e chi ha creato il nero gotico?

Non so se hai presente quel mattone di circa 500 pagine che va sotto il nome de IL CONFESSIONALE DEI PENITENTI NERI di Ann Radcliffe. Ebbene non è affatto un mattone, ma un romanzone a forti tinte dove amore, morte, delitto e panni molto sporchi si mescolano in una storia dalla robusta trama, che avvince, dove non mancano i colpi di scena. Le psicologie dei personaggi sapientemente tratteggiate, ce ne sono a sazietà, e alcune di ottimo livello letterario. Un’opera equilibrata dove i cattivi si comportano da cattivi e i buoni non mollano i loro ideali di amore e purezza nemmeno se minacciati dai diabolici cattivoni della santa Inquisizione e da frati e suore non proprio raccomandabili. Da ultimo sono i buoni a trionfare con tanto di happy end finale e di campane. Intanto ti sei sorbito 500 pagine di una vivace scrittura prodotta dalla penna della signora Ann Radcliffe, così la chiamava Edgar allan Poe, figlia di un merciaio e scrittrice oltremodo discreta. Così scrive The Edinburgh Review: «Non appariva mai in pubblico, né si mescolava nella società, ma si teneva defilata, come il soave usignolo che canta le sue note solitarie, celato e non visto». Fughe, agguati, rapimenti, delitti, separazioni strappalacrime. Non voglio toglierti la sorpesa di leggerlo. La penna della Radcliffe ti fa calare nei sotterranei labirinti dell’Inquisizione dove chi confessa è perduto e chi non confessa è perduto lo stesso. Un fumetto gotico di gran classe dove i cattivi hanno la faccia da farti raggelare il sangue e i buoni faresti la coda per farti fare un autografo. Tutto fila dunque? Non proprio. Perché per leggerlo devi essere un lettore accanito, uno che non molla, anche se la narrazione si fa pesante.

E per quale motivo? Te lo spiega nell’introduzione Giorgio Spina: “…lo scavo psicologio appare più velleitario che un dato reale, tanto che nella vicenda si muovono non gà degli esseri umani, in carne ed ossa ma delle figure stereotipate dalle convenzioni del tempo, quasi dei pretesti letterari per giustificare il susseguirsi dell’azione …Prolissità e scrupoli razionalistici, se sminuiscono l’impressione di terrore a cui è da presumersi l’autrice avesse teso …non riescono tuttavia a svalutare l’importanza di questo capolavoro…” Infatti l’autrice razionalizza, illustra i meccanismi dell’azione pregressa con l’intenzione di spiegare nello spirito illuministico che intende provare e trovare sempre una ragione a tutto. Così facendo la narrazione si appesantisce, il ritmo rallenta e alla fine confonde perché la sovraproduzione di dettagli e spiegazioni rischiano di far deragliare la vicenda. Eppure l’opera è un classico, l’inaugurazione del romanzo gotico nero, nello specifico un fumetto di gran classe con un solido e verosimile intreccio. Documento che oltre all’intrinseca validità della narrazione illustra lo spirito dell’epoca . Radcliffe fa le cose sul serio, narrandoci la discesa agli inferi nelle segrete dell’Inquisizione. Maestra di incubi e tormenti che suggerisce senza mai farle vedere, come fa invece Poe, visioni truculente, giocando su effetti da film noire. Qui un padre frate sta per pugnalare la figlia diciottenne senza sapere che è lei, ma poi si scopre che la vittima non era la figlia.

Mi viene in mente la frase di un critico che all’uscita di Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo scrisse: “avrebbe potuto essere un capolavoro” . IL CONFESSIONALE DEI PENITENTI NERI è un capolavoro a metà, tutto amore contrastato, trame delittuose, passioni, delitto e colpi di scena, con personaggi soavi come suor Olivia, filibustieri omicidi che sono diventati frati senza redimersi. Ma c’è un altro elemento interessante che nutre la vicenda, giocando un ruolo di spicco: il paesaggio, l’Italia del centro sud vista da una londinese che non era mai stata l’Italia e che immagima com’è il golfo di Napoli. Onore alla sua fantasia. Senza troppo azzardo ci vedo un legame fra il paesaggio della Radcliffe e quello di Fogazzaro in Malombra , non più illuministico ma melodrammaticamente romantico, paesaggio psicologico, visto che interpreta alla perfezione le nature tormentate dei protagonisti.

E ancora il paesaggio anche se di tutt’altro tenore e vastità, quello incontrato da Charles Darwin nel suo viaggio intorno al mondo sul brigantino Beagle, anche se qui non c’è romanzo, ma ricerca scientifica. Cos’hanno in comune il teatro naturale del mondo col paesaggio descritto da Radcliffe e Fogazzaro? Un’eredità, un tratto che li accomuna, di eccezionale valore: ovvero la natura intonsa, vincitrice, che durava da millenni prima che l’uomo con le sue devastanti attività la corrompesse. Ma questo Radcliffe e Fogazzaro non potevano saperlo.

scriveva Marie-Henri Beyle?

Beh, non possiamo dire che fosse un Adone e nemmeno un sedentario, con quel gran faccione che lui stesso definisce in modo assai poco lusinghiero. Sempre in movimento al seguito dell’esercito napoleonico e nei salotti di Parigi, Londra e Milano, alla ricerca del bello, che gli serviva anche per scacciare noia e depressione. Non si piaceva Marie Henrie Beyle, tozzo, sgraziato, con gambette smilze e corte, francese d’hoc e innamorato di Milano e delle sue donne. A proposito di donne, si innamora di tutte, fra loro primeggia Metilde, che lo mette alla porta perché troppo insistente. E certo non si cela per apparire diverso, si mostra appassionato e, volubile qual’è, racconta con candore i suoi «fiaschi», memorabile quello con Alessandrine, creatura a pagamento, ad esempio, fiaschi non solo amorosi, nei salotti era difficile che non facesse parlare di se; appena vede una donna “potabile” perde la testa, le fa un’assidua corte, si dichiara e poi la chiede in matrimonio, invano, osteggiato dalla sorte e da burberi tutori, quante volte gli accade di essere piantato dall’ amata di turno «senza neanche averla avuta». Un fanciullo, un gigione di italica impronta, ma senza offesa! Perché sincero a oltranza. Dal grande eloquio e col cuore sempre pronto a infiammarsi per la pittura, la musica e le gonnelle salvo poi fare cilecca con una bella meretrice d’alto bordo durante una gozzovigliante serata coi suoi amici che se la ridono a crepapelle. E lui lo scrive, sforzandosi di mettersi a nudo, di essere il più sincero e onesto possibile, in quel magnifico reportage d’autore che si chiama RICORDI DI EGOTISMO. Autentico vissuto con gustosi flash e commenti a ripetizione. Pettegolo e bonapartista a oltranza, ne ha per tutti, a tutti riserva commenti spesso poco lusinghieri, descrive amici nemici, con candore, naturalezza, persone che gli danno fastidio e palloni gonfiati alla corte di Napoleone e nei salotti della Restaurazione. Alcuni esempi fra i tanti: ” …Questa spia, terrorista nel ’93 non parlava che di marciare contro il castello per massacrare tutti i Borboni. Sua moglie era tanto libertina, tanto desiderosa del maschio che portò  all’estremo il mio disgusto per il libero parlare francese…La signora è secca come una cartapecora e priva di spirito e soprattutto di passione e d’ogni capacità di commuoversi se non per le belle cosce d’una compagnia di granatieri che sfilino nel giardino delle Tuileries in calzoni di cachemire bianco…A proposito del suo faccione: “Portavo due enormi favoriti neri dei quali solo un anno dopo la signora Doligny mi fece vergognare. Quella mia testa da macellaio italiano parve non garbare troppo all’ex colonnello del regno di Luigi XVI….” A Parigi, Civitavecchia e a Roma si annoia perché non trova niente da fare ….Spirito critico, libero, provocatore, iper romantico e polemico, Stendhal scrive: “Non ho amato mai appassionatamente che Cimarosa, Mozart e Shakespeare.

A Milano. Nel ’20 mi venne il desiderio che questo fosse scritto sulla mia tomba. Pensavo tutti i giorni all’epigrafe, convinto che solo nella tomba avrei trovato tranquillità. Volevo una lapide a forma di carta da gioco… Odio Grenoble , sono arrivato a Milano nel maggio 1800 e l’amo. Là ho avuto i maggiori piaceri e i maggiori dolori. Là, e questo costituisce una patria, ho provato le prime gioie. Là desidero passare la vecchiezza e morire.” Stendhal, francese purosangue e innamorato dell’Italia come pochi. Nei suoi scritti intimi non mente: «Quasi certamente piacerei agli sciocchi se mi dessi la pena di aggiustare qualche brano di queste mie chiacchiere. Ma forse scrivendole come una lettera a mia insaputa do l’idea del somigliante. Ebbene io voglio soprattutto essere veridico». Qualcuno negava la sua grandezza di romanziere? Sì. Victor Hugo, ad esempio, che qualificò Stendhal «un uomo di spirito che era un idiota» e che non si rendeva conto «che cosa significasse scrivere». Stendhal fu considerato l’iniziatore del romanzo moderno, che ispirò la grande narrativa di costume dell’Ottocento. E se lo dice Wikipedia c’è da crederci. Acuto e verificabile un giudizio sulla società inglese: “…La società è divisa in sezioni come una canna: il grande impegno di ognuno è salire alla sezione superiore, e il grande sforzo di questa è di impedirglielo…”

A proposito di una strana sindrome: da lui prende il nome la celebre sindrome di Stendhal, detta anche sindrome di Firenze (città in cui si è spesso manifestata): si tratta di una affezione psicosomatica osservabile nei soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se esse sono compresse in spazi limitati. Ma in che modo si manifesta? Il fenomeno si è verificato di frequente al cospetto delle opere di Caravaggio e Michelangelo. Fu proprio Stendhal a descrivere nell’opera “Roma, Napoli e Firenze” scritta nel 1817, gli effetti di questa patologia psicosomatica, sperimentata in prima persona. Lo scrittore, in effetti racconta che, durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo. Fa onore alla Francia l’amore conclamato di un grande francese per il nostro paese che scriveva: “…quante precauzioni si devono prendere per non mentire a se stessi!” …e oggi di francesi appassionati della penisola come lui ce ne sono in circolazione? ne avremmo bisogno, visto che gli italiani latitano.

Se vuoi leggere qualcosa che ho scritto io

Gervasia diceva: “Taci bagascia se no ti ammazzo”

E voilà, l’inferno in terra è servito. Ovvero l’incubo e l’orrore, ma non quello magistralmente evocato da Poe e De Maupassant, quello era di origine psichica, questo invece è orrore casalingo, banale, se vogliamo, “normale” e irredimibile, in una grande città come Parigi, allora come ora:
” …Quando dormivo, mi veniva vicino, e voleva che mi concedessi. Era una bestia, vi dico. Mi rifiutai, lo morsi, lo graffiai, ed egli, furibondo per questa mia ostinazione mi batteva a sangue. Fu lui, (ovvero il padre) che una notte, mi rovinò la gamba con un mattarello. …La faccia di Gervasia fu la prima a schizzar sangue: tre lunghe graffiature scendevano dalla bocca sotto il mento… Virginia non dava ancora sangue. Gervasia mirava alle orecchie. Alfine riuscì a strapparle un orecchino, producendole uno squarcio all’orecchio….”
E alla fine, proprio nell’ultima pagina: “…Sollevò la donna ormai leggiera come una piuma, e la distese in fondo alla bara, con cura paterna. Quell’uomo, uso da lunghi anni a quella triste mansione , si commosse: “Dormi tranquilla, ora, povera Gervasia!… le disse: fa la nanna, bella mia. La tua giornata, non certo felice, è finita. Fa la nanna, fa la nanna bella mia…” Di che si tratta? Chi è Gervasia? Com’era un tempo Gervasia e cosa ha fatto da meritare compassione da un becchino? Gervasia è la protagonista de l’Assommoir, un romanzo verità di Emile Zola, gran romanziere francese, orientato alla denuncia sociale e a descrivere il ventre di Parigi del diciannovesimo secolo, preoccupato di quanto male producesse alzare troppo il gomito. A modo mio ti faccio il riassunto di questa tragica vicenda e se mi permetti userò per una volta dei termini crudi, volgari, senza girarci tanto in tondo. Per renderti meglio l’idea. Gervasia se fa ingravidare poco più che bambina, da uno che aveva la vocazione del profittatore e lenone, a Gervasia, lo capiremo più tardi, piace scopare, con chi gli piace, dove sta il problema? Non c’è. Il problema insorge quando il farabutto con cui ha avuto due figli la pianta in asso, dopo aver pignorato anche la canottiera, ma lei, da brava donnina ce la fa da sola. Un bravo giovane le fa la corte, e lei accetterà di sposarlo, con molta reticenza, poi si fa scopare da un amico facoltoso del delinquente che la picchiava, dal quale aveva avuto i figli, le malelingue dicono che si accoppiava con chi più le piaceva anche da giovanissima. Gervasia, che faceva per guadagnare la pagnotta la lavandaia poi la stiratrice, poco alla volta ce la fa a smarcarsi dalla miseria, arrivando a comprare un negozietto, prima si fa toccare il culo poi chiavare periodicamente dall’ex compiacente proprietario del suo negozio.

La quasi normalità durerà? No, non dura, perché il marito lattoniere cade dal tetto facendosi un gran male, il ganzo non ha più voglia di lavorare e arriverà a dire alla figlia che Gervasia ha avuto non si sa bene da chi: “Del resto potete far benissimo il paio. Madre e figlia, che bella coppia di bagasce!…Osa negare Nina, che, mentre vai a cibarti dell’ostia , guardi di sottecchi gli uomini? Osa negare piccola bagascia!…Nina guardò fissa suo padre, poi usando lo stesso suo linguaggio, a denti stretti , gli disse: -Ruffiano!- Insomma la situazione sta per peggiorare di nuovo, fino al punto che il primo delinquente lenone viene portato a casa proprio dal marito beone che le dice addirittura: “Datevi un bacio e fate la pace!” Okei, peggio di così c’è solo l’Isola dei famosi! e la tv italiana. Gervasia dopo un po’ ci ricasca e usa lo stesso letto per farsi altre scopatine, il problema è che la figlia avuta non si sa da chi, vede come fa la mamma a farsi chiavare e ne rimane alquanto scossa, che già di suo lo è, scossa, essendo una discola incorreggibile. In ogni caso, la faccenda precipita e si comincia a bere, anche Gervasia beve e il suo bel negozietto che stava facendo la sua fortuna, va in malora. Angeli ci sono in questo trucido nefasto racconto ipernaturalistico, una bimba angelo, vicina di casa di Gervasia, che morrà di stenti e percosse, perseguitata dal padre beone che aveva preso a calci in pancia sua moglie facendola crepare.

Insomma l’epilogo della storia di Gervasia dalle belle tette sode e dalla pelle chiara si riassume in una bara, muovendo a compassione il becchino che la solleverà leggera come una piuma. Insieme a una carrettata di altri racconti, insieme a Teresa Raquin che è un casalingo giallo horror nero, L’ASSOMMOIR mi fa riflettere. Prima l’abiezione, poi il riscatto, poi ancora la discesa veloce verso la fine senza più riscatto. A me personalmente mi rattrista, mi incupisce, mi fa dire che non c’è riscatto che tenga, perché solo transitorio e legato al caso, quello che deve succedere succede, alla faccia dei volenterosi tentativi di Gervasia, che pure lei, si fa trascinare nel gorgo abominevole innescato dal bere dopo aver intravisto la luce e il decoro. Sono personaggi bacati, segnati in partenza dalla sorte o dal loro DNA, oppure indugiando all’alcool affrettano la loro fine già comunque segnata? Questa storia senza luce, di proponimenti e promesse ne aveva avute, ed erano state colte, così da far sperare che la faccenda, dopo tutto, sarebbe finita per il meglio. Lavoro e onestà avevano dato i primi frutti consistenti. La speranza di una vita migliore, serena, equilibrata, una vita dove il lavoro portava prosperità e pace. La critica dice che questo e altri racconti di Zola sono frutto di un’attenzione sociale, mettono il dito sulla piaga del bere, del degrado, sono opere che scandagliano e denunciano, romanzi naturalisti-veristi, d’accordo, nessuno lo nega, era il periodo in cui in Europa ci si dava da fare per creare un nuovo ordine economico sociale, fra alti e bassi, rivolgimenti e rivendicazioni, ma il, chiamiamolo “destino” di quei personaggi era già scritto e decretato che deragliasse e che il binario del male e del degrado totale fosse inevitabile? Fammi notare una cosa, ancora una volta è la donna che mette la sua sigla nel bene e nel male scrivendo la parola FINE. Una volta che Gervasia crepa ignominiosamente la storia è davvero finita, lasciami concludere con le parole di Zola: – La morte doveva prenderla a spizzico, a boccone, a boccone, trascindadola così fino all’estremo della maledetta esistenza che si era formata….Quella bella stiratrice, era caduta nel nulla, peggio, nella cloaca…Una mattina, se ne accorsero i vicini di casa, dal tanfo di cadavere che emanava dalla sua camera, ridotta a un canile.” Qualcosa di diverso dall’oggi? Basta che dai uno sguardo alla cronaca nera dei giornali per trovare altre Gervasie.

Potocki preparò una pallottola d’argento e poi fece bum!…

Jean Potocki è uno dei più grandi architetti della letteratura francese; nel suo Manoscritto convergono tutti i generi letterari conosciuti, dice l’introduzione dell’edizione integrale del Manoscritto trovato a Saragozza a cura di René Radrizzani. Traduzione in italiano di Giovanni Bugliolo – TEA L’opera è la trasposizione di un manoscritto riposto nel 1765 in una cassetta di ferro, scoperto nel 1809 e poi tradotto in francese da un ufficiale di Napoleone. Un romanzo matriosca che racchiude scatole cinesi, una dentro l’altra, a sorpresa. Picaresco, immenso, intricato, ricco di avvenimenti e con molteplici protagonisti. Una persona racconta una storia in cui riferisce la narrazione che le ha fatto un’altra persona che, cammino facendo riferisce a sua volta un racconto che ha sentito, scrive René Radrizzani nella sua densa prefazione. Romanzo nero, con storie di forche e di briganti, racconto fantastico e storia di fantasmi e anche racconto libertino e quindi filosofico e anche storia d’amore e di intrighi politici. Tanti destini iscritti in un unico universo. Grande opera satirica con prospettive complementari, si legge.

E anche composizione polifonica che si presta a molteplici letture e interpretazioni. Musulmani, ebrei e cristiani, ad esempio, sono membri di una grande famiglia. Una moltitudine di destini e di sensibilità, si legge. Ma chi era l’autore, ricco proprietario terriero e nobile polacco, che ha scritto altre opere oltre a questo lavoro misterioso e affascinante e cos’è che pensava? Mainly in his travels journals written between 1785 and 1791, Jean Potocki left nine oriental tales of unequal lengths, less known than the Manuscript Found in Saragossa, but which are also interesting. The formal study of these tales reveals their clearly fictional character without going as far as the supernatural, and a rhetoric with sometimes confusing effects. The human condition is presented in a very negative light: individual interest, lust, jealousy. Politicians are stupid and dishonest. Religion leads to hatred or allows to satisfy guilty passions. Nevertheless, there is always some goodness and a fragile happiness can be found in oneself and in the here and now. Finally, a few words show that these tales precede and prepare the great novel. Così scrive Openeditions. Una fragile felicità e del buono possono essere sempre ritrovati dentro noi stessi, qui e adesso, egli pensa. Potocki prestò servizio due volte nell’esercito polacco come capitano degli ingegneri e passò un po’ di tempo in una galea come novizio dei Cavalieri di Malta. La sua vita movimentata lo ha portato in Europa, Asia e Nord Africa, dove fu coinvolto in intrighi politici, flirtato con società segrete e ha contribuito alla nascita dell’etnologia – è stato uno dei primi a studiare i precursori dei popoli slavi da un linguistica e punto di vista storico[1]. Secondo la leggenda Potocki avrebbe fatto benedire la pallottola d’argento con cui si sarebbe suicidato. Della sua morte si narra: Il 23 dicembre 1815, all’antivigilia di Natale, in preda a sconforto e depressione, stacca una fragola d’argento che adornava una sua teiera e, limandola accuratamente giorno dopo giorno, la modella per farla diventare una sfera. Raggiunte le dimensioni adatte, secondo la leggenda[5] la fa benedire, quindi, ritiratosi nell’ufficio della sua biblioteca, mise la palla nella canna della pistola e si sparò alla tempia. Una storia nella storia, non ti sembra?

Punta di diamante del razionalismo con trame intricate giocate su più scacchiere. Una lettura affresco che dà le vertigini e in cui e facile perdere la bussola. Quest’opera è un gran gioco letterario: una fuga verso il moderno? Mi chiedo. Sicuramente si tratta di una sintesi riuscita di diversi stili narrativi. Ho letto più volte questo capolavoro, intrigante e sempre mi sono perso nei suoi labirinti. La sensazione è quella di leggere 6-7 romanzi tutti in una volta. Un’esperienza rara, indimenticabile, per lettori incalliti che non demordono e che non rinunciano alle forti emozioni. Dell’opera oltre a  Il manoscritto di Saragozza ( Rękopis znaleziony w Saragossie ), diretto dal regista Wojciech Has e interpretato da Zbigniew Cybulski nei panni di Alphonse van Worden.è stato ricavato un film per la TV francese il cui montaggio è durato due anni.

giocavi d’azzardo?

Indovina qual’è l’attivitá principale svolta a Roulettenburg? Indovinato! Si gioca alla roulette. Chi l’avrebbe mai detto?! E chi gioca alla roulette fino a perdere la camicia e poi a rifarsi un patrimonio e infine a perderlo per poi continuare a giocare e a vincere di nuovo, eludendo anche l’amore? Nientemeno che il grande  Фёдор Михайлович Достоевский, ovvero Fyódor Mikháylovich Dostoyévskiy, o meglio il suo io diventato il personaggio del precettore, alias Aleksej Ivanovič. Il libricino l’ho letto in edizione leggi e getta, stampato su carta che fa ribrezzo, in una di quelle edizioni omaggio che ti rifilano coi giornali e che poi perdi per strada. Capolavoro indiscusso dello scrittore russo Dostoevskij, Il GIOCATORE, scritto per amore o per forza, in ventisei giorni, forzato dall’editore da un contratto capestro, mette a nudo l’animo del grande Fyodor, afflitto da coazione onanistica, cosí definisce Freud la smodata dedizione o fissazione per il gioco d’azzardo. Un’opera che ha anche il pregio di illustrare, via via, alcuni caratteri nazionali europei, i “polacchini”, ad esempio, non ci fanno una gran bella figura, sempre a bisticciare fra loro, ai fianchi della nonna, giocatrice folle e a riempirsi le tasche del suo denaro, conseguente alle sue vincite.

Attraverso questi bizzarri personaggi, i quali non mostrano di essere troppo dissimili dal vero, ovvero non troppo romanzati, si dipana una storia d’amore, intrigo, sotterfugio e di follia per il gioco d’azzardo. De Grieux, ad esempio, il francese, e come tutti i francesi allegro e gentile quando occorreva e gli conveniva, ma insopportabilmente noioso quando mancava la necessitá di essere allegro e cortese. Il francese è di rado cortese per natura; lo è sempre, come a comando, per calcolo. (parola di Dostoevskij, io non c’entro) uscendone con la reputazione compromessa, l’arrampicatrice fascinosa e accalappia dote, ovvero la cinguettante Blanche, difficile al suo riguardo trovare una categoria di persone piú calcolatrici, piú avare, e piú spilorce di quella cui apparteneva mademoiselle Blanche, scriverá l’autore. Blanche troverà il modo di cavarsela sempre, in virtú del suo irresistibile fascino parigino, e poi il timido e saggio inglese, Astley che davvero si fa onore in questa turbinosa vicenda fatta di colpi di testa e giocate folli, quindi la nonna russa che doveva tirare le cuoia e invece sta meglio in salute della combriccola che la vorrebbe defunta, affamata della sua cospicua ereditá, sino allo smarrito generale, suo nipote, ma, purtroppo per lei e per la combriccola, rimarrá in bolletta al tavolo da gioco…La nonna, sino a che non ebbe perduto tutto, godette per l’intera giornata, presso i croupiers e presso i dirigenti del Casinó, di una palese autoritá e infine il precettore russo, divorato dal demone del gioco della roulette, autenticamente tarato e succube del gioco d’azzardo, al punto che preferirá all’amore di Polina, della quale era ed è perdutamente innamorato, continuare a giocare, e ancora a giocare. A seguire una frotta di personaggi russi davvero unici, salvo poi scoprire che i russi devono essere davvero come ce li descrive il famoso autore. EKATERINA SINELSHCHIKOVA, che di Russia se ne intende, su Russia beyond, scrivendo di Dostoevskij riporta un suo pensiero: “Sono così dissoluto, che ormai non posso vivere normalmente. Ho paura del tifo e della febbre, e i miei nervi sono malati. Le Minucce, le Clarette, le Marianne ecc. sono sempre più belle, ma costano un sacco di soldi”, scrisse Dostoevskij. A proposito del gioco d’azzardo: “Non appena mi risveglio, il cuore si blocca, le gambe e le mani mi tremano e si gelano”, così descrisse quello che provava, quando cadeva preda del demone del gioco.

Due le cose che mi hanno colpito nel breve romanzo: l’imponderabile carattere russo, passionale, “eroico”, sotto certi aspetti: mediterraneo, generoso, smodato, balzano, ovvero teatralmente incline al dramma; ma ogni definizione che tentasse di descriverlo risulterebbe lacunosa e approssimativa. Infatti l’imprevedibile e lo stupefacente nel carattere russo vanno a braccetto, latenti e sempre pronti a manifestarsi. La seconda cosa è la descrizione del parossismo che coglie taluni giocatori dediti al vizio dell’azzardo. Io mi sono scoperto a desiderare che il precettore del generale la smettesse, abbandonando il tavolo da gioco, che interrompesse la folle corsa verso l’abisso. Parteggiavo per lui e non volevo la sua rovina!

Ma presto capii che non si trattava di una semplice debolezza o abulia, ma di una passione profonda, capace di paralizzare tutti i centri della volontá…Bisogna rassegnarsi a considerare la passione per il gioco come una malattia incurabile, cosí scriveva Anna Grigor’evna Snitkina, coniugata Dostoevskaja, seconda moglie di Dostoevskij.
Lo scrittore russo non poteva scrivere quelle pagine su Aleksej Ivanovič, il precettore divorato dal gioco, che continuava a vincere e a perdere, se lui stesso non avesse provato sulla sua pelle, l’inferno del gioco d’azzardo: …avevo le tempie madide di sudore e le mani che tremavano (racconta Aleksej Ivanovič, ovvero Dostoevskij, alla roulette)…La fortuna continuava!…Bravo! Bravo! gridavano tutti mentre alcuni battevano addirittura le mani. Strappai anche lí trentamila fiorini, e il banco fu di nuovo chiuso fino al giorno dopo! -Andatevene! andatevene! -sussurrava una voce alla mia destra. -Per amor di Dio, andatevene!- mi sussurrava un’altra voce all’orecchio sinistro…Volevo stupire gli spettatori con un rischio pazzesco e oh strana sensazione! ricordo benissimo che a un tratto una tremenda sete di rischio s’impadroní di me…Attorno si gridava che era una pazzia, una pazzia che Dostoevskij riesce a trasmettere al lettore. Portentosa e magnetica potenza della sua scrittura! Da non perdere.

accusarono Henry Valentine Miller di oscenitá? (2)

La prosa di Miller, successiva a quella di De Queiroz di una sessantina d’anni, descrive una delle infinite propaggini (siamo in una sala da ballo) di un mondo nuovo e giá in palese degradazione-dissoluzione, un mondo giá alienato e a gambe all’aria (successivo alla grande Depressione) in cui il sesso funge da strumento di misura e scandaglio, il naufragio dei vecchi valori ed equilibri incarnati dai personaggi del romanzo portoghese, balza agli occhi, evidente. Confrontare i due brani scritti da due maestri della letteratura fa venire la gastrite.

Scherzi a parte, cosa è successo in poco piú di mezzo secolo? E tu dove vorresti vivere? nel Portogallo di fine secolo o nella rutilante America, padrona del mondo? Tutto e il suo contrario. Il nuovo mondo, a detta di chi ci è nato e vissuto, si è rivelato in questo modo: Nella pancia del trombone sta l’anima americana che esprime a scorregge il suo cuor soddisfatto…confrontato con la limpidezza e la soavitá di una sala da pranzo portoghese di fine Ottocento: la sala da pranzo della Torre si apriva per tre porte finestre su un’ampia veranda a colonne coperta, e conservava sin dai tempi di Nonno Damilao, il traduttore di Valerio Flacco due belle tappezzerie di Arras che rappresentavano La spedizione degli Argonauti. Piatti dell’India e del Giappone, scompagnati ma preziosi, riempivano un immenso armadio di mogano. Miller parla del sogno americano in questi termini: Nell’aureo suono sciropposo di felicitá, nella danza del piscio stantio e della benzina, la grande anima del continente americano galoppa come una piovra… C’è musica in entrambe i brani ma quella del Fado che riprende sempre piú dolce e glorificatore in TROPICO DEL CAPRICORNO è diventata veleno: Nella musica c’è sparso veleno da topi, e ancor peggio: …la musica è come una diarrea, un lago di benzina stagnante di scarafaggi e di piscio di cavallo stantio… Ora, di questi esempi, e di un’infinitá di brani si potrebbero citare e commentare. Il vecchio mondo “decrepito” che sta per lasciare il passo al nuovo è armonia di forme, ricco di stemmi, blasoni, finte o autentiche virtú, tradizione, colori, stili di vita e ambienti radicati nel passato e solo nel passato, è insomma la Tradizione, nell’accezione piú ampia, e nel bene e nel male; in questo caso si tratta di ambienti accoglienti e inconfondibili, attraenti, grati in cui il suono dolce e struggente del Fado aleggia, sono radici antiche di una illustre casata portoghese, coi suoi riti, il suo ritmo, l’orgoglio e il riflesso di una hispanidad in salsa portoghese, appena accennata, la sua (anche) civettuola e aristocratica essenza, gli inconfondibili aromi e sapori di casa Ramires. Dall’altra parte dell’oceano dopo sessant’anni tutto questo diventa: La danza del mondo del magnete, la scintilla che non scintilla, il lieve ronzio del meccanismo perfetto, la gara di velocitá sul piatto del giradischi, il dollaro alla pari, e le foreste morte e mutilate… cosí Miller scriveva nel 1940-50. E oggi cosa succede nella terra dei Cherochee e degli Sioux? Questo succede: Dati alla mano, sono oltre 25 milioni le persone che negli Stati Uniti hanno utilizzato oppioidi prescritti senza motivazioni mediche almeno una volta. Secondo i dati del Centers of Disease Control and Prevention, inoltre, nel 2017 sono stati prescritti oppioidi per 57 americani ogni 100. E dal 1999 al 2017, almeno 218mila persone sono morte di overdose da medicinali come l’oxycontin. Ovvero il malessere e il disagio si sono infiltrati, hanno messo radici, hanno dilagato e fruttificato, “infettando” come una metastasi gangrenosa l’intera societá americana. Il periodo descritto da Miller era solo un preludio alla vera attuale catastrofe.

Se qualcuno si offende me lo dica. In luogo dell’equilibrio, della Tradizione, della vecchia e vituperata Europa, asfittica, bolsa e codina, ormai superata dalla corsa della Storia ecco emergere il nuovo popolo del nuovo mondo. La prosa dello scrittore americano è acido solforico, un corrosivo versato sul modo di vita e i personaggi che lo animavano, fra il 1930-1950. Descritto dalla prosa sulfurea di Miller: …Da questo cono capovolto d’estasi, la vita risorgerá a prosaica eminenza di grattacielo trascinandomi pei capelli e pei denti, schifoso di urlante vuota gioia, feto animato del non nato verme di morte, che giace in attesa del marcio e della putrefazione…Sono stato troppo crudo? Non sono io a dirlo, ma uno dei loro piú eminenti e coraggiosi scrittori, che, scrivendo, si autodenunciava, coinvolgendo nella critica la societá in cui viveva, il grande Henry Miller. Di questi raffronti ed esempi un mare. Come ben sai. Oggi non avrebbero senso né la prosa di Miller, perché la porta e giá stata sfondata e nemmeno la prosa limpida, pacata equilibrata, proustianamente portoghese, di De Queiroz, perché quel Portogallo non esiste piú, come non esiste piú l’Europa.

accusarono Henry Valentine Miller di oscenitá? (1)

E fu subito processo, l’accusa riguardava oscenitá e pornografia. Si sa che negli Stati Uniti queste cose vengono prese sul serio. Ottanta anni fa quelle pagine causarono vero scandalo, furono ritenute oscene e scabrose. I romanzi divennero famosi, oltre che per la loro esplicita e spesso accurata descrizione del sesso, anche per la prosa colta, corrosiva ed elaborata, una prosa che fa diventare TROPICO DEL CANCRO («Il libro più tremendo, più sordido, più veritiero che abbia mai letto; al suo confronto l’Ulisse di Joyce sa di limonata», così Jack Kahane definisce Tropico del Cancro, primo romanzo di Henry Miller) , suito dopo ci fu TROPICO DEL CAPRICORNO, due incontestabili capolavori letterari del ventesimo secolo. Qualche esempio non guasta, per introdurre l’argomento, tratto da: TROPICO DEL CAPRICORNO leggo: la ninfomane Paula ha l’andatura sciolta e slegata del sesso a doppia canna… Ecco l’incarnazione dell’allucinazione del sesso, la ninfa marina che si torce nelle braccia del maniaco…
…Fra i tentacoli spenzolanti scintilla e sfolgora la luce poi rompe in una cascata di sperma e acqua di rose…Una piovra d’oro sciropposa coi giunti di gomma e gli zoccoli fusi, il sesso disfatto e intrecciato a nodo…

Nella musica c’è sparso veleno da topi, …la musica e come una diarrea, un lago di benzina stagnante di scarafaggi e di piscio di cavallo stantio. …Nella pancia del trombone sta l’anima americana che esprime a scorregge il suo cuor soddisfatto… Nell’aureo suono sciropposo di felicitá, nella danza del piscio stantio e della benzina, la grande anima del continente americano galoppa come una piovra…La danza del mondo del magnete, la scintilla che non scintilla, il lieve ronzio del meccanismo perfetto, la gara di velocitá sul piatto del giradischi, il dollaro alla pari, e le foreste morte e mutilate…Da questo cono capovolto d’estasi, la vita risorgerá a prosaica eminenza di grattacielo trascinandomi pei capelli e pei denti, schifoso di urlante vuota gioia, feto animato del non nato verme di morte, che giace in attesa del marcio e della putrefazione…
Prosa sulfurea, dico io, immersa nel mondo nuovo e (subito) profondamente degradato e irriconoscibile, sviluppatosi oltreoceano. Non è per capriccio o bizzarria che voglio confrontare quella prosa nuova e “scandalosa” condannata e sequestrata, (siamo negli anni ’50) con questo tipo di prosa, risalente alla fine dell’Ottocento. Appartiene a José Maria de Eça de Queiroz, considerato da Emile Zola superiore a Flaubert e definito il Proust portoghese, ma lasciamo stare le etichette che possono confondere.

I brani son tratti da L’ILLUSTRE CASATA RAMIRES, uno dei suoi capolavori:
Pur non venendo come lui da una casa di altissimo lignaggio, anteriore al regno, del miglior sangue dei re goti, non si poteva peró negare che André Cavalaiero fosse un ragazzo di ottima famiglia. Era figlio di un generale, nipote di un consigliere di Stato, aveva un blasone genuino sul Palazzo di Corinde. Con ricche terre intorno ottimamente coltivate e libere da ipoteche …inoltre nipote di Rei Gomes, uno dei capi del partito Storico, al quale si era iscritto anche lui fin dal secondo anno di universitá. La sua carriera era sicura e sarebbe stata brillante sia in politica che in amministrazione. E infine Gracinha amava svisceratamente quei baffoni rilucenti, le forti spalle da ercole educato, il fiero portamento che sembrava rivestirgli il petto di una corazza, e che veramente impressionava. Al contrario, lei era piccola e fragile con gli occhi timidi e verdi che il sorriso inumidiva e illanguidiva, la pelle trasparente come finissima porcellana e magnifici capelli piú lucidi e neri della coda di un puledro da battaglia, che le scendevano fino ai piedi e nei quali poteva avvolgersi tutta, cosí delicata e piccina com’era…..la chitarra risuonó nel corridoio, accompagnata dai passi pesanti di Gouveia E il Fado riprese sempre piú dolce e glorificatore:
O vecchia casa Ramires
fiore e gloria del Portogallo

…La sala da pranzo della Torre si apriva per tre porte finestre su un’ampia veranda a colonne coperta, e conservava sin dai tempi di Nonno Damilao, il traduttore di Valerio Flacco due belle tappezzerie di Arras che rappresentavano La spedizione degli Argonauti. Piatti dell’India e del Giappone, scompagnati ma preziosi, riempivano un immenso armadio di mogano. E sul marmo dei tavolini di servizio brillavano i residui opulenti della famosa argenteria di casa Ramires, che Bento costantemente strofinava e lucidava con cura amorosa.
….Gonzalo, specialmente d’estate, faceva colazione e pranzava sempre nella fresca e luminosa veranda, dove dalle stuoie ben tese partivano fino a mezzo muro le lucide piastrelle di ceramica del secolo XVIII. In un angolo, un ampio divano di vimini coi cuscini di damasco invitava alle delizie del sigaro…

Nel prossimo post cerco di spiegare, a volte le cose ovvie possono sembrarae strane, il perché di questo confronto.