Milano era meglio di Londra in quanto a giardini?

IL VERDE DI MILANO …o di quello che ne rimane oggi. C’è il giardino d’Arcadia, e il giardino Serbelloni Busca Sola, e anche il Giardino Perego in Borgonovo, e il giardino del Figliol Prodigo e la Vigna di Leonardo da Vinci e anche quello della Guastalla. Ma è meglio fermarsi, prima che la nostalgia e lo sdegno prendano il sopravvento. Se leggi lo capisci. Il libro di Otto Cima FRA IL VERDE DEI GIARDINI MILANESI del 1925 è ripubblicato dalle EDIZIONI IL POLIFILO (che sfortunatamente ha cessato l’attività nel 2018). Possiede 26 tavole fuori testo di Giannino Grossi ed è presentato da Pier Fausto Bagatti Valsecchi. La nostalgia è comprensibile e lo sdegno anche, vediamone il perché. Il piacevole libretto potrebbe essere letto come una sorta di rilassante passeggiata fra ciò che resta del verde di Milano, facendo tuttavia ampio ricorso alla fantasia nell’immaginare ciò che non è più, gli alberi di alto fusto, le deliziose architetture del verde, alcune delle quali ideate da nomi di grande prestigio dell’epoca, gli incantevoli paesaggi lacustri dei giardini della Guastalla, le magiche atmosfere del giardino dei Visconti di Modrone. Nelle prime pagine di presentazione così leggiamo: “…L’autore esprime per parte sua di sensibile e accorato spettatore, lo sconcerto per la perdita, assai grave nella sua vistosa concretezza, di parte di quel patrimonio di giardini, esistente in passato, che a lui, cittadino colto e responsabile, appare come negativa evenienza trascorsa, passibile purtroppo di tragica continuazione. Ancor prima della Prima Guerra Mondiale ne erano scomparsi parecchi di quei giardini privati che rendevano meno sensibile a Milano la scarsità di giardini pubblici.

Uno alla volta, questo per una ragione, quello per un’altra, se ne andavano in silenzio, senza che la città se ne preoccupasse eccessivamente… la scomparsa recente del bellissimo giardino Borghi in via Principe Umberto, di quello dei Cappuccini a porta Venezia. E di alcuni altri non meno importanti, e più ancora il timore che la speculazione edilizia riuscisse ad impadronirsi dei restanti, scossero l’opinione pubblica.” Meglio tardi che mai. La risposta delle autorità competenti dell’epoca sembra, a detta dell’autore, aver sorto al momento qualche effetto positivo. Le tavole di Giannino Grossi sono coinvolgenti e suscitano rimpianto per scene urbane di grande attrazione, caratterizzazioni di una città ormai introvabile… (dalla presentazione del libro). Non siamo te e me che riusciremo a cambiare le cose, non sono la voce, le lamentele, lo sdegno di molti cittadini, che vedono giorno dopo giorno svanire un patrimonio unico, (il loro) che se ne va in malora, per fare spazio alle – così dicono gli amministratori – nuove esigenze della città in crescita, all’urbanizzazione approssimativa che si fa vanto di riservare spazi attrezzati di verde per la comunità, ma le hai viste che pena che fanno le cosiddette aree attrezzate?! Alle nuove torri grattacielo che come funghi senza senso stanno spuntando in questa città. Cos’ha a che fare Milano con la nuova edificazione? Ci sono nuove immigrazioni di massa in vista? Non mi sembra. Paesaggi formalmente eleganti (forse) stanno sorgendo un po’ ovunque sotto la spinta di urbanizzazioni che nulla hanno da spartire con l’idea di città dei cittadini, di tradizione, di rispetto della cultura e di valorizzazione di un patrimonio che il mondo ci invidia…o forse ci invidiava, visto lo scempio che dura da oltre un secolo. Da oltre un secolo, hai capito bene, ed è casa tua! Il libro di Otto Cima è delizioso ma è una stilettata e una conferma di ciò che andiamo ogni giorno a verificare. Cubi, torri, impenetrabili grattacieli, architetture ultramoderne, enormi e finti palazzi di cristallo che sembrano chalet di montagna e che, con la città hanno poco a che fare.

E il nuovo verde? …Mah! E questo che i milanesi volevano? È così che intendevano far crescere la loro città? O la speculazione ha avuto definitivamente il sopravvento relegando, ma era ovvio che dovesse finire così (?) sulle pagine dei libri di storia le meraviglie di una città unica per storia, arte, cultura, tradizione….La conferma? Eccola, è ancora il libro di Otto Cima che parla, (siamo nel 1925 e il vero scempio era al suo esordio): Le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale sono di là da venire; i grandi Piani Regolatori antecedenti e susseguenti al conflitto non hanno ancora inciso, come fecero poi, sulle scelte delle pianificazioni future: ma l’auspicio finale dell’Autore è espresso con parole che appaiono oggi perfettamente condivisibili, attuali persino nell’uso del linguaggio: ...urge mettere sul tappeto la questione di nuovi giardini pubblici per sottrarre alla speculazione le aree disponibili, in attesa di seguire l’esempio di quelle città… che sono riuscite a crearsi persino un demanio forestale, dove i cittadini vanno a passeggiare, a giocare, a respirare l’aria pura…. Proprio così, proprio come a Milano, in questo ultimo periodo…..80 anni dopo.

E poi, dimmi una cosa, tu, milanese verace o emigrante, come me. Dovrei essere contento per quella roba che han eretto a Porta Volta? È la sede della Feltrinelli. Io dico no a quella roba. Un altro pezzo di città violentato. Si trova al posto dell’oasi di verde che una volta occupava Ingegnoli. Io ci andavo a rilassarmi al vivaio Ingegnoli, non si poteva recuperarlo in nessun modo? Lo chiami un “edificio” che si integra col contesto urbano circostante? Ma fammi il piacere! A me dà solo smarrimento e un senso di oppressione. Te cosa ne pensi?

c’era villa Trotti Bentivoglio?

Caro Sindaco di Milano, cosa stai facendo per salvare Villa Trotti Bentivoglio? O di quello che resta? La fai demolire o ci dai qualche buona notizia? VILLA TROTTI BENTIVOGLIO: Un gioiello dell’architettura del 1700 (o quello che ne rimane) ridotto a pattumiera, ovvero uno dei tanti luoghi degradati della città di Milano.

Le pattumiere, anche se nobili, sono state messe all’indice da chi dovrebbe gestire e tutelare il nostro immenso patrimonio architettonico e artistico. Pattumiere a cielo aperto, immondizie, schifo e vetri rotti. Vogliamo continuare? Passateci davanti, andateci dentro, se volete e potete, se la nausea non vi fermerà prima; è villa Trotti Bentivoglio, una magnifica residenza del 1700 situata in una delle cento periferie milanesi. Di proprietà della Società Edificatrice di Niguarda, solerte e attenta nel sollecitarne il recupero ma impotente davanti a vincoli e veti del Comune di Milano. La Società ha anche pubblicato un bel libro sulla storia della villa di cui riproduciamo la copertina. Poco ci importa se un giorno il permesso di recupero verrà dato, o se è già stato concesso, poco importa sapere che la villa potrebbe forse ancora essere salvata dal degrado più avvilente in cui oggi versa. La sofferenza di molti cittadini è grande, lo sdegno cresce ma è semplicemente inutile. E l’intera città che ne soffre, è la dimostrazione di degradazione senza precedenti, che non sa distinguere le priorità che il nostro passato ci offre ancora a piene mani, simbolo di una devastazione profonda e dilagante. La devastazione del nostro passato, della nostra cultura, delle tradizioni, non importa se nobili o popolari; è la pervicace ottusità di leggi, persone, amministratori che si trincerano dietro cento motivi, all’apparenza plausibili ma inaccettabili per il senso comune. La devastazione delle nostre radici, nell’Italia che va in malora, insieme all’indignazione inascoltata di chi qualcosa vorrebbe comunque fare. Intanto un pezzo se n’è già andato. Era solo una cascina, era la Curt di Matt, solo muri umidi, tetti sfondati,
(che il tempo aveva ridotto così) ma faceva parte di un contesto

architettonico in cui si trova la stessa villa Trotti; inserita in quel complesso, teneva compagnia a Villa Trotti, adiacenza significativa, cara alla memoria della gente la Curt de Matt. Una cascina storica, come tante ce ne sono a Milano, devastata dal degrado e dall’incuria al punto da non poterne salvare nemmeno un muro e così le ruspe l’hanno spazzata via. Un’altra clamorosa sconfitta, l’ennesima devastante ferita alle membra della città. Caro Sindaco può aiutarci a fare qualcosa, per gli altri gioielli milanesi afflitti da incuria e degrado? Perché lo sdegno non basta più ai cittadini di Niguarda e di tutta Milano. Vorremmo risposte precise e attendibili. Grazie, attendiamo il suo riscontro. …ma il riscontro del sindaco non è arrivato, arriverà mai un giorno? Manco da Milano da qualche anno e ho una speranza: magari nel frattempo qualche anima pia e saggia ha provveduto e ha risolto il tutto!? Magari…

c’era Venere sulla terra?

KURGAe 6

Dal passato o dal futuro remoto, una lezione di vita: Milano-castello Sforzesco-dicembre 2009.
Tre unghie di luce le piovono addosso. Le minitorce illuminano il suo corpo pingue, alieno, dai fianchi enormi; le mammelle sembrano bisacce.

Sono andato a vederla quella mostra, e sono rimasto a bocca aperta. Te ci sei andato? È la Venere paleolitica di Dolni Vestonice.
Ha ventisettemila anni e sembra che arrivi dal futuro. Due tagli obliqui rappresentano gli occhi, nessun altro segno sul volto. La Venere non è sola, è in compagnia di altre sorelle che hanno ventitremila anni di meno. Le statuine di terracotta provengono dalla Moravia, insieme a ciottoli antropomorfi, vasellame di stupefacente finezza. Le compagne della sala accanto hanno pose e espressioni di incredibile modernità, dee madri, o sacerdotesse, simboli rappresentanti il legame col sacro, col divino, con l’ultrauomo, lanciano unala loro sfida dalla profondità del tempo. La suggestione è tale da suggerire la loro provenienza da un futuro remoto. Non dal passato. Ma, in fondo che differenza fa? Trentamila anni sono un attimo, un breve segmento che ci collega col passato futuro. Alcune tendono le mani nella posa di chi offre, sedute o in piedi, hanno seni minuscoli, ginocchia aguzze, l’espressione stupita, probabilmente utilizzate per riti sacri o propiziatori. Dee madri, divinità delle acque, dei boschi, delle pietre, della pioggia, simboli di uno spirito immanente in cui si ripetevano necessariamente il rito, la cerimonia propiziatoria per la fertilità dell’uomo e della terra, l’invocazione per il buon raccolto e per la fortuna durante la caccia al mammut. C’è un elemento che colpisce in tutti questi ritrovamenti.

Le armi sono completamente assenti. Perché al di là dell’aspetto “puramente” scientifico sono così importanti questi reperti? Perché narrano di un vivere armonico, pacifico, in accordo con le forze della natura, temute, rispettate e blandite; manifestano la perfetta sintonia e la partecipazione totale dell’uomo di allora in seno alla natura. Natura figlia, madre, spesso matrigna. Nel più ovvio e necessario rispetto. Comunque. Puoi dire dell’oggi la stessa cosa? No, non puoi dirla, vedi un po,’ ma e solo un esempio fra i tanti, cosa succede in Amazzonia e dell’inquinamento mortifero dei mari. L’aspetto saliente nasce proprio dal loro significato e dal messaggio che l’uomo moderno può, se vuole, scorgervi e cogliere osservando queste statuine. Non c’è ombra di armi di offesa, né tracce di riti cruenti nei reperti raccolti in piu siti. Quelle civiltà perdute vivevano pacificamente, in armonia e hanno qualcosa di fondamentale da insegnarci. A cominciare dal rispetto dell’ambiente. Te non pensi la stessa cosa?

a Milano si faceva vera Cultura?

Loredana Pecorini non c’è più da tre anni. Ma di lei ho un ricordo così vivo e grato che difficilmente si annebbierà. Tu, che sei di Milano, o ci vivi ancora, te la ricordi quando andavi a cercare opere speciali o a ascoltare musica in Foro Bonaparte, nella sua magica libreria? E tu, che mi stai leggendo perdona l’impertinenza, ma se hai conosciuto Lalla mi farebbe piacere conoscerti! Perché Lalla Pecorini faceva parte, e ora lo fa solo nel ricordo, delle persone ed eredità culturali migliori di Milano.

Mi aveva regalato un bel libro su Ugo Foscolo con la sua dedica a mio figlio. Bando al triste e grato ricordo. Perché ne riparlo? Avevo recensito il libro di un suo amico autore, in omaggio a lei e a lui ecco quello che avevo scritto qualche tempo fa: LA CHIMERA DI CARLO VIII  e penso che il post sia ancora attuale.
La signora ha più di cinquecento anni. Ma non li dimostra. Lo spirito è quello di una ragazzina, entusiasta e coinvolgente. Le avevamo chiesto un incontro per illustrare un nostro progetto e fra telefoni che squillavano e saluti con vecchi e nuovi clienti siamo riusciti a malapena a introdurre l’argomento. Di chi e di cosa stiamo parlando? Di una delle più lussureggianti librerie milanesi (ora sparita) : e della sua titolare, signora Loredana Pecorini, il cui spirito e passione sono identiche a quelle dei primi stampatori tedeschi, veneziani e trinesi che nelle loro botteghe, seicento anni fa, dettero inizio a una nuova arte: quella della stampa col torchio. La signora Pecorini è la loro erede ideale. E mentre dimostriamo interesse lei ci illustra con amorevole cura edizioni che farebbero gola a un troglodita. Carte giapponesi, caratteri mai visti prima, edizioni che sembrano carezzare lo spirito e la mente, in particolare una dell’opera proustiana che occhieggia da una teca protetta, dotata di una copertina che, da sola, induce all’acquisto. Sono i libri che lei vende, e definirli libri di pregio riesce assolutamente riduttivo. Infatti, il valore aggiunto di queste opere non è facilmente calcolabile. Non occorre essere bibliofili, bisogna semplicemente amare le cose belle, il gusto, l’armonia, capire che state sfogliando opere d’arte fatte di carta, passione, con illustrazioni fuori del comune, con caratteri e spaziature che nulla hanno da spartire col libro delle normali librerie. Fra le “meraviglie” della sua Libreria, troviamo: LA CHIMERA DI CARLO VIII di Silvio Biancardi. Si potrebbero sprecare numerosi aggettivi encomiastici per lodare quest’opera. Ne scegliamo due soltanto: entusiasmante e insostituibile. E già dai primi capitoli se ne capisce il motivo. Le 800 pagine de LA CHIMERA DI CARLO VIII si leggono (avendone il tempo) tutte d’un fiato, come un romanzo dalle mille avventure, dai mille volti, dai cento tradimenti; alleanze e promesse non mantenute si susseguono a non finire. Sono le radici di un albero che affondano nel passato dell’Italia, facendoci comprendere molte cose sui nostri trascorsi, sui comportamenti, sul nostro carattere nazionale di allora e odierno, non esattamente tutte incoraggianti o di cui vantarsi.

Ma la storia e i suoi perché qui trovano un riscontro tale e dovizia di particolari attraverso testimonianze e documenti di stupefacente rilievo e vastità. È tutto documentato con abbondanza di particolari. L’autore fa parlare sovrani, ambasciatori e belle dame in una girandola di battute che mai disorienta, anzi che sorprende per la sua vivezza. Silvio Biancardi tratteggia sapientemente un disegno che affascina per la ricchezza dei particolari e per la trama di ciò che davvero è accaduto in quegli anni drammatici.
Era l’epoca dei Medici, di Leonardo da Vinci, degli Spagnoli a Napoli, per intenderci, il tempo degli anatemi di Frate Girolamo Savonarola e delle meraviglie che le regali residenze napoletane custodivano. L’autore, spesso con sottile ironia, mai esprimendo giudizi fuorvianti raccoglie le ambasciate di Ludovico il Moro, le debolezze di Carlo VIII, (un sovrano il cui aspetto non era propriamente aitante: piccolo, smilzo, con un gran naso, e non suscitava entusiasmo), i dinieghi diplomatici della Serenissima, la faticosa spola degli ambasciatori spediti su e giù per la penisola a ricucire strappi, proporre alleanze, minacciare rappresaglie. Ma Carlo VIII aveva un progetto: scendere in Italia per scacciare gli Aragonesi e riprendersi quello che riteneva di sua proprietà: il regno di Napoli per poi continuare la rotta andando a combattere i Turchi. L’Italia dei cento stati, al suo passare si dissolve come neve al sole, mettendo in luce rancori, cupidigie, rivalse e vendette. L’Italia che non c’era, è tutta lì, non sa che pesci prendere, è in preda al collasso e si spaventa per poi tentare colpi di coda. I Francesi fanno sul serio e sparano per davvero con le loro micidiali artiglierie abbattendo a colpi di cannone le scarse resistenze degli Aragonesi. Soprattutto brillano le trame di Ludovico Sforza detto il Moro, che dopo aver favorito la discesa del sovrano francese accogliendolo con feste e danze a cui partecipano dame dalle generose scollature, ora sollecita la lega di Stati in funzione antifrancese (intrappolare il re ora nemico in quella palude insidiosa che era l’Italia di fine Quattrocento?)  Dopo aver sperato invano di espandere il suo potere Ludovico il Moro si sente ora trascurato e non tarderà a vendicarsi tramando esplicitamente contro i Francesi. E il Papa? Tutto da leggere ciò che successe veramente fra Alessandro VI e Carlo VIII. E l’autore di questo affresco dalle forti tinte ce ne dà ampio resoconto. E come trascurare le speranze deluse di Pisa che invoca il re francese in funzione anti-fiorentina? O l’enigmatica impassibilità del governo dei Dogi che non dice mai nulla e non rifiuta mai nulla? L’opera di Biancardi è unica perché fa parlare i protagonisti di quegli anni, secondo un diario di avvenimenti incalzante che ha il sapore di un reportage. Forse per una di quelle rare alchimie della storia Silvio Biancardi può dire: Io c’ero, ho visto e ora racconto. Le illustrazioni sono tratte dal volume. L’edizione ci è stata segnalata da Loredana Pecorini titolare della libreria omonima.

sei andato a vedere la mostra di Ligabue a Milano?

Milano. Palazzo Reale – 2008. Son passati undici anni! E mi ricordo come fosse ieri. E poi dicono l’età! Non andate a vedere i suoi dipinti a stomaco vuoto come ho fatto io se ci fosse un’altra mostra in programma su di lui. Che mi sono trovato alle prese con una serie di opere emozionanti e commoventi insieme, autentiche emanazioni di una energia psichica fortissima. Purtroppo, l’indicazione non servirà a molto visto che la mostra si è chiusa a novembre 2008. Stiamo parlando della fantastica esposizione di tele del grande folle, a Palazzo Reale di Milano, curata da Augusto Agosta Tota.

Di quel Ligabue che spaventava donne e bambini, ringhiando e spaccandosi la testa con dei sassi. Un grande, un monomaniaco, uno che per tenersi tranquillo aveva bisogno di farsi l’autoritratto. Per centoventitre volte ritrae la sua faccia, torva, triste, scomposta, con quell’occhio che ti fissa, inquietante. Il suo viso non è altro che una serie di ritratti psichici, come poteva vedersi lui, scomposto e ferito. Il grande pitur  che girava sulla moto, che andava dentro e fuori ospedali psichiatrici e che si rabboniva solo al cospetto della tela da dipingere. I suoi oli su tela, compensato e faesite mostrano galli che si azzuffano, cieli plumbei che incombono, paesini svizzeri sospesi a mezz’aria mentre poderosi cavalli da tiro imbizzarriscono in mezzo al campo. Un’opera complessa, un’emozione che ti prende le viscere e poi il cervello. Ti riporta al primordio, a come doveva essere la terra non troppo tempo fa (quella dei nostri nonni, per capirci). E poi ci sono gli occhi, tremendi, che scrutano e minacciano. Occhi di gattopardo, tigre, leopardo e di volpe, ci sono le ali possenti dei rapaci che predano volpi, e quelli micidiali della Tigre-ossessione, visione, scultura pittorica che si deforma, che ti mostra ugola e tonsille, tigre che a un certo punto ti pare un fiore che vibra e si scioglie. Tante parole di studiosi su questo grande protagonista della pittura, che non vogliamo ripetere. Quello che abbiamo rilevato, soffermandoci davanti alle sue tele, è pura inquietudine e una sorta di energia emozionante e tuttavia casalinga, assai vicina a noi e ricca di simboli. La natura come doveva essere, anche mostruosa, cieca, piena di insetti giganteschi, così pericolosi da minacciare un grande felino. Ma non è solo questo.

Qualche studioso, l’ho letto alla mostra, ha scritto che Ligabue dipingeva e si ritraeva per controllare quella natura, per confrontarsi con essa, col giaguaro e la tigre e con la volpe e il cavallo, ma anche con gli insetti ripugnanti e gli scorpioni, la magnificenza dell’aquila  e della sua furia regale e il disgusto davanti dell’enorme ragno che attacca; un tutt’uno, senza differenze: è la Forza che erompe dai suoi quadri; la sua follia gli serviva a capire, a farsi strumento di comprensione di forze telluriche e sotterranee, gli serviva per mediare, attraverso il grande orecchio, il grande occhio, la faccia da matto. L’Italia comincerà ad apprezzarlo dopo morto, normale, no? Lo scimmiottava. Lui al quale era difficile parlare, diffidente, geniale, solitario, e anche sgradevole e pieno di bizzarrie. Mentecatto che allude a una forza primordiale, sprigionata dalla palma, dall’espressione ottusa di un equino, dal balzo ripetuto dieci, venti, cento volte del giaguaro, della tigre, mentre teschi umani sorridono, quasi innocui, testimoni di vite trascorse, parallele a quella che ospita la grande energia. Ligabue si rappresenta come Napoleone a cavallo: volontà di potenza? Mah! Il quadro non è stato finito. Ligabue-Napoleone cavalca verso il nulla che è una macchia bianca, verso un luogo non finito. Basterebbero le poche sculture di bronzo a farlo grande. La scimmia, i cavalli, i felini che lottano, e ancora la sua faccia, assorta, che ti scruta. Un grande del ‘900. Antonio Ligabue sta a ricordarci che là fuori, lontano dalle convulsioni metropolitane c’è il nostro passato, l’energia cieca che ci ha plasmato: parenti del bue, del cavallo possente che ara, della mosca, del babbuino e dello scorpione. Ligabue ci grida che siamo parte di quella energia possente. I suoi animali diventano altrettanti simboli. Obbedienti a forze ancestrali, della pura natura madre assassina.  Ecco perché molte delle tele sono ripetitive, perché Ligabue raffigura simboli e forze allo stato puro nell’atto di aggredire: il leopardo che azzanna, la tigre che minaccia, l’aquila che assale. Forze agenti per mezzo di (poche) figure. Simboli e figure a loro pertinenti. Negli animali e negli insetti troviamo parti di noi, schegge della natura che ci ha forgiato. E come fai a non trovarti a casa nella sua jungla? Come fai a non emozionarti? Le sue tele ritraggono luoghi e incontri che l’uomo della metropoli momentaneamente diserta. Momenti della psiche incubo rappresentati da scorpioni, vermi, ragni giganteschi e pelosi. I dipinti di Ligabue raffigurano un mondo non ancora perduto; sono il nostro passato prossimo. Il nostro io animale, pianta, cielo, uragano. Forze che non possiamo eludere. Ragni giganteschi, scorpioni, aquile regali e giaguari pronti al balzo. Dimorano nella nostra jungla-psiche, nel nostro io più autentico in cui il pittore pescava a piene mani. Immedesimandosi di volta in volta nel serpente, nel cavallo, nella tremenda faccia da tigre e poi ci sono i ritratti di donne e uomini di un’intensità senza precedenti. Ritratti di volti che emanano una forza magnetica e coinvolgente. Dipingeva il nostro io-bestia-sguardo svelando l’occhio, orecchio artiglio, frugando nella natura più profonda e oscura.
 Illuminante nel catalogo della mostra edito da Franco Maria Ricci l’intervento di Vittorio Sgarbi: …Un genio quello di Ligabue, che nella sua assoluta istintività, nella sua arcaica complicità con la natura, era in grado di inserirsi a pieno titolo nell’arte contemporanea, proponendo un linguaggio figurativo che parla di cose semplici a persone altrettanto semplici. Ligabue ha avuto il merito di rappresentare in modo decisivo forme di espressione che hanno trovato enorme consenso presso la grande anima contadina dell’Italia, un’Italia minacciata dal progresso industriale, civile, intellettuale…