Johan August Strindberg scriveva?

Sì, lo so, sono un fanatico dei vecchi libri, te dirai, libracci, libretti ingialliti e dal testo quasi illeggibile. Forse esagero, forse no. Correva l’anno 1966 quando lo hanno pubblicato e qualche anno dopo ho scovato Gli isolani di Hemsö in una bancarella di libri strausati, sotto i portici che stanno dietro via Po, a Torino, lì andavo spesso a bighellonare.

La benemerita casa editrice si chiamava SANSONI (oggi solo un marchio Mondadori) e pubblicava una collana con uscite quattordicinali. Quella si chiamava volontà di fare e diffondere cultura. Ma non farmi divagare. Scoprire Johan August Strindberg attraverso la sua opera Gli isolani di Hemsö è una sorprendente avventura, spesso la critica prende abbagli, ma questa volta no. Mario Gabrieli nella sua introduzione giustamente rileva alcuni aspetti salienti di questo autore che, se non lo conosci, non mancherai di apprezzare, scrivendo fra l’altro: “Il vigore del suo stile è tale che chi legge si sottrae difficilmente all’incanto di quel ritmo fluido e serrato che arieggia l’improvvisazione, alla vivacità di quel narrare, sempre intenso e concreto…” C’è una scena in particolare, strepitosa, fintamente “solo bucolica”, fintamente “solo naturalistica”, che ti farà dire: ma questo è un genio della scrittura, nonché pittore scrittore, entomologo e botanico, chimico fotografo, ovvero un paesaggista, anche se i suoi paesaggi non sono quelli di Claude Monet, e anche fine psicologo. La scena è questa, te la riporto pari pari perché ne vale la pena: “Ebbe così inizio la battaglia: avanti due dozzine di bianche camicie disposte a cuneo come cigni migranti in autunno, falce dietro falce; e quindi, in ordine sparso come una schiera di rondini di mare, capricciosamente scartando deviando ma pur sempre in gruppo, le ragazze coi loro rastrelli, ognuna dietro al suo falciatore. Era un sibilar di falci e l’erba cadeva in fasci; una accanto all’altro giacevano ora i fiori dell’estate che s’erano azzardati a sbocciare fuori del bosco e della macchia: margherite e bruciafave, rose di macchia e borrane, rugiade di sole, garofani di campo, cerfogli, melampiri, cacalie, trifogli e tutte l’erbe e le gramigne del prato; un dolce profumo si spandeva per l’aria come di miele e d’aromi; api e calabroni fuggivano a sciami dinanzi alla schiera micidiale e le talpe si cacciavano nelle viscere della terra sentendo crollare i loro fragili tetti; il serpe impaurito scivolava giù nella fossa e s’infilava in un buco guizzando come una scotta al vento;Finita la prima battaglia al margine del prato, i guerrieri si fermarono appoggiati al manico delle falci a contemplare la devastazione che s’erano lasciati alle spalle….mentre le ragazze s’affrettavano a disporsi in ordine sul nuovo fronte. Ed ecco un nuovo assalto contro il verdeggiante mare dei fiori che ondeggia iridato sotto la crescente brezza mattutina e ora mostra variopinti colori luminosi, quando gli steli più gagliardi e le corolle spuntano fuori dalla molle gramigna ondulante al soffio del vento; ora invece si distende liscio verde come un mare in bonaccia.”

Scusa se mi sono dilungato a esporti questa pagina, autentica perla di letteratura nordica ma ne valeva la pena. Tu dirai: allora è un romazo idillico, bucolico? Tutto fiori e colori, tutto erbe e grato lavoro di giovani falciatori e ragazze con rastrelli?! Niente di tutto questo. Quella lampeggiante e profumata visione è un inganno. I protagonisti di questo vicenda, consumata fra le terre nordiche sono dominati da istinti primordiali, senza luce interiore né tantomeno divina, la legge atavica del possesso e del soddisfare gli istinti, dove gli appetiti sono di basso rango, tutti volti ai piaceri dell’accaparramento di beni e terra, questo impera, e, quando si può, dell’alcova. Abituati a una natura spesso inclemente, al vento, a lastroni di ghiaccio del fiordo, circondati da un mare vita e morte spesso furibondo, sempre insidioso. Un mare minaccioso e onnipresente dentro i cui flutti sparirà la bara di un’avventata sposa, avanti negli anni, che aveva tentato di assecondare le ultime ardite vampate della sua carne, imbastendo un nuovo matrimonio, invano. E il marito? Quel Carlsson che aveva lottato col suo duro lavoro, rimesso in sesto e fatto fruttare la fattoria della vedova e di suo figlio, patito di caccia e pesca. Lo scaltro Carlsson soggetto al richiamo dei sensi ispirati da carni ben più fresche di quelle della moglie. Brutta fine anche per lui.

Una storia di sopravvivenza nella dura e purtuttavia generosa terra nordica ritagliata fra i fiordi svedesi, mentre anche lo sposo, lo scaltro Carlsson ci lascia le penne in una notte di tregenda, come si legge nel libro: “Ma ora Carlsson non aveva più forza di correre. Si perse d’animo, rallentò l’andatura, e avanzò passo passo senza più riuscire a far resistenza, mentre sentiva alle spalle il mare rombante, fremente, ansimante, come se fosse lì soltanto a caccia di una preda notturna…”

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