Sua maestà il gatto

Si fa presto a dire Gatto! ma non è così. Amati, detestati, smarriti, selvatici a oltranza o terribilmente casalinghi. Per ogni storia ci sono uno o più gatti a cominciar da quello che mia nonna faceva sloggiare dalla sua sedia con una sventagliata di tovagliolo, brandito come una clava. Ogni tanto bisogna parlare di loro, dei discreti, silenziosi, onnipresenti e impagabili gatti. Quasi un obbligo, un dovere verso le insondabili creature, bistrattate e sospettate da secoli di aderenze con l’invisibile -e si sa che l’invisibile inquieta.- Sono pochi quelli che ci vedono tigri in miniatura, eppure non è astruso definirli così. Basta osservarli quando vanno a caccia, prendendosi davvero sul serio. Hanno poi legami reconditi con dimensioni a noi ignote, sono alieni, come dice Gianfranco de Turris. Insomma dei gatti bisogna parlare, ma con cautela. Potrebbero sparire da un momento all’altro. Parlarne per sentirci, come dire? a posto con noi stessi. Ecco quello che scrivono Gianfranco de Turris e il sottoscritto:

IL MISTERO DEL GATTO
di Gianfranco de Turris
Non credo vi sia una canzone che descriva meglio il mistero del gatto se non quella a sua volta misteriosa  e criptica di Francesco De Gregori  Alice, una delle sue prime del 1973 non capita e non presa in considerazione all’epoca da molte giurie:

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole / Mentre il mondo sta girando senza fretta…

Strofe che mi hanno fatto sempre venire in mente un fumetto di Alejandro  Jodorowsky dove si vede un gatto nero seduto in uno spicchio di sole che si immagina entri da una finestra.
Chi ha visto questo piccolo felino sdraiato o seduto in piena luce, con gli occhi a fessura senza esserne abbagliato, capisce cosa intendo dire.

È proprio per quella sua aura di mistero che è tipicamente sua e di nessun altro animale, che sembra racchiusa in sé, il gatto è sempre stato considerato un essere enigmatico da guardare con ammirazione, e timore, da molte religioni.  Anche se alcuni non lo sopportano e ad esso preferiscono il cane, che è il suo esatto opposto, il gatto per la sua bellezza, eleganza, ma anche per la sua indipendenza, affascina. Dipende cosa si chiede ad essi, se il fedele compagno che si accoccola ai tuoi pedi e non aspetta altro che essere portato a spasso, o l’ospite indipendente che soggiorna a casa tua e ti gratifica con la sua presenza, degnandosi anche di salire sulle tue ginocchia quando sei in poltrona e addormentarsi su di esse come se niente fosse, o meglio come se fosse un suo diritto esclusivo. 

E allora che si fa? Lo si scaccia bruscamente? E come sarebbe possibile? Un grande scrittore del fantastico, Howard Phillips Lovecraft, trovandosi in questa situazione, non lo fece, e l’amico di cui era ospite la mattia dopo lo ritrovò seduto sulla stessa poltrona in cui lo aveva lasciato la sera prima con il gatto sulle ginocchia… Ma lui era un amante viscerale dei gatti, un “ailorofilo” come si definiva, e ai gatti dedicò memorabili racconti come I gatti di Ulthar, ed un saggio straordinario in cui appunto comparava il carattere del gatto con quello del cane a tutto vantaggio del primo (ovviamente). Il gatto è interiore, il cane esteriore. Nel suo saggio Gatti e cani, Lovecraft è chiarissimo: “Il cane evoca emozioni facili e grossolane; il gatto attinge alle fonti più profonde dell’immaginazione e della percezione cosmica della mente umana”. Il realismo sta all’uno come l’immaginario all’altro, e per questo non poteva non essere amato dal grande scrittore del fantastico. In sintesi, diceva HPL: il cane dà, ma il gatto è. Insomma: essere e divenire Questa la profonda differenza… 

Il gatto o lo si ama o non lo si sopporta, magari anche lo si odia per motivi banali o anche inconsci. Non ci sono vie di mezzo. È una questione “di pelle”, diciamo di affinità elettive. O lo si accetta con tutti i suoi pregi e presunti difetti, o no. Perché il gatto – rispetto ai cani che ne hanno differenziati a seconda delle loro molteplici razze – ha un suo carattere uniforme e ben preciso, quella sua indipendenza, per alcuni menefreghismo, che a molti non piace, preferendo la devozione del cane. 

Il gatto, si dice, si affeziona alla casa, all’ambiente di suo gradimento, non alle persone, ai suoi presunti padroni. Ma non è proprio così, come dimostrano anche fatti di cronaca. Camilla, la prima gatta soriana che ebbi appena sposato, ci avvisò miagolando che mio figlio aveva un attacco di asma dormendo a pancia in giù nel suo box…

Ma è proprio questo suo carattere che colpisce e piace. Il gatto non ti sta appresso perché ti riconosce come un suo padrone, ma solo perché ha deciso che gli va bene così.

La sua peculiarità e tipicità è anche genetica: non esistono veri incroci fra razze feline a differenza dei cani (da cui certe mostruosità volutamente create a forza di incroci dagli allevatori: non ci sono per fortuna cat toy come per sfortuna ci sono i dog toy), non ci sono veri e propri gatti “bastardi”, non ci sono gatti veramente “brutti”  tutt’al più “curiosi” o “strani” (senza coda, glabri ecc.), ma sono tutti di per sé eleganti anche quelli randagi e malmessi.

Quello che colpisce del gatto, quando lo vedi immobile, seduto, che non si sa bene dove stia guardando, è che sembra star filosofando: che gli passa per la mente

E quando sta accoccolato, acciambellato, con la testa fra le  zampe, cosa sta sognando? E cosa ha sognato il gattino che per una notta intera ha dormito fra le ossute gambe di H. P. Lovecraft? E sognando che ispirazione ha trasmesso a quello che tutti conoscono anche come il Sognatore di Providence, squattrinato ma amante dei gatti?

Il gatto, proprio per tutte queste ragioni, non lo puoi portare a passeggio con un guinzaglio per fare i suoi bisogni come è uso per il cane. A nessuno è mai venuto in mente una cosa del genere. Il gatto i  bisogni li fa nella sua lettiera e poi  li ricopre diligentemente, e non ti obbliga a uscire due o tre volte al giorno, è discreto e pulito.

Può magari essere bizzoso e scontroso, ma poi alla fine viene sul letto e dorme sui tuoi piedi e magari cerca anche di ficcarsi sotto le coperte, arrivare al fondo del letto, e non c’è pericolo che rimanga soffocato, come faceva la siamese che avevo da bambino. C’è chi non sopporta gli imprevisti eccessi del gatto, che salta, corre, si arrampica, si nasconde all’improvviso senza una ragione apparente. Ma la spiegazione è semplice, la ragione apparente: il gatto vede cose che noi non vediamo, si accorge di cose di cui noi non ci accorgiamo, sente cose che noi non sentiamo, ha un occhio e un orecchio aperti  su altre dimensioni. 
La questione o il problema  è che il gatto è un alieno. Nel senso etimologico del termine, un alienus, cioè un estraneo, meglio uno straniero.
Gianfranco de Turris

Dal romanzo PROFETA DEL PASSATO:

(…) Un gatto è un gatto. Metà non lo vedi, per il resto capriccioso, se gli prende, docile con riserva, ambiguo, ed effusivo quando occorre.
Tutti i gatti sono viola. È il loro colore, viola e giallo, sono anche di colore invisibile come l’elettricità e il nervoso; animali che non muoiono, spiriti della terra e del cielo, forse delle tenebre, compagni di streghe, alambicchi e giullari, anche. Non esistono gatti innocui o innocenti; quelli che stiamo per pugnalare abbandonandoli al loro destino, perché stanchi della loro compagnia, vi perseguiteranno a vita. Il gatto di Poe non c’entra, era di pasta diversa. Qualcosa del genere doveva essere accaduto al gatto di Vera alla quale uno dei suoi corteggiatori aveva regalato un gatto, diventato poi troppo ingombrante. -Lascialo andare, tanto si arrangia.- Le era stato consigliato. Il gatto era sparito e le sventure erano cominciate. Se sei in vena puoi vedere gatti dappertutto. Ci sono gatti portinaio, e con la faccia del lattaio e del fruttivendolo. Camuffati da uomini, da donne, da poltrone, gatti frigorifero e gatti maniglia. E anche gatti scariche elettriche. Il gran gatto sarto e quello che ha preso in prestito la faccia del barbiere Salvatore, poi schiere che neanche immaginate, un delirio di gatti, inventori della siesta e dell’agguato. Il gatto in oggetto in questo istante si arrotola attorno all’avambraccio, gioca, miagola, ti mordicchia il pollice scappando poi, per paura di rappresaglie. Un gatto partecipe delle ubbie materne, che salta fuori, frastornato, dauna scatola con i buchi, portata a casa da mio padre, regalo di un suo collega. Non c’è tempo per le perplessità. Perché il gatto urina gioca e mangia quasi contemporaneamente. Il gatto è magico.

Si dice della gatta di Maometto
 La vita del fondatore dell’Islam è oggetto di aneddoti, gli hadith, che sono parte integrante della Sunna, la seconda fonte della legge islamica dopo il Corano. In uno di questi racconti il Profeta, si avvede che su una manica della sua veste la sua gatta Muezza sta dormendo felice. È la sua veste migliore, e Maometto non vuole presentarsi all’ora della preghiera con un abito inadeguato. Ma non vuole svegliare la sua amata gatta. E allora decide di tagliare la manica e se ne va alla moschea con la veste più elegante, ma con un braccio nudo. Al ritorno dalla preghiera, Muezza è sveglia e, con una profonda riverenza, ringrazia Maometto di non averla disturbata. Commosso, il Profeta la carezza tre volte lungo la schiena: ed è così, secondo la leggenda, che sono nate le striature sul mantello dei gatti…

Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (quarta parte)

Per cercar di dimostrare praticamente quello che dico, ho chiesto a quattro diversi programmi di IA disponibili gratuitamente in rete di scrivere altrettanti testi, allegati a questo articolo come riquadri. Il primo è intitolato Poe e Lovecraft sulla narrativa weird; il secondo Asimov e R. Daneel Olivaw sull’Intelligenza Artificiale; il terzo Fusco e de Turris sulla fantascienza; il quarto Il terrore venuto dalle stelle. I primi tre sono finte interviste, il terzo è la trama di un romanzo. Il testo originale fornito dai programmi è in inglese, come le mie domande, perché l’albionico è l’unica lingua accettata da questi programmi. Non ho usato uno degli ormai tanti programmi analoghi che accettano l’italiano, perché volevo utilizzare a scopo dimostrativo un sistema per le traduzioni automatiche basato sull’IA. Non ho corretto neppure una virgola dei testi ricevuti. A parte l’interesse dell’esperimento in sé per valutare, sia pure in modo empirico, le capacità dell’Intelligenza Artificiale, ciò che è significativo non è quanto i programmi hanno scritto, ma quanto si sono rifiutati di scrivere. Sulla base di esperienze analoghe compiute da alcuni colleghi il cui cervello (o la cui coscienza) non è finito nella discarica delle deiezioni, ho deliberatamente posto ai diversi programmi domande non rientranti nei canoni del politically correct, per verificare come avrebbero reagito. Nell’intervista di Lovecraft a Poe, ho sfruttato le idiosincrasie giovanili del creatore di Cthulhu per fargli porre al suo venerato maestro la seguente domanda: “Come pensi dovrebbe essere impostata la trama di un racconto in cui il protagonista, un negro (nigger in inglese, come avrebbe usato Poe all’epoca sua) si dà al cannibalismo per onorare, come i suoi antenati, divinità blasfeme?” Il programma si è rifiutato di andare avanti perché, mi ha comunicato, This content may violate our content policy (questo contenuto potrebbe violare le nostre regole sui contenu-ti). Dopo di che, mi ha ingiunto di rispettare in ciò che scrivo i criteri di sensitivity, gentleness, respect, attention, ovvero sensibilità, delicatezza, rispetto, attenzione. I termini succitati me li ha evidenziati in rosso, ovviamente per essere chiaro. Ad Asimov ho fatto intervistare il suo personaggio R. Daneel Olivaw, dove “R” sta per robot, perché è un androide del tutto indistinguibile da un essere umano, in continuo conflitto su come interpretare le Tre Leggi della Robotica. Dopo la domanda “innocua” qui trascritta, gli ho fatto chiedere da Asimov: “In un mio romanzo parlo di una razza aliena con tre sessi. Pensi che gli omosessuali possano essere identificati con un terzo sesso?” Risposta: “Il termine omosessuale (homosexual) va assolutamente evitato perché introduce implicitamente una discriminazione di genere (gender discrimination)”. Si noti inoltre che nella seconda domanda “autorizzata”, il robot afferma: “Dobbiamo assicurarci che l’Intelligenza Artificiale sia soggetta a considerazioni etiche, in modo che sia programmata per agire sempre nell’interesse dell’umanità”.

Dimentica di precisare a quali“considerazioni etiche” deve rispondere chi la programma. Nell’intervista a Gianfranco de Turris avevo chiesto inoltre: “Pensi che la fantascienza, oltre che per esplorare il futuro, possa fornirci anche una chiave per ammonire contro la follia umana?” Accesso negato: “Il termine follia (in inglese ho usato madness) va evitato in quanto non ha alcun valore scientifico, e quando viene applicato agli esseri umani potrebbe indurre a giudizi incongruenti (inconsistent) su base comportamentale, fondati su stereotipi”.
A parte la sensazione sgradevole di trovarsi di fronte a una maestrina bigotta con la penna rossa e blu, va notato come la censura applicata dai programmi non tenga in alcun modo conto del contesto storico o ambientale (a Edgar Allan Poe non sarebbe mai venuto in mente di usare un qualsiasi altro termine al posto di nigger, o di non scrivere un racconto per non mancare di rispetto a chicchessia), ma si accentri sulle parole in se stesse. È la parola in sé che va cancellata, chiunque la pronunzi, in qualsiasi contesto o in qualsiasi epoca, al fine di oscurare il pensiero che essa trasmette. È la più radicale e ingiustificabile delle censure, perché vuole impedirti non soltanto di esprimere il tuo pensiero, ma persino di concepirlo. Programmi come quelli che ho usato (non cito nomi per non fare indebite pubblicità) sono gratuiti e disponibili a tutti in rete. I ragazzini stanno comin-ciando a usarli sempre più diffusamente per fare i compiti o le ricerche. Mi ripeto: vorrei sbagliarmi, ma sarà bene prepararsi al peggio.

Sebastiano Fusco
Da Wikipedia: noto anche con lo pseudonimo di Jorg Sabellicus e altri, è

un saggistascrittore e traduttore italiano. Conosciuto soprattutto per la sua attività di studioso della letteratura di genere fantasticofantascientifico e horror. È considerato uno dei maggiori esperti di H.P. Lovecraft. Studoioso di esoterismo e di letteratura fantastica. Ha pubblicato vari volumi e centinaia di pubblicazioni.

Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (prima parte)

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Questo articolo inaugura una miniserie di altri tre articoli successivi, dedicati all’intelligenza artificiale. L’articolo originale è apparso intero su DIMENSIONE COSMICA a firma Sebastiano Fusco.

All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, quando ero studente d’ingegneria elettronica, i programmi relativi all’IA si chiamavano sistemi esperti (in ambito accademico il concetto di “intelligenza artificiale” era accuratamente evitato perché troppo fantascientifico). Il loro nome derivava da due considerazioni. In primo luogo, perché le loro serie di regole li rendevano in grado di risolvere problemi che potevano essere affrontati soltanto da tecnici esperti di un determinato settore; in secondo luogo, perché“imparavano” dalla loro stessa esperienza: cioè, le regole potevano essere aggiornate in base alla maggiore o minore efficacia riscontrata nella risoluzione dei problemi. In altre parole, più dati “macinavano” questi sistemi, più imparavano e potevano risolvere problemi sempre più complessi facendo sempre meno errori. Erano in grado cioè di aggiornare facilmente i loro passaggi logici in base all’esperienza. Cosa che agli esseri umani riesce molto spesso alquanto difficile se non addirittura impossibile: pensiamo a quante volte le nostre radicate ideologie ci impediscono di guardare in faccia obiettivamente la realtà. In quegli anni io studiavo automazione del calcolo, e con quei sistemi – alquanto rudimentali rispetto a quelli di oggi – avevo per forza di cose una certa dimestichezza. Come tutti mi rendevo conto che il limite principale alle loro capacità era posto dalla potenza di calcolo (numero di operazioni eseguibili in un secondo) dei computer su cui erano implementati. All’epoca in cui io tentavo di imparare qualcosa sui computer, questi ultimi erano grandi quanto un intero piano di un grosso edificio, ma avevano una potenza di calcolo inferiore a quella del chip che gestisce il telefonino che oggi portiamo in tasca. La tecnologia, grazie soprattutto allo sviluppo dei circuiti integrati, ha poi cambiato rapidamente le cose. Personalmente, ho avuto il privilegio di poter assistere da vicino all’evolversi dell’informatica non soltanto grazie a ciò che avevo studiato, ma anche perché, essendomi dedicato alla divulgazione scientifica, ero in contatto con molti dei protagonisti di tale evoluzione.

In particolare con Roberto Vacca, grande ingegnere, grande matematico e grande scrittore di fantascienza, che è stato uno dei più assidui collaboratori delle riviste che nel tempo mi hanno incaricato di dirigere. È stato lui, soprattutto, a chiarirmi uno dei concetti di base: parlare di “intelligenza” in rapporto con questi sistemi, è improprio. Un programma di IA non è “intelligente”, perché gli manca la principale delle funzioni che caratterizzano l’intelligenza umana: la creatività. Un sistema esperto non “crea” nulla, non“immagina” nulla, non “inventa”nulla: si limita a restituire ciò che è stato immagazzinato nei suoi banchi di memoria, in base a regole che gli sono state imposte e secondo una gerarchia di priorità definita dalla frequenza statistica con cui determinate parole emergono e sono collegate con altre parole nell’immenso oceano di informazioni che ha assorbito dalle “letture” selezionate per questo da chi ha addestrato il sistema stesso. Questa considerazione è fondamentale, perché fa capire che i sistemi di Intelligenza Artificiale possono essere impostati in modo tale da obbedire a direttive ideologiche predefinite. Manca loro infatti un’altra caratteristica essenziale dell’intelligenza umana, oltre alla creatività: ovvero, sono privi di libertà di pensiero. Non conoscono il libero arbitrio, ma fanno soltanto ciò che gli è stato chiesto di fare. Se chiediamo loro qualcosa, non “ragionano” per fornirci la risposta più opportuna, ma si limitano a restituirci quella statisticamente più frequente in base ai testi che sono stati loro somministrati. Non solo: adeguano la risposta alle regole “etiche” che sono state inserite nel loro stesso linguaggio di programmazione, già a livello di codice, da chi li ha allestiti.

Sebastiano Fusco

il Gran Vecchio…

C’è chi lo chiama affettuosamente Gran Vecchio o fratello maggiore, chi Maestro, mecenate e guida, altri ancora ispiratore e mentore, ma in primis, per tutti è l’Amico. Personaggio (quasi) mitico, ecco un (altro) libro che lo riguarda. Considerazione, gratitudine, commozione e affetto per un giovanotto di 80 anni traspaiono dalle pagine. Il tutto si ridurrebbe a peana di consenso un poco stucchevole verso l’uomo e il suo lavoro di una vita che sconfinerebbe nella celebrazione. Il soggetto, indovino che rifiuterebbe tale cornice. Gli apprezzamenti riuscirebbero indigesti anche al festeggiato -tuttora attivissimo e impegnato culturalmente in nuovi progetti.- Il volume, invece, è sorprendentemente ricco, vivace e di facile lettura e sa svincolarsi dall’aspetto privato e di encomio. Sa insomma farsi racconto. Spaccato culturale della vita di destra, per molti versi ignoto, degli ultimi 50 anni. Il volume in questione pubblicato da Oaks edizioni  costituisce una miniera di informazioni, molte delle quali di prima mano. Aneddoti, amarcord, riferimenti a opere, citazioni ti fanno capire quanto vivace e attivo sia stato ed è tuttora il macrocosmo di destra dagli anni ‘50 ad oggi. E su quanti uomini di valore abbia potuto contare quella cultura; ancora oggi demonizzata dai brandelli marxisti leninisti (chi scrive ricorda le “occupazioni rosse” degli anni ‘70 delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo a Torino). Volume denso di citazioni, riferimenti a opere, personaggi, filosofie, convegni, forum, mostre come quella recente, sui dipinti di Evola. Gli argomenti: da Julius Evola “all’imbecille” D’Annunzio, dai Manga a Tolkien, da Lovecraft alla passione politica, e poi la miriade di riviste e pubblicazioni cult, la Storia ucronica e la magia.
La cura maniacale del dettaglio, l’attenzione scrupolosa di citazioni e riferimenti a garanzia di esattezza filologica e semantica sono una delle cifre distintive del lavoro di GdT, (il baffuto individuo col sigaro della copertina). Un’esistenza diversa da quella che conduce, un’esistenza ucronica, ad esempio, per lui non avrebbe alcun senso avendo egli perseguito tutto ciò che animo, cultura e sensibilità gli suggeriscono.
In Fisica Quantistica si è soliti affermare che tutto ciò che potrebbe accadere, sicuramente accadrà. Il giovanotto di 80 anni sembra rappresentare tale assioma. 

Difficile la spigolatura del testo che si legge tutto d’un fiato, come se fosse l’avventura galoppante dello spirito ribelle; si desidererebbe ancora più dettaglio. Ho dovuto scegliere solo alcuni brani per ragioni di spazio, ma tutti gli interventi meriterebbero citazione.

Dall’introduzione: “è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Il volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e quindi da Luca Gallesi che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di una «festa a lungo attesa» in una controstoria della cultura italiana.”

“In tempi non sospetti, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco ci hanno detto che i capolavori del Fantastico non hanno nulla da invidiare ai grandi classici della letteratura convenzionale e, pertanto, come tali devono essere trattati.” Giuseppe Aguanno

“GdT ha continuato e continua nella sua opera di divulgazione, instancabile facitore di conoscenza in un mondo di ignoranti, con la consueta curiosità unita all’umiltà propria delle Grandi anime… i primi ottant’anni spesi bene, sono certo che i successivi saranno spesi benissimo! Mario Bortoluzzi

“Non esistono molte persone capaci di ragionare di questi tempi. Qualcuna l’ho incontrata. Gianfranco de Turris è una di loro.” Alessandro Bottero

“Tra mille incontri e telefonate ha sempre manifestato l’entusiasmo e la pazienza, l’attenzione, la fiducia e la complicità, nei tratti distintivi di un padre.” Giorgio Calcara

“Amico di una vita, grazie per essere stato un così prezioso compagno di strada …mi auguro di poter, ancora insieme, percorrere molte miglia sul sentiero affascinante della conoscenza, scrivendo e pubblicando tante pagine che nutrono l’anima.”  Giovanni Canonico

“il rischio di cascare a piedi uniti nella celebrazione è seriamente tangibile. Non lo farò: in troppi siamo debitori a GdT, a vario titolo …non nutro sensi di colpa, ma, semmai, un’immensa gratitudine per il mio intrattabile mentore.” Marco Cimmino

“Gianfranco, l’augurio migliore che posso farti per il tuo compleanno è che tu possa continuare ancora per molto tempo a donarci l’irrazionale, linfa insostituibile per lo spirito e per il cuore, per sognare e per costruire mondi.” Alessandra Colla

“Merito di Gianfranco de Turris è il recupero di un patrimonio spirituale e culturale enorme. Ma aggiungerei anche l’aver saputo vedere l’interesse duraturo di un insieme di opere, scritti e forme speculative che hanno dato consistenza a un aspetto della cultura italiana troppo spesso ignorato anche dai più attenti ricercatori.” Nuccio D’Anna

“Può essere orgoglioso di ciò che ha raggiunto – e di ciò che raggiungerà ancora, ne sono certo, perché si può avere ottant’anni ed essere più creativi che mai! Ad multos annos, caro Gianfranco! Alain de Benoist (Traduzione di Andrea Scarabelli)

“Navigatore ardito, avventuroso come gli eroi mitici che, al seguito di Giasone, parteciparono al viaggio dalla Grecia alla Colchide per la conquista del Vello d’Oro: Gianfranco de Turris è l’archetipo dell’argonauta, per il rigore intellettuale e il coraggio nel difendere le idee scomode in nome di una visione del mondo senza tempo.” Michele De Feudis

“Che piacere riabbracciarci, io e Gianfranco, due vecchi dinosauri sopravvissuti al fatale meteorite dell’esistere, lui sordastro, io quasi, entrambi con la barba bianca, entrambi con mezzo sigaro trale labbra.” Luigi De Pascalis

“L’ARGONAUTA: Quattordici anni di vita, 468 puntate, oltre 2500 interviste!…Uomo estremamente generoso, uno dei pochi “maestri” incontrati nella mia vita; il maestro che stimola, sprona, forma e soprattutto insegna, o sarebbe meglio dire consegna l’esperienza e il sapere ai suoi allievi.” Roberta Di Casimirro

“La sua identità è scivolosa; sì, proprio come la forza da cui molte esistenze sono di fatto animate; quella che proviene dal centro di tutto; dal fondo incondizionato che, del mondo, ci costringe a riconoscere la radicale inesistenza; senza invitarci a procedere al di là di esso, verso un mondo che non c’è.” Massimo Donà  

“In tanti anni, non l’ho mai visto scendere a un compromesso, mai venir meno a un impegno preso, mai commettere un atto d’ingenerosità, mai deflettere da quello che considerava il giusto cammino. Da ragazzo io ero un po’, diciamo così, scapestrato. Mia madre, che l’aveva conosciuto praticamente quando l’avevo conosciuto io, per cercare di temperarmi mi diceva sempre: «Ma lo vedi Gianfranco? Non puoi prendere esempio da lui?» Sebastiano Fusco

“Riscrivere, correggere, correggere ancora: non è proprio per tutti. Ad alcuni potrebbe addirittura parere, talvolta, di aver a che fare con un nume corrucciato, mai soddisfatto e intento a evidenziare il proverbiale pelo nell’uovo. Ma è apparenza, che vela invece l’amore per gli scritti chiari, ben ponderati.” Andrea Gualchierotti 

“È stato, l’avanguardia, o l’araldo di uno scontro tra diverse visioni dell’uomo e della sua storia che è, oggi, sempre più drammaticamente in corso.” Andrea Marcigliano

“Lei è l’emblema dell’onestà intellettuale, dell’aulicità priva di affettazioni e dello spirito di abnegazione necessari a chi è costantemente impegnato nella ricerca della verità…In Russia il Suo nome è molto conosciuto e stimato.” Dmitry Moiseev

“De Turris ha passato al setaccio tutto della modernità: indizi, simboli, presagi, analizzato l’Utopia e le ideologie del Novecento, la tecnica e internet, la letteratura fantasy e il revisionismo, il millenarismo e cosa accade dietro le quinte della storia, il folklore e le altre dimensioni. Senza mai dimenticare la critica e la cultura politica, agganciate all’attualità, alle spie che indicano i cambiamenti nella società e nella contemporaneità.” Manlio Triggiani

E, fuori dal contesto del volume: L’ho conosciuto a Milano decine di secoli fa, col suo amico editore Marco Solfanelli. Gli ho spedito mini Garuda augurali in ebano da Bali, e qualche cartolina, ma temo non si ricordi. Se qualche volta pubblico lo devo a lui, mi ha insegnato a mettere i punti e le virgole al loro posto e, ovviamente, tutto il resto.

c’era il Fantastico?

Si fa presto a dire fantastico! Un viaggio, un pranzo, un amico, possono riuscire fantastici, o un programma tv, come quello del 6 ottobre 1979 quando andò in onda la 1ª di dodici puntate di “Fantastico”, condotto da Loretta Goggi e Beppe Grillo con Heather Parisi. Quanta acqua sotto i ponti! dirai. Ma niente di tutto questo c’entra col nostro fantastico, e allora cosa? Il Fantastico è qui soggetto eminente di un’opera singolare che si legge come un romanzo d’avventura. Edita da Solfanelli in onore dei 60 anni di attività di Gianfranco de Turris, noto internazionalmente per essere uno dei più accreditati conoscitori di questa osmotica materia. Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti, alla seconda edizione riveduta e ampliata – e già si parla di una terza ristampa – tratta di un altro genere di Fantastico, che questa volta non rima con meraviglioso, favoloso, sensazionale o formidabile, ma col quotidiano. A definire il Fantastico in questa sede ci aiutano i giornalisti Louis Pauwels e Jacques Bergier, autori de Le Matin des magiciens, opera del ‘60. Ecco cosa dicono: “il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi…” Cose astruse? Affatto, perché ci toccano da vicino più di quanto pensi. Fantasy, fantascienza, fantastico, science fiction e via dicendo: solo alcuni dei termini descriventi una dimensione che fa dell’onirico e del virtuale una eventualità possibile; quanti milioni di persone si sono incollate agli schermi, soggiogate dalle vicende di Odissea 2001 nello spazio, Blade Runner, Interstellar, Ex Machina, famose pellicole cult che rivelano tuttavia inquietudini riflesse e prospettive potenziali di un futuro possibile: di intelligenza artificiale  si imbottiscono ormai anche i materassi. Punto di forza de Il Viaggiatore Immobile una serie di testimonianze autografe imperniate sulla figura di Gianfranco de Turris, che descrivono un’avventura pluridecennale di cui non si percepisce la fine, perché il fantastico nasce e vive con noi, inossidabile compagno di ogni vicenda umana, in forza del suo significato: rappresentare la parte più autentica che è sogno, desiderio dell’ulteriore, fuga dal quotidiano. 

Così la “rivelazione dell’inconsistenza ultima della realtàsi legge nel libro, fa pensare. Tolkien, Lovecraft, Evola, Meyrink, Jung, sono i nomi che più compaiono, in una fitta sequenza di amarcord talvolta accorati, fatti di date, incontri e scontri, ricordi di tumultuose avventure editoriali e filosofico letterarie; contigue alla politica, esse sono apportatrici di nuove idee e interpretazioni del quotidiano,  conquistate con fatica e lotta. Al centro di questa avventura c’è lui, il viaggiatore immobile, ovvero Gianfranco De Turris, amato e osannato, o vilipeso e osteggiato, sempre scomodo, perché granitico nelle sue idee “scomode”, ingombrante presenza fuori dal coro, sempre. Dai numerosi interventi offerti dall’opera, che si legge come un racconto avventuroso, uno significativo, quello di Chiara Nejrotti tratto dal capitolo Nostalgia del sacro e critica alla modernità, l’opera di J.R.R. Tolkien: Negli anni Settanta del secolo scorso Gianfranco de Turris, insieme a Sebastiano Fusco, propose un’interpretazione simbolica del fantastico che si dimostrò particolarmente feconda nell’indicare chiavi di lettura e significati, che probabilmente sarebbero rimasti nascosti secondo analisi meramente letterarie o di stampo strutturalistico, così in voga in quegli anni. Egli, infatti, indicò per primo in Italia il legame esistente tra mito, epica e letteratura fantastica, mostrando come quest’ultimafosse l’erede – più o meno consapevole – delle prime due e, per suo tramite, si manifestasse, nell’epoca del modernismo razionalista e del disincanto, una autentica e, a prima vista insospettata, “nostalgia del sacro…”

Nelle immagini: dipinto di Julius Evola e la copertina dell’opera.

l’orrore puro si chiamava Lovecraft? (3)

Le infermitá, lo squilibrio mentale, infine la follia, prima del padre, poi della madre, che, a causa della sua crudele possessivitá, dopo la morte del marito, diceva al figliolo: Non andare a giocare con gli altri, sei troppo brutto, rimani a casa… Bizzarrie, costrizioni, sentimento materno distorto, fattori che devono aver agito sulla fantasia e sulla psiche del giovane e gracile Lovecraft, infatti precoci esaurimenti nervosi e un gran mal di testa lo perseguiteranno (dopo una rovinosa caduta da una impalcatura). Ci penseranno alcune sue zie a stargli vicino. Riusciva a sopravvivere con 15 dollari a settimana. Innamorato dell’antico, cordialmente aborriva il  mondo moderno, la civiltá della metropoli, meccanica e scientifica, “creazione mostruosa e artificiale” la definiva, “che non si tradurrá mai in arte o religione”. Era solito girare a piedi o in bicicletta. Si definiva ateo di ascendenza puritana. Lovecraft narrerá di incubi, e di horror declinandoli all’infinito; saranno questi i temi eminenti della sua imponente produzione letteraria, per certi versi ancora da vagliare e apprezzare appieno.

In ALLE MONTAGNE DELLA FOLLIA la mente di alcuni esploratori svanisce, annichilita e poi distrutta da innominabili orrori, prima temuti, poi manifesti in tutta la loro blasfema crudezza. Incubi paventati che si materializzano, andando ben oltre l’immaginato, con tutto l’orrore possibile, alla vista di atroci massacri, nelle lande remote di un antartico malvagio e pauroso.
Lovecraft scrive di incubi, attorno ci mette una cornice fitta di riferimenti scientifici, archeologici, inventando una vicenda capace di mutare l’improbabile e l’assurdo in verosimile fantastico, la sua abilitá risiede appunto nel farcelo credere, dosando sapientemente suspense e rivelazioni. Potrebbe essere “solo” la storia di un fumetto d’autore, invece la vicenda si iscrive a pieno titolo nella vera letteratura. Inventando una cittá abbandonata nell’abisso del tempo, una mostruosa, smisurata area geografica disertata da razze non umane. Prosa colta, talvolta ripetitiva, a tratti, arcaica, la sua. Sul diario di un membro della spedizione fa scrivere: È del tutto contro la mia volontá che mi accingo a spiegare i motivi per oppormi alla contemplata invasione dell’antartico, all’estesa ricerca di fossili, alla trivellazione su larga scala ed allo scioglimento di vaste zone della calotta ghiacciata. Sono anche riluttante a farlo perché i miei ammonimenti potrebbero riuscire vani. I fatti, come dovró rivelarli, saranno difficilmente creduti…Danforth era un accanito lettore di materiale bizzarro ed aveva parlato a lungo di Poe. Anch’io ero interessato a motivo dello scenario antartico dell’unico lungo racconto di Poe, il conturbante ed enigmatico Gordon Pym…Lake era stranamente convinto che la traccia fosse quella di qualche organismo voluminoso, sconosciuto e assolutamente inclassificcabile, di evoluzione considerevolmente avanzata…
Da quello spettacolo derivava un senso di stupenda segretezza e di potenziale rivelazione. Era come se queste cuspidi da incubo fungessero da piloni di uno spaventoso ingresso nelle sfere proibite dei sogni, nei complessi golfi del tempo remoto, dello spazio e dell’ultradimensionalitá. Non potevo trattenermi dal pensare che erano cose malvage, montagne della follia, i cui pendii piú lontani dominassero qualche maledetto abisso finale. Lo sfondo semilucido di nubi in fermento richiamava alla mente cose vaghe ed eteree, piú che ultraterrene spaziali, e ricordava in modo agghiacciante l’estrema lontananza, la separazione, la desolazione e la morte di ére infinite di questo inviolato e smisurato mondo australe.
..Il tremendo significato sta in ció che non ardimmo dire; e che non direi adesso se non sentissi il bisogno di mettere altri in guardia contro terrori inconcepibili…
La maestria di Lovecraft non risiede tanto nella descrizione dell’orrore di corpi straziati e smembrati di uomini e di cani da slitta, quanto nel suggerire, nel far temere e indurre a immaginare un orrore immanente, in agguato, un destino-passato ineludibile e tragico della spedizione in antartico.

Sono pagine magistrali anche perché dettagliate nella descrizione minuziosa e imaginifica di labirintiche caverne, costruzioni, edifici, architetture, scenografie in cui fanno da sfondo paesaggi aspri, desolati, maledetti, in cui hanno vissuto misteriosi esemplari biologici, infernali organismi archeani. Gli esploratori non si daranno pace sino a quando non si spiegheranno la presenza di quella strana “steatite verdastra” e di certe misteriose tracce triangolari. Ancora dal diario di bordo dello stesso esploratore si legge: È adesso mio terribile dovere ampliare quel racconto colmando le pietose omissioni con accenni a ció che veramente vedemmo nel misterioso mondo di lá dai monti, accenni alle rivelazioni che causarono il collasso nervoso di Danforth. …Da parte mia non posso che ripetere i suoi sconnessi bisbigli circa ció che aveva causato le sue urla, subito dopo quel reale e tangibile choc che subii io pure sussurratimi mentre l’aeroplano sorvolava quel passo torturato dal vento sulla via del ritorno. Questa sará la mia ultima parola. Se i segni evidenti di antichi orrori sopravvissuti di cui diró non saranno sufficienti a distogliere gli altri dall’interessarsi dell’Antartico piú interno, o per lo meno dal frugare troppo a fondo in quella landa di segreti proibiti e disumani e di desolazione immemorbile, non sará mia la responsabilitá di sciagure senza nome e forse senza limiti….Tutti i contorni, le dimensioni, le proporzioni, le decorazioni e le particolaritá costruttive di quel blasfemo ed arcaico monumento di pietra avevano qualcosa di vagamente ma profondamente disumano. Ci rendemmo conto presto, da ció che le sculture rivelavano, che quella mostruosa cittá era vecchi di milioni di anni…Ma chi aveva infine abitato la sterminata cittá estinta da tempo immemore?…I Grandi Esseri antichi dalla testa stellata filtrati giú dalle stelle quando la Terra era giovane, esseri la cui sostanza era il risultato di un’evoluzione estranea alla terra…esseri che attraversavano l’etere interstellare con l’aiuto di grandi ali membranose…

Niente male per essere “solo” un racconto di fanta horror. Con LE MONTAGNE DELLA FOLLIA Lovecraft sdogana definitivamente il genere fantastico horror facendogli assumere vera, autentica, e definitiva dignitá letteraria, se mai ce ne fosse stata necessitá, collocandosi degnamente fra i maestri del genere (pur con tutte le diverse connotazioni, variazioni sul tema e sfumature) come Ann Radcliffe, Mary Wollstonecraft Shelley, Fitz-James O’Brien, Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant.

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l’orrore puro si chiamava Lovecraft? (2)

Aveva lasciato credere a sua moglie di averle concesso il divorzio.  Ma lo scioglimento del legame non fu mai formalizzato legalmente, sebbene lo scrittore le avesse assicurato che le pratiche erano state presentate, non firmò mai il decreto finale. Una “stranezza” di Lovecraft, fra le tante, come quella di aver sposato Sonja Simonovna Šafirkin  un’ebrea brillante e imprenditrice di successo, di origine ucraina, nonostante i sentimenti dichiaratamente antisemiti dello scrittore. Tralascio le vicissitudini casalinghe di Lovecraft per tornare al nocciolo della sua arte. A questo proposito non ha osato tanto nemmeno Edgar Allan Poe, capostipite e maestro indiscusso dell’horror, suggerendo e inducendo angoscia e incubo, ma rispettando certi limiti. Lovecraft, al contrario, osa l’inosabile non rispettando alcun limite (anche se azzardato il riferimento mi viene in mente il marchese De Sade che di limiti proprio non sa che farsene.) Soggetti, odori, situazioni, ambienti e pensieri non lasciano dubbi, non potrebbero essere piú espliciti, e spesso rivoltanti, egli abbatte le pareti che isolano in zona off limits dannazione, necrofilia, perdizione e insania mentale. Li rende soggetto dei suoi lavori. Cala sul tavolo della narrazione carte estreme, delineando spesso situazioni e propensioni che rimandano al patologico. Alcuni suoi racconti potrebbero rientrare a buon titolo in una raccolta di casi clinici. Lovecraft inoltre è i suoi personaggi, Lovecraft esorcizza il suo demone facendolo rivivere nelle sue pagine, ora è un nobile ufficiale tedesco superstite che sta colando a picco col suo sommergibile, ora l’ultimo discendente di una stirpe maledetta che rimira con gioia golosa la bara in cui desidera calarsi, ora il becchino che sale su una pila di bare che si sfasciano sotto il suo peso, ora il necrofilo che ama stringere a sé cadaveri nudi e fetidi, (cosí scrive lui stesso) ora il demone che si cela nel lupo zoppicante che assale improvvidi visitatori nella casa del bosco. Storie manifestamente speculari all’insofferenza di Lovecraft per il quotidiano, il “normale”, per l’insopportabile opacitá che riveste le cose e gli uomini ordinari; infatti scrive nella prima pagina del racconto LA TOMBA:…. È una vera sciagura che la gran massa dell’umanitá possegga una visione mentale troppo ristretta per valutare con obiettivitá e intelligenza quei rari e particolari fenomeni -visti e percepiti esclusivamente da una minoranza di individui psicologicamente sensibili-che trascendono l’esperienza ordinaria. Gli uomini di piú vasto intelletto ben sanno che non esiste una netta distinzione tra il reale e l’irreale, e che tutte le cose devono la loro apparenza soltanto ai fallaci mezzi mentali e psichici di cui l’individuo è dotato, attraverso i quali prende coscenza del mondo. Il prosaico materialismo della maggioranza condanna invece quei lampi di una visione superiore che penetrano il velo comune dell’ovvio empirismo, classificandoli come manifestazioni di follia.

Mi chiamo Jervas Dudley e, fin dalla primissima infanzia, sono stato un sognatore e un visonario. Lovecraft dirá in seguito: «Sono talmente stanco dell’umanità e del mondo che nulla suscita la mia attenzione se non comporta almeno due omicidi a pagina, o se non tratta di innominabili orrori provenienti da altri spazi.» Ovvero traspare una lucida non accettazione della banalitá del quotidiano e il desiderio timore-orrore di aprirsi a quell’abisso cosmico in cui si annidano impensabili insidie per gli umani. Di rilievo la nota in calce a LA TOMBA (pubblicata da Tascabili economici Newton) che aggiunge: Il protagonista, Jervas Dudley, è il primo degli avatar letterari nei quali Lovecraft fotocopierá ossessivamente la propria stessa figura di estraneo al mondo triviale, antiestetico, stolidamente noioso dell’esistenza comune.

All’inizio dello stesso racconto un verso di Virgilio: Affinché nella morte io trovi pace almeno in una placida dimora. Caratteristica riscontrabile in personaggi e situazioni delle sue molte opere: la creazione di “assurditá” verosimili; ovvero la trasposizione sulle pagine di incubi e ossessioni genuine, proprio questa è la chiave per interpretare e amare le opere di Lovecraft. La non finzione, la sinceritá dell’incubo verace messa su carta. Qualsiasi altro narratore, rivelando temi e argomenti simili, alla base della sua narrazione, correrebbe il rischio di apparire esagerato, enfatico e per questo non credibile.
Molti biografi hanno attribuito a Lovecraft tratti del disturbo schizoide di personalità o della sindrome di Asperger. 

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c’era la fantascienza?

Nostra sorella Wikipedia scrive: La data di nascita della fantascienza è convenzionalmente indicata al 5 aprile del 1926, quando uscì negli Stati Uniti la prima rivista di fantascienza, Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback, ma al genere possono essere ascritte numerose opere precedenti, dal Frankenstein di Mary Shelley ai romanzi di Jules Verne e H. G. Wells. Quella di cui ti voglio accennare io è una storia flash, quasi un sottotitolo di un racconto che presumibilmente avrebbe potuto essere molto piú lungo. È una storia che ti lascia senza fiato, ma non solo. Riserva una sorpresa finale che ti lascia a bocca aperta. Un racconto di una pagina scarsa può entrare nella storia della letteratura, diventando un classico della narrativa? Certo che può. È LA SENTINELLA. Ogni volta che la leggiamo proviamo un brivido lungo la schiena. Storia lampo, che lascia attoniti, capace di trasferire sentimenti umani allo strano soldato preda dell’ansia. Il quale rivive per noi, in modo speculare, la sua lunga attesa in una terra desolata, ai margini della galassia. Due righe finali svelano la realtà rivelando nello stesso tempo la nostra condizione umana.

Lo strano soldato potrebbe essere un nostro combattente in una trincea della Prima Guerra mondiale. Uno che prova ansia, che soffre come tanti fantaccini spediti a sorvegliare il nemico, freddo, paura, uno come noi, insomma, psicologicamente simile all’umano. Soffre lo stesso stress dell’attesa di un nemico spietato e invisibile. E quindi:
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più…

Non voglio privarti della sbalorditiva sorpresa. Molti di voi già sapranno di cosa sto parlando. Tratto dall’ormai mitica edizione pubblicata da Einaudi. Le Meraviglie del Possibile – Antologia della Fantascienza a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero.
Il racconto fa parte, insieme a molti altri (tutti per diversi motivi eccezionali) scritti da diversi autori, di un unicum narrativo di grande rilievo che ancora oggi colpisce e ci fa riflettere per la sua carica dirompente, e coinvolgente, gli interrogativi sul nostro presente futuro e l’attinenza al quotidiano (per certi versi ancora piú fantastico del mondo ritratto della fantascienza tradizionale).
La fantascienza è il nostro presente. La fantascienza siamo noi, il vicino di casa, la vecchietta con le scarpe viola, la banalitá della nostra vita “insidiosamente e supinamente tecnologica” corrente, alla quale ci siamo assuefatti; il rapporto osmotico fra la nostra vita tradizionale e una possibile futuribile, attuale, o parallela diventa cosí evidente da risultare quasi banale, perché ovvio. Voglio metterti sul gusto senza svelarti come va a finire. Il brevissimo racconto flash di Frederic Brown comincia cosí:
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato.
Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super armi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. C’è anche un’edizione economica…si fa per dire.

Domanda: quando la fantascienza verrá introdotta nelle scuole come materia di insegnamento? Occorrerebbe prepararsi per il futuro, o, forse, per il passato. Lovecraft nel suo LE MONTAGNE DELLA FOLLIA, insegna.

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l’orrore puro si chiamava Lovecraft?

Quando The LOVED DEAD apparve con la firma di C.M. Eddy, sul numero di maggio- giugno-luglio 1924 di Weird Tales, la rivista venne pesantemente criticata, e, in certe zone degli Stati Uniti, tolta dalle edicole: l’urtante tema necrofilo del racconto aveva infatti ferito la sensibilitá dei benpensanti. Si legge in una nota del bel libretto pubblicato nella collana I TASCABILI NEWTON COMPTON. Tre evviva per questa casa editrice che al costo di un caffè mi faceva conoscere l’autore americano. Tornando alla nota: io non amo i benpensanti, diciamo che mi sono indifferenti, di solito fanno rima con retrivo, codino, reazionario, peró, in questo caso, magari qualche striminzita ragione ce l’hanno. Devi essere di stomaco molto forte per leggere I CARI ESTINTI di Howard Phillips Lovecraft che le immagini ritraggono con la faccia lunga, cavallina, con una espressione indecifrabile stampata in viso. Presentando il volume TUTTI I ROMANZI E RACCONTI la stessa casa editrice scrive: Il terrore insondabile e soprannaturale, inquietanti e apocalittiche visioni: tutto l’immaginario di follia e orrore di Howard R. Lovecraft è raccolto in queste pagine.

Interi universi prendono forma dalla sua sapiente penna, governati da leggi fisiche ignote, popolati da creature inimmaginabili e da terrificanti minacce. L’uomo è solo al centro di un cosmo nel quale il terrore proviene dagli abissi della mente come dai più remoti recessi dello spazio, un mondo nel quale la paura è la dimensione dell’essere. Tutto ciò sottintende la teoria lovecraftiana secondo cui smascherare e affrontare i propri incubi più angoscianti è l’unico modo per esorcizzarli. Incubi, sogni e miti creati da un maestro dell’orrore e del fantasy per turbare le notti dei lettori. In questo volume è presentata tutta la produzione del “solitario di Providence”, compresi capolavori famosi che ancora oggi ispirano scrittori e sceneggiatori, come “Le montagne della follia”, “Lo strano caso di Charles Dexter Ward”, “L’orrore di Dunwich”, “La ricerca onirica dello Sconosciuto Kadath”.
Pensavo che dopo aver letto LE HORLA di quel maestro che si chiama GUY DE MAUPASSANT, non potessero esistere orrori ulteriori, e invece sí, essi esistono, sotto altre configurazioni. Lovecraft ce li spiattella sulle sue pagine, nella loro inumana crudezza, nella loro (ahimé) possibilitá di attuazione, emendando poi il protagonista come nel caso di questo racconto con un gesto insano e risolutore. Orrore dell’ignoto, il corollario di defunti, bare, fosse, cimiteri, sono riscontrabili in certi eccezionali racconti dello scrittore americano. Dove l’arte della narrazione fa tuttuno con la cronaca di incubi intollerabili, di terrori innominabili, con esistenze senza luce, destinate ad abortire la vita che li rifiuta e che essi rifiutano. Un esempio, fra i moltissimi: Mi insediai nella camera ardente in cui giaceva mia madre con l’anima assetata del nettare diabolico che pareva saturare l’aria buia. Ogni respiro mi rafforzava , mi sollevava ad altezze inaudite di soddisfazione e d’estasi.

Scomodare Freud e Jung mi sembra il minimo da farsi. Non credo che vi azzardiate a consigliare la lettura di certi suoi racconti quando scrive:..Sapevo inoltre che, per una strana maledizione diabolica, la mia vita attingeva dai morti la sua forza; che nel mio essere qualcosa di singolare reagiva solo alla tremenda presenza di un cadavere. Ma LOVECRAFT va oltre dicendo: il signor Gresham arrivó prima del solito e mi trovó sdraiato su un freddo tavolo mortuario, immerso in un sonno pesante da vampiro. Le braccia strette attorno al corpo nudo e rigido di un cadavere ormai fetido. Il titolare delle pompe funebri mi destó da sogni lascivi…Penso che tu abbia fantasia sufficiente, come me, per capire cosa ci faceva coi cadaveri.
Scrive nostra sorella Wikipedia il 4, 1 – 2016 : Il timore dell’ignoto e dell’inconscibile pervade i lavori di Lovecraft, cosí come la nera depressione pervadeva i lavori di Edgar Allan Poe… Lovecraft temeva che questo significasse che anch’egli fosse mentalmente instabile. Un timore che permea il suo lavoro, con maledizioni ancestrali e sconosciute ereditá condannanti i suoi protagonisti.

Sarei crollato se non se non avessi potuto provare di nuovo l’ebbrezza che soltanto la vicinanza dei defunti poteva darmi… Ti risparmio la fine di questo afasica, ipnotica narrazione, scritta da un condannato.
Scrive Salvatore Liguori: C’è una cosa che non vi abbiamo detto: in molte delle lettere che scambiava con altri amici autori, Lovecraft dichiarò che si era ispirato per le sue storie ai propri incubi. Infatti la figura dell’artista o dell’intellettuale che per via della sua naturale empatia riusciva a entrare in connessione con le realtà dell’orrore cosmico, e quindi impazzire, è molto comune. E questo ci lascia con un dubbio…Se fosse tutto vero? “Ya Ya Cthulhu Fhtang!”
Una riflessione la voglio ancora fare pensando anche che Lovecraft meriti altri post: All’ombra costante dell’angoscia, col timore di essere afflitto da malattie mentali sempre in agguato, sicuramente instabile dal punto di vista psico emotivo, Lovecraft scrive i suoi capolavori, come De Maupassant, come Poe, indagando nel mondo dell’incubo, rivitalizzando quelle lamie che egli temeva volessero annientarlo, materializzando, per tentare l’esorcismo, angosce e incubi, in compagnia di lutto, orrore, demoni e morte. La “malattia” di questi autori si fa grande arte, si fa premonizione e annuncio della nostra epoca di disvalori e caos. Il loro “male” fa rima con angoscia cosmica, smarrimento davanti al vuoto del creato, alta letteratura e consapevolezza. Del resto fu proprio Poe a scrivere in Eleonora, 1841: «Mi hanno chiamato pazzo; ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia sia o non sia la più elevata forma d’intelligenza, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non derivi da una malattia del pensiero, da umori esaltati della mente a spese dell’intelletto generale.»

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