Sergio Romano nel suo Finis Italiae: “Promuovendo il fascismo al rango di “male assoluto” gli alleati permisero agli italiani di sbarazzarsi del loro passato con una menzogna e di mettere la guerra sulle spalle di un uomo, Mussolini” Sergio Romano, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro: “(…) In Italia dopo la seconda guerra mondiale, non vi sono stati né desiderio di rivalsa né processi alla nazione. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio la grande maggioranza del paese si è ritirata nell’attendismo. Dopo la sconfitta della Germania e del suo satellite fascista ha stretto un patto tacito con l’antifascismo trionfante. I politici antifascisti potevano proclamare di essere stati ingiustamente e violentemente espropriati del potere, gli italiani potevano sostenere d’essere stati oppressi e asserviti da una dittatura aliena. Era una menzogna, naturalmente, ma presentava molti vantaggi, fra cui quello di permettere all’Italia di finire nel campo dei vincitori.” (ma poi non è stato così). “Se il fascismo era davvero, come essi avevano sostenuto per meglio vincere la guerra, una sorta di incarnazione satanica nessuna potenza vincitrice era tenuta a interrogarsi sulle cause della seconda guerra mondiale e sulle proprie responsabilità dopo la fine della prima. Promuovendo il fascismo al rango di “male assoluto” gli alleati permisero agli italiani di sbarazzarsi del loro passato con una menzogna e di mettere la guerra sulle spalle di un uomo, Mussolini. Se gli italiani non avevano perduta la guerra non era necessario intentare un processo alla nazione per individuare gli errori materiali e morali che avevano portato il paese alla disfatta. In realtà tutti sapevano che le cose erano andate diversamente, che il consenso aveva accompagnato Mussolini sino alla fine degli anni Trenta e che si era gradualmente dissolto soltanto dopo i bombardamenti e le prime sconfitte. Una menzogna – “non abbiamo perso la guerra” divenne così l’ideologia fondante della Repubblica democratica”. Da Albione la perfida, Solfanelli edizioni. Nel prossimo post il seguito dell’articolo.
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Dopo 80 anni. La pacificazione impossibile (?)
Per comprendere cosa c’è alla base dell’Italia post bellica e cos’è accaduto all’italica stirpe in questi ultimi 80 anni ci vorrebbe un trattato di Fisica Quantistica, e di Psicopatologia sociale, forse non basterebbero, ma stando coi piedi per terra, e desideroso di saperne di più, riporto un capitolo tratto da Albione la perfida, Solfanelli edizioni, che ospita in prima battuta l’analisi schietta e limpida di Sergio Romano, ex ambasciatore, scrittore, giornalista, analista politico, con un palmares di onorificenze da urlo).
“Questioni in sospeso
Spinosa e irrisolta, la questione del come abbiamo digerito o rimosso la sconfitta della seconda guerra mondiale rimane sottopelle. L’argomento parrebbe obsoleto ma non è così. Ce lo dice lo stesso dopoguerra e ce lo ricordano gli Inglesi. I nostri ultimi ottanta anni riguardano anche loro, essi si interrogano su questioni nostrane senza capirci molto. Sergio Romano su Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, mette a nudo alcune “peculiarità” italiche scrivendo: “(…) In Italia dopo la seconda guerra mondiale, non vi sono stati né desiderio di rivalsa né processi alla nazione. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio la grande maggioranza del paese si è ritirata nell’attendismo e si è limitata a guardare dalla finestra il resto del dramma misurando diplomaticamente e prudentemente il proprio consenso alle forze in campo. Dopo la sconfitta della Germania e del suo satellite fascista ha stretto un patto tacito con l’antifascismo trionfante…I politici antifascisti potevano proclamare diessere stati ingiustamente e violentemente espropriati del potere, gli italiani potevano sostenere d’essere stati oppressi e asserviti da una dittatura aliena. Era una menzogna, naturalmente, ma presentava molti vantaggi, fra cui quello di permettere all’Italia di finire nel campo dei vincitori.” (in linea teorica perché poi non è stato così, come qui vedremo). “Se il fascismo era davvero, come essi avevano sostenuto per meglio vincere la guerra, una sorta di incarnazione satanica… nessuna potenza vincitrice era tenuta a interrogarsi sulle cause della seconda guerra mondiale e sulle proprie responsabilità dopo la fine della prima. Promuovendo il fascismo al rango di “male assoluto” gli alleati permisero agli italiani di sbarazzarsi del loro passato con una menzogna e di mettere la guerra sulle spalle di un uomo, Mussolini. Se gli italiani non avevano perduta la guerra non era necessario intentare un processo alla nazione per individuare gli errori materiali e morali che avevano portato il paese alla disfatta. In realtà tutti sapevano che le cose erano andate diversamente, che il consenso aveva accompagnato Mussolini sino alla fine degli anni Trenta e che si era gradualmente dissolto soltanto dopo i bombardamenti e le prime sconfitte. Una menzogna – “non abbiamo perso la guerra” divenne così l’ideologia fondante della Repubblica democratica”. Amen.
Se lasci “fermentare” le cocenti parole di Sergio Romano ti accorgi che ci sarebbe moltissimo da commentare e analizzare, ma occorrerebbe spogliarsi di ogni faziosità o appartenenza. Temo al proposito che sarebbe più facile eliminare concrezioni calcaree centenarie che manco il Viakal riuscirebbe a rimuovere. Venendo agli Albionici, essi versano sale sulle nostre ferite. Tony Barber, European comment editor su Financial Times del 27 ottobre 2022: (…) l’Italia si è scagionata dai crimini commessi sotto il Duce. Descrivere Giorgia Meloni… e Fratelli d’Italia come diretti discendenti di Mussolini e dei fascisti è fuorviante. Hanno conquistato il potere in elezioni libere e competitive; non uccidono né usano la violenza di massa contro i loro oppositori; non intendono creare una dittatura a partito unico; e non hanno intenzione di invadere paesi stranieri e costruire un impero italiano nel Mediterraneo e nell’Africa orientale. I libri, Mussolini in Myth and Memory di Paul Corner e Blood and Power di John Foot, raccontano perché l’estrema destra sta cavalcando l’onda oggi. Una spiegazione: sebbene Mussolini non sia stato ufficialmente riabilitato, molti italiani guardano al suo governo con tolleranza e ammirazione. Tendenza non limitata ai politici di destra, perché? Corner, professore emerito all’Università di Siena e autore di libri sul fascismo si chiede: “Come mai un uomo giustiziato da italiani, il cui corpo è stato appeso al cavalletto di una pompa di benzina per pubblica esecrazione, è diventato una figura a cui si guarda con un certo riguardo, persino nostalgia?” Corner sostiene che, nella memoria collettiva italiana, alcuni aspetti apparentemente benigni del fascismo sono stati “salvati” e altri – come la violenza di stato, la repressione delle libertà, la polizia segreta, le atrocità coloniali e la costante marcia verso la guerra – opportunamente dimenticati, vile la complicità dell’establishment politico e della monarchia. Di qui l’esonero di colpa o responsabilità.
Vittime, non carnefici, dunque. Corner considera la polemica sorta per l’affermazione dello storico Renzo De Felice secondo cui il fascismo aveva beneficiato del “consenso di Massa” almeno dal 1929 al 1934. Per gli italiani moderni, questo non ha indotto “costernazione e ricerca interiore sul modello tedesco ma una sorta di autoassoluzione nazionale”. Come mai? Perché gli italiani si considerano brava gente – buoni e rispettabili. Incapaci di sostenere un regime malvagio, e quindi la dittatura di Mussolini non avrebbe potuto essere così grave. Come Corner, Foot, professore di storia italiana moderna all’Università di Bristol, sottolinea che la violenza è stata il tema dell’ascesa della dittatura fascista. “essa è stata costruita su un cumulo di cadaveri, teste spaccate, vittime traumatizzate della violenza, libri bruciati, cooperative e sedi sindacali distrutte”. Il problema, descritto da Corner e Foot, è che molti italiani hanno un’immagine gravemente distorta della storia del loro paese nel XX Secolo, è difficile trovare paesi che abbiano una corretta comprensione del loro passato, delle loro “verruche” (cosi la traduzione) e di tutto il resto. La piena conoscenza di sé è dolorosa e forse impossibile da raggiungere. Ma c’è un prezzo da pagare per questo in termini di qualità della democrazia e della vita pubblica”. Ecco ciò che pensano i Brits di noi.
Agli amici inglesi dico: se democrazia fa rima con trasparenza, e se noi dobbiamo pagare un prezzo per migliorare la qualità della democrazia cosa aspettano a farlo anche loro? Di scheletri nel loro armadio ne hanno diversi. Quando i Brits prenderanno atto dei loro crimini distribuiti equamente nel mondo? Sai quante verruche abbiamo da curare tra noi e loro?! Ma ora conviene smorzare i toni. Dov’eravamo rimasti?
Nel cataclisma succeduto alla fine della seconda guerra mondiale si annidano i semi di una pianta velenosa e antica: l’inconciliabilità di fatti, opinioni, uomini e inclinazioni, tipiche del nostro modo di essere, fenomeno prettamente italico; è questo il periodo che Gianfranco de Turris indaga nella sua ultima fatica, recensita da Giovanni Sessa su Barbadillo: Dialoghi sgradevoli , Idrovolante edizioni.
I lemmi correlati al termine sgradevole, nel titolo, secondo l’Enciclopedia Treccani riportano: spiacevole, disgustoso, nauseabondo, nauseante, repellente, ributtante, ripugnante, rivoltante, schifoso, stomachevole, vomitevole. Mi fermo qui. Per chi ha avuto amici o parenti torturati o accoppati dalla polizia segreta fascista o dal terrorista rosso di Prima Linea i sinonimi valgono un niente. Sono state vendette, delitto e crimine e il crimine non ha sinonimi se non quello di tragedia incancellabile a futura memoria. In tutte le vicende succedute dal 1945 in poi non emerge alcuna volontà di ricordare per capire e per non ripetere la tragedia nazionale, non c’è stato, come dice Sergio Romano, alcun ravvedimento, alcuna necessità o volontà di dialogo o confronto chiarificatore, si è preferito emulare gli struzzi. il Male assoluto, cioè il Fascismo, aveva scelto noi, non il contrario, come alibi traballa non poco. Tutti assolti dunque, ma così si sconfessa la storia.

A crowd of people gathers at the Piazza Venezia in front of the Palazzo Venezia, the headquarters of Mussolini. The fascist prime minister Benito Mussolini stands on the balcony and gives a speech.); © SZ Photo / Scherl.
Come fai a rinnegare le immagini d’epoca di piazze strabocchevoli inneggianti al Duce? I fotomontaggi sono venuti dopo. Il libro di de Turris, appena uscito, parla di questi conflitti irrisolti, rovistando in armadi che custodiscono nomi, fatti, sconvenienze, interessi e voltafaccia. Dialoghi sgradevoli è assimilabile a una serrata partita di tennis condotta in forma di dialogo tra Simplicio e il ben informato e polemico Filarete, un volo d’uccello radente che rispolvera antichi e nuovi dilemmi politici, dissidi, faziosità incendiarie e contrasti irrisolti fino alle tragedie ricorrenti.
Consentimi una digressione personale. Avevo un amico, spirito bizzarro, provocatorio ma verace e sincero. Non nascondeva affatto le sue frequentazioni in ambiente nobiliare e monarchico e contestava, sarcastico, i compagni di classe, contestatori del ‘68. Viveva in una casa in collina nel torinese, in cui infissa al muro c’era una lapide, alla memoria di una partigiana, Eleonora Gazzignato che lui spolverava. Dall’animo socialista era convinto che capitalisti e imprenditori britannici dell ‘800-’900, se non avessero imposto turni inumani a giovani e donne, che per questo si ammalavano gravemente, Marx non avrebbe avuto quel successo che ha avuto. Il mio amico incarnava, senza saperlo, l’inconciliabilità dei fenomeni della storia, infatti teneva sul comodino Rivolta contro il mondo moderno di Julius. Evola, che consultava assiduamente e alcuni brani sottolineati di Gabriele D’annunzio, uno dei quali recitava: “Liberiamoci dell’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Separiamoci dall’Occidente degenerato, divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica”. Ma non divaghiamo. L’autore non risparmia nessuno e l’ultimo libro è una carrellata impietosa sul chi come dove e perché del dopoguerra, che pare non finisca mai. La sua narrazione non fa sconti e mette in luce anche il ruolo non secondario di una stampa a dir poco faziosa che si sente investita di Verità assoluta.
Alcuni stralci aiutano a capire il contenuto del volume:
Pag 107: “Filarete – Della guerra… Perduta, e non certo vinta come da decenni ci si vorrebbe far credere. Nonostante il cambiamento di campo dell’8 settembre – una resa incondizionata e non un vero armistizio – nonostante il Regno del Sud alleato degli angloamericani, nonostante il sacrificio di sangue dei militari del Sud aggregati alle armate alleate, non ci venne fatto alcuno sconto: sconfitti eravamo e sconfitti siamo rimasti, il Trattato di Pace di Parigi ci ha considerato tali privandoci delle colonie, di ampi lembi di territorio nazionale, condannandoci alle riparazioni di guerra, alla perdita della flotta. Ti sembra che siamo stati trattati da alleati-vincitori?”
Pag 122: “Filarete – Dunque, il 4 settembre 1993, in vista dei 50 anni del cosiddetto “armistizio” il generale Luigi Poli, presidente dell’Associazione nazionale combattenti della guerra di liberazione, e Giulio Cesco Baghino, presidente dell’Unione combattenti della RSI, inviarono un messaggio al capo dello Stato, il cattolicissimo Oscar Luigi Scalfaro, chiedendo di essere ricevuti “per simbolicamente dare il via alla pacificazione e parificazione fra tutti gli italiani che in quei tragici giorni impugnarono le armi per la Patria, a prescindere dalla parte in cui si schierarono”. Non se ne fece nulla di pubblico per gli strilli degli antifascisti in s.p.e. Ma i militari con le stellette e con il gladio, come li definì Poli, un atto di riconciliazione lo fecero lo stesso. Qualche coraggioso disse: “Un’Italia pacificata e parificata per la ricostruzione: a 50 anni dalla guerra civile, cessino le discriminazioni fra italiani, si ricrei la concordia nazionale, si mettano al bando i fomentatori di odio tra i figli di una stessa patria. La data dell’8 settembre può rappresentare l’occasione del riscatto della nazione se il presidente della Repubblica saprà dar seguito all’appello rivoltogli dal generale Poli e dall’on. Baghino a nome dei caduti e dei combattenti di 50 anni fa dell’una o dell’altra parte”.
Simplicio – Nobili e alate parole, ma senza seguito. Chi le pronunciò?
Filarete – Effettivamente senza seguito… È una dichiarazione all’Ansa di Gianfranco Fini, segretario del MSI.”
Se delitti e infamie politiche dell’Italia del Duecento e Trecento. così ben tratteggiate da Dante Alighieri, fra Guelfi e Ghibellini, fra bianchi e neri, fra papato e impero, e tra lega e impero, si fossero trasferiti paro paro, radicandosi nei nostri giorni, per scandire nuovi tragici contrasti, nuove contrapposizioni? Ovvero impedendoci di realizzare la parte migliore di noi, vietando di stimare e promuovere la nostra unicità, il valore e le virtù italiche? Se insomma quegli antichi dissidi si fossero trasformati in una cifra ontologica, in connotato ineliminabile, perdurante, descrivendo un’inclinazione tutta e solo italiana alla rissa, all’isteria, al sopruso, alla vendetta, all’incapacità di farsi vera nazione. -Sei di destra?- -NO,- -sei di sinistra?- -NO…sono “solo” italiano.-
Scritti come quelli di Sergio Romano e di Gianfranco de Turris e, in fin dei conti anche quelli degli studiosi inglesi, sono sale sulle piaghe ma anche stimolo per tentare una vera, definitiva riconciliazione patria e cercare una via d’uscita. Spetta alla nostra generazione farlo, prima che il velo d’ignavia e indifferenza scenda, irreparabile, ad annebbiare ancora di più quegli eventi.
c’era il guerriero immobile?
Dopo aver caricato su un carrettino prosciutto e formaggio acquistati dai contadini romani, una pattuglia tedesca lo blocca senza troppo riguardo (1943 o 1944). Infuriato, si mette a strillare, poi telefona al colonnello delle SS Eugen Dollmann, protestando. Verrà accompagnato a casa in auto con tante scuse, prosciutto e formaggio non gli verranno sequestrati.
Braccato dagli agenti della Military Police delle forze Alleate (6-7 giugno 1944) trascina per Roma una valigia di cartone piena di preziosi appunti e testi, riuscendo a sfuggire alla cattura. Spaventa Federico Fellini che lo va a trovare in incognito, (anni ‘60) raccontandogli del suo grave incidente mentre “trafficava con l’occulto.”
Né solo saggio, né racconto aneddotico e nemmeno esclusivamente cronaca. Di questi generi Un filosofo in guerra edito da Mursia ha ereditato e sintetizzato il meglio: avvincente, incalzante, a tratti un giallo poliziesco, dal ritmo sostenuto. Il “detective” Gianfranco de Turris racconta un brano della storia d’Italia, narrando con passione, puntiglio, dovizia di documenti, informazioni di prima mano e di autentiche scoperte. Il periodo: quello tra i più spinosi e controversi del nostro Paese. Dal ‘39 al ‘45, quando l’Italia cambiò volto.
Nel volume molte le cose di rilievo: gli incontri segreti, i depistaggi, i complotti e le misteriose scomparse di uomini e di casse con preziosi archivi ed elenchi di nomi (1945). Forse inabissati di proposito nel Garda, forse nei meandri del Vaticano, o magari stipati negli armadi del PCI. Al riguardo c’entra anche un sacerdote, che, innamoratosi di una bellissima donna, esponente del PCI, per lei lasciò la tonaca ma poi, pentito, abbandonò la femmina per chiudersi in un convento. Ma chi è il filosofo in guerra? Il barone “nero” Julius Evola, al cui proposito Aldo di Ricaldone sugli Annali del Monferrato scrisse: “Il barone Evola coi suoi testi sottolinea con una delle più brillanti sintesi della storia umana il crollo del mondo Tradizionale di fronte allo sguaiato, ipocrita materialismo a favore delle masse, con la decadenza della genuina cultura e dei valori ideali e spirituali.”
L’opera di Gianfranco de Turris qui si fa trama, vissuto speciale, avvincente racconto, sedimentato in una scrittura tesa e asciutta come ci ha abituato il suo stile. Un filosofo in Guerra fa pensare a quei giorni, alle sorti dell’Italia, a ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Costringe a riflettere, a confrontarsi e infine a prendere posizione, indirizzando l’attenzione anche verso scritti di altri autori come Finis Italiae, di Sergio Romano, ex ambasciatore, che parla del dopo disastro bellico. Questo è un altro pregio de Un filosofo in Guerra: sollecita interesse, invita ad approfondire e a interrogare altre fonti.
Il protagonista indiscusso dell’opera, pittore dadaista, filosofo, esoterista, orientalista, e, secondo molti, profeta, Julius Evola, alias Carlo de Bracorens ovvero un fantasma che si aggira ancora nei meandri della cultura italica (o nei suoi rimasugli.)
Un articolo di Luca Gallesi su Barbadillo precisa i contorni dell’opera accennando anche a qualcuno che di recente, turbato all’udire ancora il nome Evola, ha gridato allo scandalo e alla vergogna.
Nel libro: numerosi gli incontri del barone, fra questi quello con Mussolini, subito dopo la sua liberazione, nel Quartier Generale di Rastenburg (20 luglio 1944); scriverà al proposito Evola: «Aveva ancora indosso gli abiti borghesi sgualciti che portava al momento della sua liberazione al Gran Sasso: ricordo le scarpe pesanti e sporche e una cravatta tutta attorcigliata. Aveva una certa speciale luce, un’esaltazione febbrile negli occhi».
Mussolini salvato e subito ricattato da Hitler “marrano con lo scettro di pagliaccio feroce” secondo la definizione di Gabriele D’annunzio.
Scrive de Turris: “Questo testo mi ha dato l’impressione di essere una specie di “fabbrica di San Pietro” mai conclusa: specie nell’ultimo periodo, sino alla vigilia della consegna all’editore, è stato riletto più volte con continui ripensamenti, correzioni, tagli e aggiunte, ritocchi, controlli di molti particolari in origine solo accennati e dati per scontati, tentativi di essere sempre più chiaro ed esatto per evitare equivoci e fraintendimenti altrui (anche voluti…), convinto che la precisione dei riferimenti e anche di singole parole in questi casi sia fondamentale. Se alla fine ci sia riuscito lo decideranno i lettori.” E più avanti: “Non avevo ancora capito la lezione della…Storia, di quanto sempre si nasconde nelle sue complicate pieghe! Incredibilmente, infatti, lo sottolineo ancora, notizie, testimonianze, informazioni, documenti e libri prima non noti sono continuati a balzare fuori nei modi più inaspettati e anche curiosi, addirittura casuali. Ed è quindi da supporre che continueranno a farlo, come se, ancora oggi nella vita di Julius Evola ci sia sempre da scoprire qualcosa, tanto è stata complessa e avventurosa su tutti i piani.”
Ignoriamo se de Turris sia consapevole di aver rivoluzionato il modo di fare saggistica: aggiungendo cioè al piede di ogni capitolo una formidabile messe di note, riferimenti, rimandi a libri e a documenti, spesso di lunghezza equivalente al capitolo stesso.
Quello di cui non siamo affatto sicuri è che alla quarta edizione (tradotta per gli Stati Uniti e la Russia) riveduta e ampliata con documenti e immagini non se ne aggiungano altre. Il «guerriero immobile», come lo ha definito un suo biografo francese potrebbe riservarci ancora molte altre sorprese…dall’al di là.
Dalla quarta di copertina del libro: “Una trama che non ha niente da invidiare a una spy story, tra servizi segreti, false identità, attività e viaggi misteriosi, ferite del corpo e dell’anima.Tra l’agosto 1943 e la fine della guerra, Julius Evola si muove in un’Europa al collasso: da Berlino al Quartier Generale di Hitler, poi a Roma, come agente dietro le linee; dopo l’arrivo degli americani è a Verona e quindi a Vienna dove, sotto falso nome, studia archivi massonici e viene ferito durante un bombardamento nel gennaio 1945, restando paralizzato.”
Nelle immagini: Mussolini a Rastenburg, nel Quartier Generale di Hitler, Julius Evola e Gianfranco de Turris a colloquio.
c’era il Barone immaginario? (1)

Possibile che non ci sia un filo di retorica, di nostalgia, o magari di apologia? Nulla di tutto questo. E perché? Perché IL BARONE IMMAGINARIO, a cura di Gianfranco De Turris, edito da MURSIA, ha centrato l’obiettivo, andando ben oltre le aspettative, trattandosi di opera viva, attuale, originale, e di insospettata suggestione. La sua lettura risulta godibilissima, anche per chi non conosce il personaggio al quale i brevi racconti si ispirano. Il suo protagonista anima un mosaico vivace, fatto di avventure, situazioni, luoghi fantastici e non; un’impresa non da poco e di gran presa su chi legge. Il protagonista: Julius Evola, catapultato in vicende fantastiche, surreali, mistiche, improbabili o realistiche, mai comunque banali. 18 racconti ispirati alla sua figura che fanno rivivere uno dei piú straordinari, meno noti e dibattuti filosofi del nostro recente passato. Del passato europeo intendo, non solo dell’Italia.

Esponente di spicco del dadaismo in Italia, se fosse nato in Francia non si sarebbe esitato a dedicargli monumenti e intitolargli biblioteche, vie e piazze. In Italia occorre aspettare che la cultura “ufficiale” decida cosa fare di un personaggio, diciamo così, scomodo e ” contro”, che aveva legami col fascismo e il nazismo, anche se ne criticava aspramente certi aspetti. Non per niente la Gestapo aveva aperto un fascicolo su di lui e una guardia del corpo lo proteggeva per le critiche avanzate verso gli squadristi. Bisogna insomma che l’intellighenzia culturale italiana vigente (sempre se ne esiste una) sdogani personaggi di quel calibro, al punto che, tanto per dirtene una, Umberto Eco, uno dei nostri recenti maître à penser non perdeva occasione per denigrare Julius Evola e la sua opera, al salone del libro di Francoforte.
L’aletta di copertina del volume di MURSIA dice: Diciassette scrittori contemporanei oltre a Volt, il conte futurista, hanno raccolto la “provocazione” di Gianfranco De Turris e si sono misurati con il Barone, immaginandone incontri, avventure, amanti, indagini, pensieri, battaglie. Un’impresa non da poco, considerato lo spessore del personaggio, le sue tesi rivoluzionarie, maturate su antichi testi, l’osservazione del reale attuale e i suoi rapporti “imperdonabili”. Anche Mister Bannon, l’ex guru di Donald Trump, che lo ha successivamente silurato e poi, pare, recentemente riabilitato, cita Evola, questo la dice lunga sull’influenza e la fama del filosofo romano, anche in America, al punto che un articolo del New York Times ne parla. Mi rimane il dubbio se Steve Bannon e Jason Horowitz , estensore dell’articolo, conoscano a fondo il pensiero evoliano.
Gli autori: Bernardi Guardi, Bizzarri, Cimmino, de Angelis, Farneti, Frau, Gobbo, Grandi, Henriet, Leoni, Monti-Buzzetti, Passaro, Rossi, Rulli, Scarabelli, Tentori, Triggiani, Volt. Qui di seguito, suddivisi in tre post susseguenti, i loro racconti:
LE PAROLE CHE UCCIDONO, Scritto dal conte Vincenzo Fani Ciotti alias Volt futurista, il racconto apre l’antologia dei diciotto, presentati da Gianfranco de Turris ne Il Barone Immmaginario per Ugo Mursia. Personaggi e interpreti: Arnaldaz alias Arnaldo Ginna, ovvero Arnaldo Ginanni Corradini, Ettore Biunfo, bizzarra cavia calabrese, De Pero, Balla, Evola, la presenza invasiva dell’opera di Marinetti mentre si recita la sua Maria futurista, in una Roma sorniona e proiettata verso l’avvenire. Il milieu occulto del futurismo romano è il vero protagonista del racconto, fra scherzi, lazzi e scenate semiserie si parla di energia astrale, di Scienza dell’Avvenire, di pazzia che sarebbe genialità rientrata, di Genio e pazzia che rampollano da una medesima fonte, mentre Evola spiega a Balla il funzionamento del suo complesso plastico meccanico intitolato Siluro in azione.

Sembra che i protagonisti siano quattro amici al bar e invece sono l’avanguardia dei movimenti dadaisti e futuristi italiani. La Roma futurista va a mille in questo divertente racconto in cui si bighellona al Pincio per finire nello scantinato di Balla dove De Pero porta in braccio la sua marionetta, ovvero la ballerina gravida. Fra piazza di Spagna e il Pincio mentre arriva di gran carriera il camion dei pompieri per spegnere un incendio inesistente nel negozio di un ottico. Qualcuno aveva gridato al fuoco! ma per scherzo.
IL DRAGO ETERNO di Adriano Monti-Buzzetti è il secondo racconto del libro. Herman Hesse, un saggio tibetano dagli straordinari poteri e un giovane Evola che bussa e ribussa al portone di una strana casa del Canton Ticino, alla ricerca spasmodica di verità urgenti su se stesso e sul mondo. “Il cielo era cremisi e un’immensa luna color sangue incombeva sul pianoro. Incitate dagli sproni del cavaliere in armatura, le zampe del palafreno aggredivano senza suono il terreno arido e frastagliato da crepe infinite….Infine, anche in quell’eterno presente qualcosa cambiò.

Il cupo monte dispiegò le sue ali e fu un drago….”Il tuo drago” spiegherà il saggio tibetano, dopo la tenzone, al giovane Evola incredulo, “era reale, in effetti, ma su un diverso piano dell’esistere…Ogni battaglia del Cavaliere col Drago è l’immagine eterna di una lotta interiore per superare la parte oscura di noi stessi…Eppure a modo suo egli è uno sciamano” concluderà il lama riferendosi a Evola, ormai congedatosi, … e credo che la vostra strana cultura oggi, abbia bisogno di tutti gli sciamani che può trovare.” disse il lama all’indirizzo di Herman Hesse.
LA MALEDIZIONE DI PALAZZO CHIGI di Max Gobbo. C’è Mussolini nella Sala della Vittoria che sta chiedendo a Evola: “Qual’è la sua opinione sul sovrannaturale?” Il Duce, impensierito da alcuni inquietanti fenomeni, si sente spiato e non sa spiegarsi l’origine di certi rumori e di alcune cose trovate fuori posto e poi della sua Alfa Romeo che fa bizze davvero incomprensibili, senza parlare di un pugnale che va a conficcarsi nello schienale della poltrona del Duce. Illusionismo?

cospirazione? azione di campi magnetici? forze occulte invisibili? Oppure potrebbe essere Aleister Crowley il mandante? e il suo “sicario” un sarcofago egizio, dono di una delegazione straniera malintenzionata.
Un sarcofago gravato da una maledizione. Nel racconto si legge: “La scrittrice Sarfatti scrive che Mussolini, venuto a conoscenza della morte prematura di Lord Carnarvon, scopritore della tomba di Tutankhamon, ordinò che il sarcofago avuto in dono, venisse rimosso da Palazzo Chigi e trasferito d’urgenza in uno dei musei etnografici della capitale.
MURSIA
gli uomini erano dei?
Julius Evola mina alle fondamenta l’impalcatura della cultura sociopolitica occidentale degli ultimi duemilacinquecento anni e poi fa esplodere le cariche. Un paesaggio nuovo, esaltante, angoscioso, prende allora a delinearsi sulle macerie della nostra civiltà. Il mondo della Tradizione coi suoi riti, con le gerarchie, con l’impronta inconfondibile di un’ispirazione spirituale superiore. Evola si rifà alle età di Esiodo. Esiodo: dall’età dell’oro all’età del ferro. Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo; come dei vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro terre.

Esiodo (VIII secolo a.C.) e le cinque età del mondo
Esiodo, poeta greco, probabile contemporaneo di Omero. Interessante vedere che in “Le opere e i Giorni” ci parla delle cinque età del mondo:
– età dell’Oro: gli uomini vivevano “sempre giovani” e non avevano preoccupazioni di alcun tipo. Siamo ai tempi di Crono;
– età dell’Argento: gli uomini sono governati da Zeus. Per il loro comportamento si estinsero;
– età del Bronzo: è il mondo di uomini violenti che si dedicavano solo alla guerra e si estinsero per la loro stessa stupidità;
– età degli Eroi: è l’età in cui gli Eroi combatterono a Troia e a Tebe;
– età del Ferro: è l’età del mondo di Esiodo ed anche la nostra, e finirà anch’essa, come le precedenti.
Ancora una volta un “antico” ci parla di età del mondo e di come queste si sono susseguite nel tempo… ci parla di guerre e di estinzioni di massa…
Ci parla di un passato remoto e ancora per la gran parte sconosciuto…
Le parole chiave per accedere alle tesi di Evola riguardano la sacralità, il sacerdozio, il culto dei morti, il rito, la gerarchia, gli uomini dei e la regalità dei veri capi, Dio, anche se tale parola ha scarsa corrispondenza col mondo attuale della religione. Evola scrive di qualcosa che trascende la contingenza, immanente, meraviglioso e luminoso e al contempo temibile. Egli rintraccia nelle antiche scritture provenienti dall’India, Grecia, Europa e Sudamerica la presenza di una forza nuda e non condizionabile; non una persona, non un essere, non di deus ma di numen, si tratta. I valori sono quelli delle civiltà scomparse e di antichissime società, (si parla di seicento – ottocento anni avanti Cristo); già allora, scrive Evola, inizia il processo di degenerescenza (dall’età dell’oro all’età del ferro.) Mondi scomparsi fra le pieghe della Storia ispirati ai valori della Tradizione, strutturati in società gerarchicamente organizzate attorno al capo, all’imperatore, al re-sacerdote.
Genuinamente e radicalmente antidemocratico e anticapitalista, Evola sostiene che il potere non deve e non può essere né legalizzato né voluto dal basso. Occorre che sia ispirato dall’alto, dal regno della forza trascendente, attingendo in quel sopramondo invisibile, in cui scaturisce l’energia, in cui la pura divinità risiede. A pagina 102 de RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO, si legge:
All’origine di ogni vera civiltà sta un fatto divino. Ad un fatto dello stesso ordine, ma in senso opposto, degenerescente, si deve l’alternarsi e il tramontare delle civiltà. Quando una razza ha perduto il contatto con ciò che solo ha e può fornire stabilità – col mondo dell’essere-; quando in essa è decaduto anche quel che ne è l’elemento più sottile ma, in pari tempo più essenziale, cioè la razza interiore, la razza dello spirito, di fronte alla quale la razza del corpo e dell’anima sono solo manifestazioni e mezzi di espressione- gli organismi collettivi che essa ha formato, ….scendono fatalmente nel mondo della contingenza: sono alla mercé dell’irrazionale, del mutevole, dello storico, di ciò che riceve dal basso e dall’esterno le sue condizioni.

A proposito dell’impero a pagina 121 riporto: Di quelle grandi potenze, sorte dall’ipertrofia del nazionalismo secondo una barbarica volontà di potenza di tipo militaristico o economico a cui si è continuato a dare il nome di imperi- vale appena parlare. Sia ripetuto che un Impero è tale solo in virtù di valori superiori ai quali una determinata razza si è innalzata.
Nei riguardi del lavoro moderno, a pagina 153: Nessuna civiltà tradizionale vide mai masse così grandi condannate ad un lavoro buio, disanimato, automatico…. nelle masse degli schiavi moderni le forze oscure della sovversione mondiale hanno trovato un facile, ottuso strumento pel perseguimento dei loro scopi. Nei campi di lavoro noi vediamo usato metodicamente, satanicamente l’asservimento fisico e morale dell’uomo ai fini di una collettivizzazione e dello sradicamento di ogni valore della personalità…
A proposito della guerra, a pagina 172: Che milioni e milioni di uomini, strappati in massa ad occupazioni e vocazioni del tutto estranee a quella del guerriero, fatti letteralmente, come si dice nel gergo tecnico militare, materiale umano, muoiano in simili vicende-questa sì che è cosa santa e degna del punto attuale del progresso della civiltà…
Sull’America, a pagina 391: L’America ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione industriale, alla realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico-collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità……
mentre a pagina 395 continua: Lo standard morale corrisponde a quello pratico dell’americano. Il comfort alla portata di tutti e la superproduzione nella civiltà dei consumi che caratterizzano l’America sono stati pagati col prezzo di milioni di uomini ridotti all’automatismo nel lavoro, formati secondo una specializzazione a oltranza che restringe il campo mentale ed ottunde ogni sensibilità. Al luogo del tipo dell’antico artigiano, pel quale ogni mestiere era un’arte ….si ha un’orda di paria che assiste stupidamente dei meccanismi…..Qui Stalin e Ford si danno la mano e, naturalmente, si stabilisce un circolo: la standardizzazione inerente ad ogni prodotto meccanico e quantitativo determina e impone la standardizzazione di chi lo consuma, l’uniformità dei gusti…E tutto in America concorre a questo scopo: conformismo nei termini di un matter-of-fact, likemindedness, è la parola d’ordine, su tutti i piani…..
E ancora a pagina 398 leggo: E anche se non dovesse verificarsi la catastrofe temuta da alcuni in relazione all’uso delle armi atomiche, al compiersi di tale destino tutta questa civiltà di titani, di metropoli d’acciaio, di cristallo e di cemento, di masse pullulanti, di algebre e macchine incatenanti le forze della materia, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo che oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non vi è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua stessa caduta.
L’imbarazzo nella scelta di brani che mi hanno particolarmente colpito è grande, avrei voluto inserire altre decine di passaggi significativi, ma tanto vale consigliare l’acquisto di questo libro indigesto e illuminante.

Voglio gettare, per concludere, un sasso nello stagno asfittico della cultura italica contemporanea. La figura di Evola non deve più appartenere a schieramenti ideologici o a fazioni politiche. La profondità e complessità del suo pensiero, l’onestà intellettuale dello studioso, l’originalità delle sue tesi rivoluzionarie impongono che la sua opera così articolata e, per certi versi, ascetica, divenga materiale di dibattito e di ricerca, uscendo dalle secche di interpretazioni univoche o partigiane. Julius Evola, l’anti D’Annunzio appartiene alla cultura europea; ed è al centro dell’Europa che deve tornare, a rianimare un dibattito sui valori e sulle prospettive della nostra civiltà (se prospettive rimangono). Sarebbe, fra le altre cose, una bella dimostrazione di forza e saldezza dei nostri sistemi democratici, da lui così tanto osteggiati.






