Ci mancava proprio l’invito, gradito e inaspettato, della Canopy Gallery a Bloomsbury. Sono atteso per un breakfast-incontro con Marianne Thoermer, l’autrice. Non posso mancare e sono già in ritardo. Vado a vedere che aria tira. Nell’occasione tiro fuori dall’armadio la cravatta superstite.
Nessun appunto all’opera onesta e genuina di Marianne, che illustra alle signore presenti la genesi delle sue tele. I coltelli potrebbero suggerire violenza ma impugnati ed esibiti da mani forti e nodose da contadino, creano una sospensione, inducono a riflettere, quasi estraneee alla loro funzione, le lame non suggeriscono pericolo, anzi, fermezza e sicurezza.
Marianne qui predilige la dimensione domestica, fatta di piatti, bicchieri e stoviglie, oggetti amici e quieti, compagni di mensa e di riposo post prandiale. “La pittura è sempre stata la mia prima lingua, poiché ho ricevuto una formazione classica e attraverso di essa sono stata introdotta all’arte fin dalla tenera età.” Dice. “Per me è il modo più intuitivo e naturale di navigare nel mondo. Lavorare con altri mezzi nel corso degli anni mi ha permesso di sviluppare un senso più ampio di materialità e un approccio più materico e sensoriale, che ora ho riportato in pittura.” Aggiunge Marianne. “All’inizio, sentivo che ai miei dipinti mancava la presenza necessaria per commuovere veramente, quindi ho esplorato modi di lavorare più tattili. Con la conoscenza che ho ereditato da altri media, le opere hanno acquisito sostanza, urgenza e una presenza in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Riscoprire questa urgenza è stato sia un ritorno alle mie radici sia un modo per andare avanti con una pratica più profonda.
Non ho una tecnica pittorica predefinita che si adatti a tutte le immagini: varia davvero da lavoro a lavoro. Alcuni dipinti vengono costruiti lentamente nel tempo, strato dopo strato, consentendo all’immagine di trovare gradualmente il suo posto attraverso questo processo costante. Altri, come la serie Dirty Dishes, iniziano diversamente: applico un primo strato di vernice, lo lascio asciugare e poi lo carteggio nuovamente per creare una prima texture, quasi come se stabilissi il nucleo della memoria del dipinto. Una volta rivelata la superficie, applico strati di vernice più spessi e poi li pulisco rapidamente utilizzando panni, polpastrelli o cotton fioc. Diventa un processo che spinge l’immagine in avanti e poi la cesella nuovamente indietro.
The Periphery, Il titolo della mostra a Canopy Collections, riflette il mio interesse per i confini: spaziali, sociali e psicologici. Questi dipinti sono il frutto maturato durante il mio congedo di maternità, un periodo di quiete e di attenta osservazione, quando la mia attenzione si è rivolta a ciò che mi circondava: i gesti trascurati, le tranquille scene domestiche e i piccoli dettagli che spesso passano inosservati. Attraverso Periphery, esploro cosa significa abitare o osservare dall’esterno, dove dentro e fuori, luce e ombra, presenza e assenza diventano fluidi. È una prospettiva che incoraggia un modo di guardare più lento e attento e rivela la profondità e la complessità dell’ordinario. Il dipinto “The Arrangement”, ad esempio, si basa su una fotografia d’archivio scattata nell’asilo nido della prigione di Askham Grange, nello Yorkshire.
Una immagine di un libro che mi ha colpito. Si vedono le figure che apparecchiano tranquillamente i tavoli, ma le ombre sulle pareti danno il senso di qualcosa di più profondo, una sorta di tensione psicologica emerge. Poi ho scoperto che era stata scattata ad Askham Grange, prigione femminile aperta con un asilo nido. La foto mostra il personale che prepara i tavoli per i bambini, e il posto in realtà gode di una delle migliori valutazioni: non è affatto triste. È così apprezzato il luogo che anche il personale ci manda i propri figli. Una figura nella fotografia proietta un’ombra su un’altra e, in un certo senso, mi ha ricordato come un neonato proietta un’ombra su di te. Quando servi qualcuno nella tua professione, stai anche servendo tuo figlio in un modo diverso.
Ho scelto questa immagine quando ero all’inizio della mia esperienza di maternità. Non che la maternità sia come la prigionia, ma ci sono dei parallelismi: un senso di restrizione, di negoziazione del proprio posto in un nuovo ruolo.”
Nel dipinto, che attira subito l’attenzione, si cela l’origine di una vaga inquietudine. Una insidia incognita sembrano suggerire le ombre, come a turbare la quieta attività domestica delle inservienti. Vediamo e “sentiamo” così i rumori discreti di chi apparecchia le tavolate, ma l’ombra ci mette all’erta.
Strana pittura quella di Marianne, frutto di ispirazione psicologica, e che non si limita alla sfera visiva, ma che coinvolge altri sensi, come l’udito, nel percepire il crepitio della foresta che brucia e il tintinnio delle posate nell’acquaio.
Ovvero una fisicità pittorica che suggerisce suoni. Pentole, bicchieri e stoviglie non rimangono oggetti muti ma soggetti plastici e sonori, mentre silenzio e compostezza accompagnano la visione in primo piano dei coltelli, affidati a mani sicure, come per smorzare la loro pericolosità. C’è più psicologia di quanto non sembri nei dipinti di Marianne.
Marianne Thoermer è laureata alla Royal Academy of Arts, Londra, nel 2018. Il suo lavoro è ospitato in collezioni pubbliche e private internazionali, tra cui la Collezione Goetz, Monaco di Baviera; Collezione Haus N, Kiel e Atene. Ha esposto alla Royal Academy of Arts, Londra; Galleria Frestonian, Londra; TJ Boulting, Londra; Museo Rijswijk, Paesi Bassi.
Perfetta la conduzione dell’incontro in galleria, e nessuno si è abbuffato al buffet. Presente all’incontro Barney Cokeliss, scrittore/regista pluripremiato, il cui lavoro è stato selezionato da festival tra cui Sundance, TIFF e Venezia.





























Bon, chiuso, stop. Non se ne parla più di figli, Non posso averne, del resto ho la mia età. Aldo è distrutto, a chi andranno le sue cose? Il titolo nobiliare, e i suoi studi! La nostra casa, le nostre idee, tutto il suo archivio di storico?! Abbiamo amici, d’accordo, possiamo guardarci intorno, un erede adottato? Ma mica è la stessa cosa, e poi la faccenda non mi piace. Gli amici sono amici e basta. Non c’è il figlio? Pazienza, è andata così, mica c’è da impazzire, invece Aldo non mangia e non dorme. Gli passerà, sta preparando altri libri, altri scritti. Intanto io non mi rassegno a fare la madre fallita e qui sono dietro casa mia, al Romito, in una bella giornata d’ottobre. La vita deve andare avanti! Con o senza figlio, anche se a pensarci mi viene un magone pazzesco, per me, ma soprattutto per Aldo.