c’era l’Italia? (2)

Quel pezzo d’Italia che si chiama Liguria, ad esempio, che per i Liguri è tutta l’Italia, avendo problemi di intesa anche coi confinanti riservati Piemontesi, tanto per citarne un pezzo, perché per i Liguri ce n’è una sola di Italia, la loro, (e non solo per loro) appunto quella fetta di terra che si affaccia sul mare omonimo, ma non sono i soli a nutrire sentimenti regional nazionalistici. E non puoi dargli torto e biasimare il risentimento di una regione dal forte passato e orgoglio politico militare e dalla esclusiva connotazione identitaria, diciamo che la maggioranza delle regioni in questo senso è assimilabile alla Liguria, avara delle sue tradizioni ai cui abitanti danno fastidio le torme di turisti che affollano ogni anno le sue spiagge e che, pare lo facciano ancora, affittano le loro abitazioni, per avere qualche soldo in più, condividendole con i detestati invasori nordisti. Dite che non è cosi? Ne ho le prove. A Varazze io ci andavo in vacanza proprio in quel modo. Si nasce, vive e muore da Liguri, ma io mi sento ligure come loro, come faccio a dirglielo agli spezzini, savonesi e genovesi che la loro terra appartiene anche a me? Magari si incazzano se glielo dico.

Quando ascolto la tristissima, accoratissima e bellissima canzone cantata da Bruno Lauzi sull’emigrante genovese che comincia con Mi se ghe pensu.… mi identifico col protagonista e mi commuovo come una bertuccia, anche se di ligure non ho proprio niente, sebbene per anni sia stato in vacanza sul mar Ligure. Mi commuovo lo stesso perché anche dal Veneto e dal meridione salpavamo per l’altrove, cercando fortuna e lavoro. Una mia zia, infatti, si chiamava Argentina e i suoi cugini hanno colonizzato quella terra omonima, si fa per dire, proprio come i Liguri, i Veneti, Piemontesi, e i terroni, eccetera. Ma non divaghiamo. Il prezzo della riunificazione italica lo abbiamo pagato tutti e lo stiamo ancora pagando, sentendoci defraudati, disillusi e traditi gli uni dagli altri, e facendo confronti fra prima e dopo. Non è forse così ? Ovvero le regioni col loro potente irrinunciabile passato hanno dovuto delegare e affidarsi a un potere unico che stenta a meritare fiducia e consenso. Lampante. Le aspettative disilluse e le sorti delle tante Italie prima della riunificazione non corrispondono al tran tran attuale, sta sotto gli occhi di tutti, innegabile; come potrebbe l’Italia di oggi rinnovare i fasti di una repubblica di Genova, o la grandezza di Venezia e del Regno Lombardo Veneto quando battibeccava coi Turchi, e delle repubbliche marinare oppure lo splendore del regno delle due Sicilie, visto che Napoli nel Settecento era considerata una capitale della cultura e dello stile di livello europeo (vai a leggere per favore quello che scrive il portale del Sud: (Napoli era la seconda città d’Europa (dopo Parigi) e la quinta nel modo, più grande di New York! e di Tokio. Era soprattutto la splendida capitale barocca, amica delle arti, dei commerci, delle scienze, straripante di turisti e viaggiatori…) e produceva statue da mozzarti il fiato come quelle del Corradini.

Ti ricordi della Siena di Gianna Nannini? La sua Italia e Siena, quando parla della sua città le si illuminano gli occhi. Ma lei cosa ne sa di Sezzadio, Cassine, di Fubine, e di Crea o di Asti e Cuneo. Come fai a dire Italia, voglio dire? Tante Italie, come quelle esplorate dal lodevole Alberto Angela, (ma perché non lo mettiamo a capo dei Beni culturali Alberto Angela e con pieni poteri di intervento?) Nel suo infaticabile lavoro di presentazione e promozione dell’italico suolo egli ci dà risposte ghiotte e davvero interessanti che dovrebbero catalizzare il nostro interesse. Le sue trasmissioni fanno il tutto esaurito, ma l’interesse si trasformerà in noi in voglia di amare e fare qualcosa per l’Italia? Che non sono (solo) quattro stupefacenti ruderi disseminati qua e là. E intanto l’Italia muore, inarrestabile la sua fine, a partire dalle sue coste, a partire da quelle di Rosignano Sovay, ad esempio, dove un mare morto assomiglia a un mare vivo dei tropici, ma cosi non è. Ti ricordi dell’Italia? Di quale Italia? dirai te. Non so nemmeno più io su quale soffermarmi. Quella degli Etruschi, dei Sabini, dei coloni greci, dei sette re di Roma, o quella imperiale di Augusto o ancora quella antecedente, di fieri popoli incoercibili che la popolavano prima che la forza dei Romani riuscisse a fatica a prendere il sopravvento e li costringesse insieme, ma insieme non ci siamo mai stati, ….già allora c’erano problemi di comprensione. Quale Italia ti chiedo se ricordi, quella splendida che l’Europa tanto ci invidiava? Quella che nutriva il mondo intero con l’ineffabile creazione di Michelangelo, Leonardo, Crivelli, Botticelli, Mantegna e Brunelleschi? O quella successiva alla calata del bruttarello e timido re di Francia Carlo VIII in cerca di gloria e di recupero del suo regno di Napoli? Così ben documentata da Silvio Biancardi nel suo libro La chimera di Carlo VIII, o quella dei torinesi, pugnaci e tosti che tramavano per riunificarla sotto l’egida del Cavour e della mai amata dinastia dei Savoia. Ma come fa un ferrarese ad amare un Savoia, me lo spieghi? Lui ha ancora in testa la corte degli Estensi e il bollito alla piemontese mal si conciglia con la salama da sugo di Formignana e il pasticcio di maccheroni di Ferrara, arcinoti nel mondo. E a un borbonico come fanno a piacergli i Savoia? A chi lo diceva a un palermitano che non c’era più il suo Ferdinando ma un Vittorio Emanuele re d’Italia, o’ usurpatore, ovvero il nuovo padrone del vapore. Quando penso all’Italia mi gira la testa e penso anche a mia nonna che aveva fatto dodici figli spazzati via per metà da malattia e spaventi, allacampagna di Gualdo, Formignana, Tresigallo, affondata nella pianura padana che sono in pochi a conoscere, tranne Ferrara e Bologna si capisce. Ma se ti ricordi di qualche Italia in particolare, che alla fine son tutte particolari, dimmelo, a me la memoria comincia a far difetto.

c’era ancora l’arte?

Non dirmi che non te ne sei accorto! Come: di cosa? Del fatto che si sia estinta, e che se vuoi rintracciarla ancora devi aprire le pagine di un libro gigantesco che si chiama Passato e andare indietro di mezzo secolo o poco più. La puoi trovare ancora, per esempio, andando nei musei, in una galleria di quadri o di sculture, in qualche cinema d’essai (ma ne esistono ancora?) o in una biblioteca, oppure a teatro, a goderti Lo Schiaccianoci o qualche vibrante concerto di musica classica. Oppure col naso in su visiti le città italiane, che si chiamano, indovinate un po’? Città d’arte, per l’appunto. Lì ancora gli esempi abbondano. Fanno testo essendo bene comune e condiviso. Luoghi dislocati ovunque, come piovesse, nell’italica penisola e un po’ meno in altri luoghi, sparsi per il mondo. Vuoi che tiri un sasso in piccionaia? Tanto la piccionaia è deserta da anni. L’arte è morta, come del resto è accaduto al Dio cristiano (così dicono molti esperti). Per cui ti chiedo: Ti ricordi dell’arte? Scomodando Wikipedia veniamo a sapere che: L’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Nel suo significato più sublime l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano.

Non ci piove, non fa una grinza. E allora beccati questa a proposito dell’interiorità e dell’animo umano: Sai quanto vale l’orinatoio di Du Champ? Te lo dico io. Ho sbirciato su Wikipedia che scrive: Il prezzo più alto attualmente raggiunto da una replica, edizione o lavoro contenente tracce dell’opera originale, è quello di una delle otto copie che Duchamp fece realizzare nel 1964. Il suo prezzo è pari a 1,7 milioni di dollari, e venne acquistata tramite Sotheby’s nel 1999. Hai capito bene: un pisciatoio, ovvero l’arte è morta, perché in una pisciata non ci può essere ispirazione, ma solo sollievo di sgravarti la vescica, o in un barattolo il prodotto di una (vera?) defecazione, pare infatti che dentro le scatolette numerate ed etichettate di Piero Manzoni ci sia gesso e non cacca di artista. Il contenuto di dubbia origine messo in barattoli di latta dall’artista e conservati nei più importanti musei del mondo assume il suo significato preciso fatto di polemica e critica. Pare che Manzoni avesse voluto polemizzare (giustamente) contro il mondo del mercato dell’arte mettendo in scatola della cacca o del gesso. Pero adesso la cacca rimane, boh! Al posto di Madonne, angeli, guerrieri, nature morte, paesaggi e sbalordenti ritratti di insigni maestri c’è urina e feci e il taglio sulla tela di Fontana, Chiaro il concetto? Ovvero la morte dell’arte, uccisa da chi dell’arte se ne intende, ossia dal mercato, ma non solo da quello, ovvio. Ti risparmio l’evoluzione della definizione di arte nei millenni. Essa ha subito varie modifiche, ampliamenti e correzioni. Giordano Bruno, condannato a morte sul rogo, uno dei primi pensatori a prefigurare idee moderne, disse che: “… la creazione è infinita, non c’è un centro e non ci sono limiti – né Dio né l’uomo – tutto è movimento, dinamismo. Per Giordano Bruno, “esistono tante arti, quanti artisti, introducendo il concetto di originalità dell’artista. L’arte non ha regole, non si apprende, ma viene dall’ispirazione”. Pía Figueroa Co-Direttrice di Pressenza, umanista di lunga data, autrice di numerose monografie e libri. (così lei scrive, tradotta da Annalisa Pensiero ) dice che: Oggi, nel bel mezzo di una grande destrutturazione globale, in un momento in cui impera la coscienza disillusa, dove gli esseri umani non vedono un futuro chiaro, dove crescono l’isolamento e la violenza, gli artisti devono proporci di fare una scelta chiara a favore della vita e di una cultura ispirata da e per il futuro. Torniamo a noi: alla base dell’arte, di qualsiasi arte, c’è l’ispirazione; un impiegato, un postino, un taxista non hanno bisogno di essere ispirati, fanno il loro lavoro e basta, con o senza partecipazione, dipende. Correggimi se sbaglio. Ma un artista no, ha bisogno dell’ispirazione, del, come si diceva una volta, fuoco sacro, che, se canalizzato e reindirizzato, crea l’opera d’arte. Per farlo ha bisogno del combustibile, e cioè dell’ispirazione: Secondo il pensiero greco, un poeta era ispirato quando cadeva in estasi e veniva trasportato al di fuori della sua mente, a contatto con i pensieri di Dio. Le divinità che concedevano l’ispirazione erano le Muse, guidate da Apollo. Per i poeti italiani del Dolce stil novo le Muse ispiratrici erano invece le proprie dame, donne trasfigurate in creature angeliche, simbolo di un ideale irraggiungibile per quanto riguarda l’Occidente. L’artista nella sua ispirazione più genuina si sente in dovere di esprimere una sintesi (poetica, in senso lato) della realtà in cui gli tocca vivere, usando il linguaggio della metafora, dell’allegoria o del simbolo. L’ispirazione, quando possiede sufficiente carica affettiva, quando ribolle, quando si sperimenta come un turbamento interiore che si sforza di manifestarsi attraverso la parola, la forma o il colore, i suoni armonici, il corpo, ecc. spiega un particolare stato di coscienza che puó invadere il sogno, l´insogno e la veglia. Così si vive l’esperienza artistica, come un invito ad esprimere un sentimento profondo, accompagnato da un forte impulso a voler essere liberi di creare, di sentirsi trasformati. dice ancora Pía Figueroa. Di cultura e informazione su arte e ispirazione e pensiero creativo, te ne puoi fare quanta ne vuoi. Io dico che l’arte può essere anche protesta, o denuncia, come Guernica e certi murales dimostrano o come quella di Jean-Michel Basquiat, che sconcerta ma coinvolge, oppure le ossessioni psico oniriche di Francis di Bacon che personalmente non ardirei di mettere in soggiorno. O, come diceva Picasso: L’ispirazione esiste, ma deve trovarti già al lavoro. Quello che sostengo io, è che l’arte non è più merce facilmente riscontrabile al giorno d’oggi. Non escono più dalle botteghe del Verrocchio: Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, Francesco Botticini, …L’Arte non informa più un’intera epoca dell’uomo come ha fatto da noi per il Rinascimento e senza riferirsi a quelle vette probabilmente irripetibili, non è più pane quotidiano condiviso, per constatarlo devi andare nei cimiteri, (reali, come quello di Milano e Genova o di Londra e metaforici che, sempre se nessuno si offende, visto che anch’io sono italiano, sono costituiti dall’intera nostra penisola.) Ovvero tracce, reperti, tutta la nostra bellezza che il mondo ci invidia, ma noi lo sappiamo che ci invidiano? Frutto di una ispirazione morta e sepolta, di un segno creativo inimitabile che prima parlava esclusivamente del sacro e poi dell’uomo nuovo e anche del ricco commerciante delle Fiandre che si autoeleogiava nei suoi ritratti, poi di papi, dogi, re e regine e…, beh lo sai anche te che la lista risulta interminabile, e poi non ha parlato più di nulla l’arte, auto dissoltasi, prova a pensarci. Cosa vai a vedere a Pisa? a Firenze a Urbino e a Siena o a Venezia e a Napoli e Palermo, vai a vedere la colonna spezzata, il marmo corroso, le mura cadenti, il bello, il mito, la grandezza estinta seppur tenuta in vita, ovvero il passato, piazze, chiese, fontane, ponti e statue, a valanga, la bellezza pura o riflessa che si disfa e che tu restauri ma che si disfa ancora, le perfette proporzioni, il genio reinterpretato, in tutte le declinazioni possibili. Ovvero casa nostra, dove abbiamo vissuto per millenni. Si tratta di un dato di fatto, riscontrabile e sotto gli occhi di tutti. Ma facci caso, vai a vedere il Passato, qualcosa che è stato fino a poco tempo fa, e che ci ha resi grandi e unici al mondo.

E che non è più. Come vedi non ho messo immagini, non sapevo cosa e perché metterle. Anzi, no, ci ho ripensato. Una immagine la voglio mettere. Un’ “opera” e il suo artefice che non ha bisogno di presentazioni, mettendo egli la parola FINE al valore e al significato dell’arte.

Chi era che litigava all’osteria, covando acredine e vendetta?

MACHIAVELLI 12Correva l’anno 1532, una manciata di secoli fa. Costretto a un forzato esilio nel suo podere di Sant’Andrea in Percussina

dopo la restaurazione del regime dei Medici, conduceva un’esistenza umile, degradata e tuttavia partecipe, coltivando un fervore culturale inestinguibile. Era il grande, intrepido, intramontabile Niccolò Machiavelli, alle prese con la nuova scienza della politica, fondata sulla scoperta delle leggi che la regolano da sempre ma da sempre mascherate. Una scienza che continua a far scalpore ancora. Nella stesura di quel capolavoro che è IL PRINCIPE, da lui stesso definito opuscolo, c’entrano papi, principi, mercenari e potenze straniere. In quell’Italia più schiava degli Ebrei, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa egli delinea le sue spericolate teorie. In quelle vicende, riferendosi a fatti precisi e noti del passato remoto e recente della storia, attraverso analisi puntuali e oggettive si esalta e si delinea il vero soggetto dei suoi studi, il naturale protagonista di tutte le sue analisi e confronti: LA POLITICA.

Lo Stato che propone è disegnato per l’emergenza politica del suo tempo e fa riferimento a Borgia che nutriva un disegno complesso e ardito riguardante la riunificazione degli stati italiani. Nell’accurata introduzione di Nino Borsellino, l’edizione integrale de IL PRINCIPE nell’edizione tascabile della newtoncompton  si legge inoltre: Si è detto che Machiavelli mette allo scoperto le leggi della politica, ma l’arte del politico va appresa valutando le circostanze, misurandosi con le difficoltà della conquista, del dominio e del governo. E ancora: IL PRINCIPE non è un opuscolo per politici di parte.

È un libro per lettori liberi, disposti a confrontarsi da soli con le sue verità talvolta assai scomode, aggiungiamo noi.

E il grande Niccolò che cos’ha da dire? A pagina 26 leggiamo: …Gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere: perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; sì che l’offesa che si fa  l’uomo debba essere in modo che non tema la vendetta… Parole valide ancora oggi e, probabilmente, valide ancora per molto tempo a venire. Machiavelli muore nel 1527 in povertà, in tempo per constatare le condanne che si stavano addensando come nubi minacciose su di lui. Mezzo euro per cento pagine: l’abbiamo pagato IL PRINCIPE in quella straordinaria collana della NEWTON diretta da G.A. Cibotto. La pubblicazione settimanale porta la data del 29 luglio 1995. Quando gli editori provavano ancora a fare vera cultura a prezzi accessibili