slip della donna si inzupparono del tutto, inscurendosi. I due bagnanti rimanevano uno di fianco all’altra, immobili. Si potevano toccare e guardavano entrambi nella stessa direzione. Il pescatore non li perdeva d’occhio. Poi l’uomo avvicinò il capo all’orecchio della donna; parve sussurrarle qualcosa, questa sembrò annuire. Restavano tranquilli guardando oltre il tronco incagliato. Subito dopo quel movimento ebbe inizio la follia del pescatore. Un’espressione di sbigottimento penoso fu il preludio a un orrore senza freno. Ora la prima espressione, ora la seconda e adesso è il panico che si stampa nel suo sangue e nell’intestino. Uno di fianco all’altra, con le spalle girate alla riva i due bagnanti si immobilizzarono, statue bizzarre, piantate nella discesa dell’alveo. Prima la donna poi l’uomo, progressivamente, irreparabilmente, iniziarono a mutare colore e il processo fu conseguente al luogo, all’estraneità dei pressi. Divennero d’argento. Luccicarono. Pelle del volto, pelle del collo e del petto, poppe, costole, schiena, culo, pube, braccia, spalle e mani si inargentarono. Le statue di sasso mutarono in sagome d’argento. Lentamente ma inesorabilmente, nell’infima schiuma nata dal muschio trasportato dall’acqua accade. Il pescatore ora è solo occhi, esclusivamente orrore, soltanto coscienza infranta.
Le statue d’argento lo costringono a bere l’essenza del loro incubo, ed egli trangugiò l’indigesta visione. Era puro delirio, l’insania di un inferno meridiano. L’uomo si sente perduto, indifeso, assalito dai mille aghi del cervello. Avverte le membra diventare liquide come il fiume, infuocate come la pietra. Il sasso gli entra in bocca per quello che sta vedendo. I bagnanti si disfecero della consuetudine dei loro corpi. Rinnegarono le sembianze, ancora per poco umane, fintantoché sagome oscene presero il sopravvento, sostituendosi alle primitive, senza grida, senza lamento. Trachea, polmoni, unghie, capelli, piedi e fianchi dei due si mutarono in pinne, code, squame e branchie. Occlusero la loro mente i due, rinnegando se stessi. Divennero pesci, infine, sparirono nella corrente. Guizzarono, poi, i due pesci. Per aria, scintillando, tuffandosi infine nel labirinto d’acqua, e scomparendo definitivamente alla vista.L’ambulanza giunse poco prima del buio, chiamata da gente che aveva visto un uomo starsene immobile, per ore, piantato nell’acqua, con le braccia abbandonate sui fianchi. “Devi vederlo. Sembra scimunito!” “Scherzi del sole” disse l’altro infermiere. “Sembra perso. Dice che al mercoledì non verrà più a pescare, e gli vengono le lacrime e si impappina ogni volta che tenta di spiegare quello che ha visto. Ma sembra un ebete, scherzi del caldo, sì.” Vennero col carro attrezzi a prelevare l’auto sul greto e fu aperta l’indagine sulla scomparsa di un uomo e una donna con una Volvo grigio metallizzato.
Si fa presto a dire fantastico! Un viaggio, un pranzo, un amico, possono riuscire fantastici, o un programma tv, come quello del 6 ottobre 1979 quando andò in onda la 1ª di dodici puntate di “Fantastico”, condotto da Loretta Goggi e Beppe Grillo con Heather Parisi. Quanta acqua sotto i ponti! dirai.Ma niente di tutto questo c’entra col nostro fantastico, e allora cosa? Il Fantastico è qui soggetto eminente di un’opera singolare che si legge come un romanzo d’avventura. Edita daSolfanelliin onore dei 60 anni di attività di Gianfranco de Turris, noto internazionalmente per essere uno dei più accreditati conoscitori di questa osmotica materia. Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti,alla seconda edizione riveduta e ampliata – e già si parla di una terza ristampa – tratta di un altro genere di Fantastico, che questa volta non rima con meraviglioso, favoloso, sensazionale o formidabile, ma col quotidiano. A definire il Fantastico in questa sede ci aiutano i giornalisti Louis Pauwels e Jacques Bergier, autori de Le Matin des magiciens, opera del ‘60. Ecco cosa dicono: “il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi…” Cose astruse? Affatto, perché ci toccano da vicino più di quanto pensi. Fantasy, fantascienza, fantastico, science fiction e via dicendo: solo alcuni dei termini descriventi una dimensione che fa dell’onirico e del virtuale una eventualità possibile; quanti milioni di persone si sono incollate agli schermi, soggiogate dalle vicende di Odissea 2001 nello spazio, Blade Runner, Interstellar, Ex Machina, famose pellicole cult che rivelano tuttavia inquietudini riflesse e prospettive potenziali di un futuro possibile: di intelligenza artificiale si imbottiscono ormai anche i materassi. Punto di forza de Il Viaggiatore Immobile una serie di testimonianze autografe imperniate sulla figura di Gianfranco de Turris, che descrivono un’avventura pluridecennale di cui non si percepisce la fine, perché il fantastico nasce e vive con noi, inossidabile compagno di ogni vicenda umana, in forza del suo significato: rappresentare la parte più autentica che è sogno, desiderio dell’ulteriore, fuga dal quotidiano.
Così la “rivelazione dell’inconsistenza ultima della realtà” si legge nel libro, fa pensare. Tolkien, Lovecraft, Evola, Meyrink, Jung, sono i nomi che più compaiono, in una fitta sequenza di amarcord talvolta accorati, fatti di date, incontri e scontri, ricordi di tumultuose avventure editoriali e filosofico letterarie; contigue alla politica, esse sono apportatrici di nuove idee e interpretazioni del quotidiano, conquistate con fatica e lotta. Al centro di questa avventura c’è lui, il viaggiatore immobile, ovveroGianfranco De Turris, amato e osannato, o vilipeso e osteggiato, sempre scomodo, perché granitico nelle sue idee “scomode”, ingombrante presenza fuori dal coro, sempre. Dai numerosi interventi offerti dall’opera, che si legge come un racconto avventuroso, uno significativo, quello di Chiara Nejrotti tratto dal capitolo Nostalgia del sacro e critica alla modernità, l’opera di J.R.R. Tolkien: “Negli anni Settanta del secolo scorso Gianfranco de Turris, insieme a Sebastiano Fusco, propose un’interpretazione simbolica del fantastico che si dimostrò particolarmente feconda nell’indicare chiavi di lettura e significati, che probabilmente sarebbero rimasti nascosti secondo analisi meramente letterarie o di stampo strutturalistico, così in voga in quegli anni. Egli, infatti, indicò per primo in Italia il legame esistente tra mito, epica e letteratura fantastica, mostrando come quest’ultimafosse l’erede – più o meno consapevole – delle prime due e, per suo tramite, si manifestasse, nell’epoca del modernismo razionalista e del disincanto, una autentica e, a prima vista insospettata, “nostalgia del sacro…”
Nelle immagini: dipinto di Julius Evola e la copertina dell’opera.
Sembra ieri e invece è passato già tanto tempo. Ti ricordi Fernando, Giuseppina, Adelaide, Gualtiero, quante volte lo consultavi al giorno? No? Te lo dico io, allora. Una…una? dirai tu. Sì, una, che durava tutta la giornata perché appena ti alzavi ti connettevi con gli amici, la fidanzata, la moglie, l’amante, i figli, i colleghi, il tuo insegnante di fitness, l’agenzia di viaggio, il dentista, il verduraio e il mondo intero e pretendevi risposte e messaggi da loro.
Se questo non accadeva andavi in ansia. Non dire di no, ti conosco. Smettevi (forse) prima di andare a letto. Scrollarne, goloso di novità, le icone e pigiare lettere e numeri era come parlare, ipnotizzato, assorbito dal minischermo dell’iPhone, e parlavi anche, che sembravi un ebete che balbetta ad alta voce e al vento per strada e comunicavi spesso l’inutile, quante volte sei andato a sbattere contro un palo o una vecchietta facendola barcollare? Solo così potevi cominciare la giornata: con l’iPhone acceso che ti augurava buongiorno, il mondo in tasca, roba del genere, o l’illusione perniciosa di averlo, illuso! Forse prima di addormentarti te ne dimenticavi…ma non sempre, pronto comunque a rispondere al suo ineffabile, irrinunciabile richiamo perché qualcuno poteva mandarti messaggi così urgenti da non poter essere disattesi. Cosa fai? Non rispondi? Quei marpioni che l’avevano inventato e diffuso erano andati oltre le loro stesse aspettative. Insostituibile strumento atto a connettere l’utente con la globalità degli esseri viventi sul globo collegati alla rete web. È tutto, passo e chiudo.
Diabolico e stordente. Te e milioni di “drogati”, assuefatti al minischermo. Gli effetti di un uso incontrollato, smodato e distorto di iPhone, iPad e computer si son fatti sentire dopo anni. Ma te ce l’hai l’iPhone? Mi chiederai. No, mai avuto, ho solo un cellulare Nokia, prima serie, con cui mi collegavo a ore fisse con le suore per sapere se mia madre stesse peggiorando o facesse capricci e schiamazzi con le vicine di camera. Adesso lo tengo in tasca e mi dimentico di metterlo sotto carica. Sono io che decido di usarlo, non lui me. Okei, te dirai, te odi i telefoni e le comunicazioni. Sono affari tuoi. Sei un misantropo. Mica vero, ma se non ho niente da dire e non avverto la necessità di sapere chi mi cerca, cosa me ne faccio? Eppure son curioso. Ma penso all’essenziale. Abitudine? Assuefazione? Ma quale abitudine? Assuefarsi all’idea inevitabile del progresso, adeguarsi alle comodità e alle indiscutibili soluzioni di certi problemi quotidiani: che tempo fa? e tac! lo sai subito, dov’è la via che stavi cercando? e tac! ecco Google map che incombe, protettiva, suggerendoti il tragitto. Era diventato il tuo amico, il tuo partner, lo strumento che ti collegava col reale, o così pensavi. Ti assorbiva l’aggeggio, ti chiedeva attenzione, a mio figlio era caduto sotto le ruote di un camion, la mia gioia è stata di breve durata, il mattino seguente ne aveva già un altro più potente. Pollicioni del mondo unitevi! Pollicioni a chi? e perché ? Come? Non lo sapete?! Ecco perché : In aumento la sindrome del “pollice da smartphone”: rischio osteoartrite. Dai ricercatori della prestigiosa Mayo Clinic di Rochester si segnala un preoccupante aumento di casi legati alla sindrome del “pollice da smartphone”, dolori causati dall’utilizzo continuo del dito sul display touchscreen dello smartphone. E poi tanto per metter i puntini sulle i leggi un po’ cosa scrive il il FATTO QUOTIDIANO a proposito dell’iperconnessione: Ormai la pervasività tecnologica ha raggiunto livelli patologici. C’è addirittura chi soffre di nomofobia, ovvero il terrore di restare senza connessione. In tal senso le statistiche hanno dell’inquietante: secondo il rapporto Coop 2016 il 70% degli italiani controlla lo smartphone appena svegli; hai capito bene! una ricerca Cisco rivela che 3 utenti su 5 passano più tempo attaccati al telefono piuttosto che con il proprio coniuge; la University of San Diego rivela che l’81% degli utenti interrompe le conversazioni o i pasti per controllare il dispositivo; infine, secondo uno studio della Georgia Institute of Technology ben 9 persone su 10 soffrono della sindrome della vibrazione fantasma. Che ne dici? Ma non ti vedevi mentre camminavi per strada da solo o in compagnia, guarda il branco di iPhone dipendenti che se ne stavano assiepati in metropolitana con lo sguardo incollato all’aggeggio a fare tutti la stessa cosa ovvero a scrutare il nulla cosmico che si annida nella rete? Te li ricordi? Cos’è che controllavi? Cosa stavi cercando di così importante, come scrive ancora il giornalista nel suo articolo su il FATTO QUOTIDIANO: Viene alla mente una provocazione comica dell’artista Angelo Duro che, rivolgendosi al pubblico, mette in evidenza un paradosso della comunicazione social che ci dovrebbe far riflettere: “Ogni qual volta avete un minuto di tempo libero dovete aprire il cellulare per vedere cosa stanno facendo gli altri. Perché non vi fate i c***i vostri? Ve lo dico io cosa stanno facendo gli altri, il nulla. Perché anche loro stanno guardando cosa state facendo voi. Il nulla che guarda il nulla”. Nell’era Social, che “era” non è mai stata ma solo una immensa sofisticata truffa e inganno ai danni della tua intelligenza, in cui ti specchiavi dentro dicendo: mi piace mi fa schifo, mandami altre foto se ne hai, in cui in ogni momento dovevi dire una frase, mezza frase, una parola, una opinione assolutamente superficiale e ininfluente, quelli sapevano tutto di te, cosa fai, dove vai, cosa compri e quanti caffè bevi e in che bar li bevi e di che colore hai gli slip (guarda che non sto scherzando) e quali sono i tuoi gusti e le tue abitudini per poter confezionare messaggi pubblicitari ad personam e indurti all’acquisto.
Pensi che scherzi? Ti ricordi che l’aggeggio usato in un certo modo ti permetteva di comprare senza carta di credito tutto ciò che volevi? Mica era uno scherzo, lo facevano per dar corpo al soddisfacimento dei tuoi desideri, abbreviando l’attesa dell’acquisto e te compravi di più, subito cose che poi non usavi. Ma non divaghiamo. Quei tempi sono finiti. Hanno trovato modo di limitarne drasticamente l’uso a necessità verificabili e impellenti, lo hanno messo fuori legge l’aggeggio e adesso che ce ne siamo liberati posso chiederti: Ti ricordi dell’iPhone? Oddio ma è stato solo un sogno! Ho sognato di sognare che era stato messo al bando. Ti stanno controllando e te nemmeno lo immagini. Non dirmi che non sapevi che mentre lo stai adoperando ti possono spiare!
E di quando hai vinto le Olimpiadi? Nel salto in lungo nessuno ti batteva. Avevi delle gambe lunghe un chilometro. Un due tre e oop! fra schiamazzi e applausi, nessuno ti batteva, e qualcuno piangeva, ma erano in pochi a frignare. Salto in alto, lancio del peso, corsa, nuoto. E poi tutti sull’attenti mentre cantavi ‘Fratelli d’Italia‘ a squarciagola e poi ammutolivi durante il “Silenzio”, ammainando la bandiera. Le altri canzoni allora in voga erano ‘O sole mio’ e ‘quel mazzolin di fiori‘, uno strazio insomma. Il tutto era rappresentativo dell’Italia unita, da Nord a Sud, alle isole comprese, alzabandiera, inno e canzoni. Tutti al mare! Non in montagna che c’erano le vipere, diceva tua madre. Pensavi a come sarebbe stato il giorno dopo e quanto sarebbero durati i giorni della colonia estiva. Non sapevi se desiderare che finisse quel calvario di alzabandiera e canzoni, sempre quelle! e di nuotate e dormite a comando. Di vedere la televisione non se ne parlava nemmeno, nemmeno di uscire alla sera. E poi pensavi a niente perché avevi solo otto e nove anni e alla sera crollavi di stanchezza che era un piacere. Il rammarico per aver lasciato i tuoi genitori non durava molto, dovevi imparare a fare il letto, a lavarti i denti, a fare la doccia, ad allacciarti le scarpe, a non perdere le tue poche cose. E decidere se dovevi startene da solo, come stavi a casa, perché eri “introverso” o fare crocchio con
qualcuno che giocava a birille di plastica come te. In colonia io andavo a Varazze, proprio attaccato ai cantieri Baglietto che sfornavano e sfornano motoscafi e yacht per ricchi. Ci tenevo ad andare perché così controllavo se Luisa, una tipetta di Pavia a cui non ero indifferente aveva messo su qualche dente, perché l’anno prima era sdentata; controllati a vista dalla zia che non si fidava per niente di un ganzo come me. Una “lei” senza denti era da scartare, comunque. Lei stava in pensione con la zia e io no, doveva essere una ricca. Ti ricordi quando ti alzavi alle sette meno un quarto? In camerata veniva dentro l’aria frizzante del mare, un piacere era sentirlo. Latte e pagnotta e via. Zitti! Arriva la signorina! Gare, camminate, ancora gare, qualche strillo, prendere un po’ di sole stipati come acciughe sulla sabbia, e bagni a orario fisso, scanditi dall’orribile fischietto, con la stanchezza sempre in agguato. Ma ciambelle e brioches dov’erano? La giornata filava via così, senza che te ne accorgessi, mentre alla sera mi ripromettevo di eludere la sorveglianza e andare a vedere cosa succedeva e a che ora si ballava al Kursaal Margherita o al Nautilus, a picco sul mare, locali chic della zona, piene di abiti fruscianti, neon, musica e signorine profumate. Invece mi addormentavo appena toccato il cuscino e di mondanità neanche a parlarne.
Ti ricordi quando facevi buchi nella sabbia e i castelli che rovinavano alla prima onda dispettosa? E la signorina o la suora sempre a controllare. Mica eravamo in mare aperto! Non c’era pericolo. Ti ricordi quando ti veniva la pelle d’oca mentre ti immergevi fra strilli e sbuffi degli altri scalmanati fino all’ombelico e senza salvagente? Perché ti sentivi già cresciuto? L’Italia di allora era disseminata di colonie per bambini, figli degli operai che sgobbavano nelle fabbriche. Oggi se ne è persa traccia a quanto pare, si è perduto l’impronta e l’abitudine, i tempi sono davvero cambiati e l’Italia dei bambini che vanno nelle colonie è svanita nel nulla, come tante cose di quei tempi. La nuova Italia sociale del dopoguerra beneficiava dei traguardi derivati dalla tumultuosa crescita economica. Non era passato molto tempo dai figli e figlie della Lupa e dai Balilla. Tu ci andavi negli anni Cinquanta, per prendere una boccata di iodio che ti faceva bene, come diceva il dottore a tua madre e per socializzare, perche te ne stavi timido e scontroso anche in compagnia, per provare a migliorare te e la tua salute.
(…) “come tutti, combatto quotidianamente con la Realtà, che mi diventa sempre più insopportabile per come è stata resa artificiosamente complicata e totalmente inumana.” GdT
Un’opera singolare edita daSolfanelli: Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti,èalla seconda edizione riveduta e ampliata, e già si parla di una terza ristampa. Qualche motivo deve pur esserci. Il gran nocchiere, suo principale attore, scrutatore degli abissi del reale, attende. Oggi c’è bonaccia. Non è fisico il suo sguardo ma interiore. Sulla fiancata del suo naviglio sta incisa la frase del Principe Guglielmo d’Orange il Taciturno «Non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare.» L’opera: una sorta di canto corale di chi ha conosciuto da vicino il personaggio. Ma anche pretesto per trattare sotto varie angolazioni e raccogliere testimonianze sul Fantastico. Qui risiede la sua originalità. Il suo protagonista, diretto verso il mundus imaginalis, ha “interpretato leggende narrate da geroglifici fatali”, attraversato i territori dell’angoscia e del rifiuto di Lovecraft, le imaginifiche lande di Tolkien dove nascono e muoiono regni e sogni. Il suo equipaggio: quelli che hanno lavorato con lui e per lui confidando ora che il nocchiero, come Ulisse, Giasone navighi ancora. A molti di loro egli ha impartito severe lezioni di ars scribendi che coniugano rigore, ricerca, ostinazione nel voler dare il meglio, insegnando la scoperta di segrete cose, celate alla vista dei più. Paola De Giorgi non teme di definire Il taciturno nocchiere col suo sigaro spento incollato all’angolo della bocca: “il nostro stregone del XXI secolo. Uno dei pochi ancora rimasti di una generazione di stregoni che avevano l’arduo compito di effettuare la grande ricerca…Un maestro ha l’arduo compito di indicare la strada, senza mai sostituirsi ai propri allievi.” Dal vasto arazzo alle sue spalle traspare anche l’ucronica visione della storia. Egli ha indicato il legame tra mito, epica e letteratura fantastica, rilevando insospettabili legami fra mondi antichi e l’oggi, basta che leggi l’ultimo capitolo di suo pugno, dove il Mito cede il passo al Fantasy. Il nostro ha lavorato per decenni con lo spirito dell’alchimista, la precisione dello scienziato. A lui è toccato dirimere, collegare e proporre nuove letture del “reale”, insospettabilmente collegato col fantastico.
L’opera parla delle avventure dirette o riflesse che lo vedono coinvolto, ma non solo. Un romanzo? un saggio? un racconto? o una serie di testimonianze? Nulla di “solo” questo. Piuttosto un amarcord redatto da ex “alunni”, colleghi e amici. Il Viaggiatore Immobile si avvale di testimonianze autografe per descrivere un’avventura senza fine. Il nocchiere ha la smodata passione per la Fantascienza, onnivora medusa che si nutre di sogni e di reale. Gianfranco de Turris è definito da chi lo conosce bene: “mastro orologiaio, promotore, animatore culturale, ispiratore, mentore, benevolo demiurgo, critico letterario, intellettuale acuto e stregone…” per il momento basta. L’individuo non è incline al complimento. L’immobile viaggiatore GdT ha solcato mondi iperuranici, messo alla frusta e aiutato a dare il meglio di sé decine di masochisti aspiranti Lovecraft. Il “Diogene del fantastico” sta rimuginando se, per caso, avesse lasciato qualcosa di inesplorato che valga la pena di sondare.Marco Solfanelli, uno dei suoi editori preferiti ed amico afferma: “Ancora oggi, la nostra collaborazione prosegue. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è: Io con Gianfranco non ci discuto; faccio tutto quello che mi dice. La stima che provo nei suoi confronti mi fa accettare qualsiasi sua proposta editoriale, perché è per me garanzia di qualità…” GdT da decenni, è solito rilevare riscontri e legami, per scovare un indizio, il bandolo dell’intricata matassa che si chiama fantasy, termine così pregnante da scoraggiare la più caparbia volontà di interpretazione.
Il Viaggiatore Immobile è il diario di bordo di un’avventura ancora lontana dal concludersi, talvolta commovente, verso il “maestro, lo stregone, il mentore, infine il gentiluomo.” E intanto il Fantastico irrompe tra le pagine del volume, come mai prima lo abbiamo considerato. A descrivere Gianfranco de Turris ci pensa Errico Passaro: “(…) è il critico che questa Italia faziosa e provinciale non merita. Non è eccessivo definirlo il più grande di tutti i tempi, nel campo della critica fantastica…ovvero il più grande esperto del fantastico italiano.”
Nelle immagini: la copertina del libro, Gianfranco de Turris, un dipinto di Julius Evola.