Al di là dei reperti che continuano a emergere dalla notte del tempo, sottratte alla profondità non più indecifrabile del nostro passato, una semplice constatazione si impone. Una società e una cultura che i reperti indicano come: pacifica, egualitaria, non sessista, dedita all’agricoltura ci fu e visse secoli; società di questo tipo costellarono l’Europa per migliaia di anni, poi furono attaccate e sopraffatte. Per migliaia di anni lo spirito di quelle civiltà prosperò, come realtà acquisita. Poi quelle civiltà sostanzialmente pacifiche furono aggredite e distrutte in breve tempo. E i modelli di sviluppo mutarono radicalmente. Questo dicono le inconfutabili tracce sparse per l’Europa. Frutto di studi e ricerche condotte da Marija Gimbutas.

Un uomo diverso prende il sopravvento, rozzo, aggressivo, che impone la gerarchia del comando e il patriarcato. Egli è alla radice del nostro pensiero e dei nostri comportamenti. L’uomo pacifico soccombe, è senza mezzi per contrastare il guerriero spaventoso, a cavallo proveniente dal bacino del Volga; egli fa agire la spada e la mazza, non c’è scampo contro di lui. La prima natura, pacifica e solidale soccombe alla seconda, e la storia dell’occidente muta il suo corso. Quell’antichissimo comunismo ante litteram, non imposto, quell’essenza pacifica e non autoritaria delle antiche comunità che mettevano al centro gli interessi comuni e avevano riguardo per i più deboli soccombe. L’essenza divina rappresentata dal sasso, dai corsi d’acqua, dalla stele, dall’albero e dalla dea madre fu annientata senza tuttavia scomparire del tutto. Ma la storia non procede per miglioramenti progressivi seppure non omogenei, come dicono i libri e credono gli ingenui. Il progresso inteso come meta ultima raggiungibile tappa dopo tappa, secondo un vettore a senso unico è pia illusione, un’idea astrusa, antistorica del nostro sviluppo; diecimila anni fa la freccia dell’evoluzione cambiò verso facendo piombare quelle antiche civiltà nel buio del terrore, dell’imposizione, del patriarcato sotto il tallone di una gerarchia di regimi sconosciuti. Nascono quesiti a cascata che coinvolgono aspetti culturali, antropologici, filosofici e di datazione degli eventi. Se i guerrieri Kurgan non fossero giunti a sconvolgere le nostre contrade dove prosperavano le pacifiche comunità gilaniche, oggi avremmo un uomo diverso? Le nostre società non avrebbero conosciuto le gerarchie imposte dal denaro, dalla spada, dal sesso, dal potere, come oggi le conosciamo? O la natura umana è fatta da essenze naturalmente e inevitabilmente antitetiche, attrici di drammatiche commistioni.

Quello che avvenne fu inevitabile? O stiamo esagerando la portata di quegli avvenimenti, attribuendo loro troppa importanza. La civiltà odierna è il frutto di quel drammatico innesto conseguente alle varie invasioni dei Kurgan ? O possiamo e dobbiamo considerare la loro natura come parte originaria della nostra stessa attuale natura. L’impero romano non ci sarebbe forse stato così come lo abbiamo conosciuto e forse neppure Dio e nemmeno il medioevo. Domande, suggestioni, questioni impossibili da risolvere visto che la storia non si fa con i se o i forse. Storia è sintesi di eventi e vicende di uomini. Considerare quella specifica natura dell’epoca gilanica come l’unica possibile sarebbe un errore. Noi siamo la sintesi di quelle popolazioni, noi siamo gli eredi di quello che appare uno stupefacente comunismo ante litteram andato perduto; infine siamo il seguito di ciò che sembra, a tutti gli effetti, uno stupro di civiltà ripetuto nel tempo. Diecimila anni fa la storia ha preso quella direzione, scegliendo come simboli di rappresentazione la spada e la lancia. Autentica comunità di intenti ci fu nella nostra vecchia Europa, espressione conseguente a un pacifismo interiore, di un mondo dove la chimica dei comportamenti diceva: pace, armonia, buon senso, dove la scala delle gerarchie poggiava il suo gradino più alto alle soglie del cielo, dove divinità femminili reggevano le sorti dell’uomo. Ma non andò per il giusto verso. Considerazione ultima: L’uomo gilanico vive ancora in noi, come aspirazione riscoperta, come utopia praticabile. Perché non prenderlo seriamente a riferimento per le nostre società malate? I tempi sono maturi, scelte diverse si impongono. Quelle antiche società vivevano in stretto rapporto con la natura, secondo un armonico reciproco scambio. Se le recenti rivoluzioni, da quella francese in poi non sono riuscite a rifondare alla radice l’uomo, come quasi tutte si proponevano, non ultima quella americana, una nuova rivoluzione oggi s’impone. Auspicabile, possibile, necessaria, e, soprattutto, improrogabile, all’insegna della non violenza del vivere in armonia e in pace. Capace di incidere alla base modificando tendenze e obiettivi. Occorre una risposta tendenziale al dissesto drammatico che coinvolge ormai ogni aspetto del nostro essere sociale, ambientale e civile. Un’inversione di polarità capace di informare e guidare istituzioni, scuola, relazioni e governi. L’uomo nuovo è possibile e sta bussando alla porta che le tribù Kurgan avevano sprangato. Stiamo sognando? Le utopie, la storia insegna, sono pericolose, ma un’utopia che parla il linguaggio delle societa gilaniche andrebbe sondata a fondo, non ti pare? Utopia dunque? Probabilmente sì, ma l’inizio di svolte radicali s’impone. All’insegna della solidarietà, del rispetto delle diversità, dell’ecologia, della messa al bando di qualsiasi ordigno di distruzione. La civiltà della spada ha fatto il suo tempo. Non sei d’accordo? Occorre privilegiare il possibile fattibile, e il praticabile che parla un linguaggio totalmente diverso da quello adottato dal potere e dall’organizzazione sociale così come oggi li conosciamo, maturati negli ultimi diecimila anni di storia. Lasciami almeno sperare. Ad Asti dicono: A custa pa’ gnente!