“Com’era nel primo Ottocento la metropoli che ha fagocitato il mondo?!” Dovresti scorrere le pagine di un libriccino introvabile per saperlo: “Viaggio a Londra di anonimo.” pubblicato da Il Polifilo. Annotava Lorenzo Ferrara.“Alzi la mano chi non conosce l’“officina delmondo”. Scrive. “E chi non è stato colpito dalla mescolanza di razze, tradizioni, stili e costumi provenienti da ogni dove. Vivendoci da tanti anni Londinium non finisce di stupire. Secondario l’abbigliamento bizzarro, esibizionista o provocante, dark o heavy metal, c’è chi si acconcia come per impersonare Mohicani, Marziani, pagliacci o il Nulla.”
Per amore o per convenienza: “Da Londra è partita una colonizzazione “culturale” globale senza precedenti. La sua cifra identificativa nel mondo: l’accoglienza e la promozione delle diversità, che assomigliano piuttosto a un diktat auto imposto, ovvero va bene qualsiasi stile di vita, per necessità, convenienza o manifesto opportunismo, perché gli affari lo impongono. Londra è la vera Babele dei tempi moderni.” Era il 1834, e c’è da crederlo.
Ho deciso di utilizzare uno scambio di vedute vivaci tra un “uomo moderno” e me che si trascina da molto sulla diversità degli umani e sulle razze. Unica premessa: baso le mie idee su fatti riscontrabili, incontri in prima persona che nel tempo, stratificandosi, si sono fatti convinzione e su ciò che sostengono studi scientifici, storici e antropologici vecchi e recenti non sprprio concordanti. Le sue affermazioni contestano le mie e sono certo che egli vorrà spiegare ciò che, talvolta con foga, egli sostiene a spada tratta. In questi casi spesso ci si accalora solo per spirito di polemica. Cosa sostiene l’uomo moderno?
Egli sostiene l’uguaglianza fra le razze umane (e sin qui non ci piove), ma poi va oltre dicendo che esiste una sola razza, quella appunto umana. Che tutti gli uomini sono identici e che la loro apparente diversità è dovuta al 90% a fattori esterni, all’educazione e alle condizioni dell’ambiente. Ma a te sembra plausibile? Le opportunità offerte a ciascuno sarebbero determinanti. Sostiene che l’intelligenza è omogenea, nel senso di uguale per tutti gli esseri (?!) e che, obbedendo al concetto onnicomprensivo di uguaglianza non esiste il tonto o il dotato naturalmente, come natura decreta, il geniale o il meno adatto ad apprendere la fisica delle particelle e che la sua fatica a capire è esclusivamente o prevalentemente condizionata da fattori socio ambientali, salvo quel dieci per cento di cui parla, e che non so a cosa si riferisce, è anche convinto che non esistono propensioni per materie, soggetti di studio, (i test attitudinali per lui non esistono) che indifferentemente possiamo diventare tutto ciò che desideriamo, se fossimo stati sollecitati in modo appropriato. Indica insomma nelle condizioni ambientali e nelle opportunità della società gli unici fattori di condizionamento e crescita dell’individuo causa delle disuguaglianze, che stando a quello che lui sostiene tutti potremmo essere, (ma il fattore genetico ereditario che fine ha fatto?). Einstein o il più esperto cuoco della storia.
Arriva a dire che il ruolo di Marlon Brando nel Giulio Cesare di Mankiewitz potrebbe essere impersonato con uguale veemenza daI primo che passa per strada se solo questi avesse frequentato l’Actor Studio. Ovvero se fosse, come dice lui, io avrei potuto essere come il grande Totò, o Lawrence Olivier nei panni dell’Amleto. Anche il postino o lo spazzino avrebbero potuto interpretare il comandante del Bounty, tanto per capirci, con tutto il rispetto per loro. Tali sono perché non è stato loro offerta sufficienti opportunità. In ultima analisi egli sostiene che siamo tutti uguali e che non esistono esseri più o meno dotati di intelligenza, che non ci sono differenze fra individuo e individuo e che, se ci sono come davvero appare, esse non sono biologiche, ereditarie, intellettive, e che tutti apparteniamo a un’unica razza, quella umana. L’insalata è servita. In poche parole, come dicevano i vetero comunisti un tempo, siamo tutti uguali al punto che, per rispettare questo assioma non esiste più il singolo uomo pensante ma il pensiero collettivo unico, in sostituzione dell’uomo autentico e pensante ecco l’uomo massificato e collettivizzato che non DEVE pensare in autonomia, se no il Comunismo si squaglia, come in effetti si è squagliato. Qualcosa che la loro fallita rivoluzione voleva dimostrare. Ma l’evidenza di queste aberrazioni ha poi detto il contrario, inevitabile. Ricordo confusamente che l’amico Aldo conte di Ricaldone un tempo mi disse che proprio i comunisti russi nella convinzione genuina che tutti gli uomini fossero uguali avevano ideato un esperimento “scolastico” per dimostrare il loro assioma, esperimento fallito miseramente com’era logico prevedere. Perché? Perché nessuno è uguale a un altro, nemmeno se piovessero elefanti. Ora, cosa rispondo io, inorridito, dalle affermazioni di costui? Che non esiste un essere, dico uno (nemmeno fra i gemelli) che possa dirsi uguale ad un altro, forse simili, forse… Che esistono le differenze, causate dall’ambiente e che sono importanti, ma non le uniche e non assolutamente ed esclusivamente determinanti. Che esistono vari gradi di intelligenza, innata, ereditata, che poco hanno a che fare con i condizionamenti dell’ambiente. Che le razze (vorrei sapere chi reputa insultante o avvilente dire che le razze sono diverse una dall’altra, non inferiori, ma diverse! Per attitudine, cultura e tradizioni. Ci andrei molto cauto nel dire che esiste una sola razza, frutto di una insostenibile e fumosa convinzione astratta, visto anche che neri, indiani, pellerossa e sudamericani potrebbero sentirsi (e a ragione) offesi dall’essere equiparati ai bianchi, considerati soprattutto i soprusi e le turpitudini che questi hanno perpetrato fino a ieri nei loro confronti. Ma non divaghiamo.
Non so se siete stati in mezzo ai Turkana o ai Dinka o ai guerrieri Shilluk, come ho fatto io con Paolo Novaresio, (viaggio un po’ diverso dal recarsi a Rimini) o ai pastori afghani o fra i cammellieri di Goulimine, tanto per capirci. Io non mi sento per niente uguale a loro e loro non si sentono uguali a me. Per tradizione, inclinazione, ereditarietà, cultura, condizioni ambientali, sociali e indole. Perché dunque ridurre tutto a un unico broccolo senza sapore di diversità, cos’è che dobbiamo dimostrare o difendere o sostenere? Ci hai mai pensato che dicendo che siamo tutti uguali, che l’intelligenza è uguale per ogni uomo e che esiste solo una razza, milioni di persone potrebbero risentirsi. Meglio? Peggio? Tonto? Genio? Fanno parte del concetto di diversità sancito da evidenze quotidiane e verificabili in ogni momento. Non indifferenziazione fra le razze ma la loro diversità intesa come bene prezioso, come frutto di complessi processi storici e bio evolutivi, escludendo una volta per tutte il concetto nefasto di superiorità di una razza sull’altra, che porta come è accaduto per secoli, allo sfruttamento di beni, genti e territori da parte di chi si sente superiore e oggi invoca democrazia. Al contrario di quanto sostiene l’uomo moderno io affermo che ogni uomo ha le sue inclinazioni, propensioni, preferenze. Non esiste un essere uguale all’altro, che la matematica mi fa venire l’orticaria, perché mi costringe a essere quello che non sarò mai: logico, eppure astratto, e non è certo colpa di traumi infantili o dell’educazione se non so fare due o più due ma di una naturale, profonda, innata avversione per cifre ed equazioni, amando io esclusivamente le lettere. Sostenere che ogni uomo è assolutamente uguale all’altro è un affronto alla sua stessa essenza di uomo, un non senso, in quanto psiche, fisico, spirito, che si basa su fattori ereditari, attitudini, caratteristiche e propensioni a varia intensità, introiettati nel corso dei millenni nello spirito e nel corpo di ogni razza. Non ammetterlo è come dire che la luna è uguale a Saturno è che Saturno è uguale a Giove. Che non occorre scomodare Julius Evola e quello che scrive il filosofo sulla razza. Dico semplicemente, documenti se richiesti alla mano, è un errore scientifico, storico e antropologico sostenere l’uguaglianza fra gli uomini. Se l’uguaglianza deve e può esserci va solo letta e sostenuta nella diversità. Che tutti, quello certo che va sostenuto con forza, devono godere di stessa dignità, di rispetto e attenzione in quanto esseri umani. Tutti uguali? Certamente, ma solo nel rispetto della diversità degli esseri. E se proprio devo dirla tutta: io non mi sento affatto superiore a chi ho visto scaricare balle di cento chili di alghe secche sulla spiaggia di Bali, ma solo diverso e che nel sentirmi diverso non è affatto implicito il concetto di superiore a quei nerboruti facchini fatti d’acciaio. Così come una pescatrice di perle non è affatto simile a una manager della City, ma solo diversa, non migliore o superiore…Il concetto di diversità nell’uguaglianza e nel rispetto della dignità degli esseri a me pare cosa ovvia, così come sono ovvie le differenze psicologiche e attitudinali, indole, inclinazioni, le quali esistono da sempre e fanno dell’umanità un affascinante mosaico, incredibilmente variegato perché non uguale a se stesso. Una materia umana scolpita dal tempo, l’ambiente, il clima, le abitudini…Ma se l’uomo moderno sostiene ancora l’insostenibile non dimostrabile, basato su una uguaglianza astratta e fumosa fra gli uomini e per il timore (lecito) che avvengano ancora soprusi di una razza sull’altra io lo invito a spiegarsi meglio, lui, o i suoi amici, colleghi, datori di lavoro o altri. Do il benvenuto a chi volesse confrontarsi su questo tema. La biodiversità anche umana, ovviamente, è la cifra saliente che natura, evoluzione, lotta per la sopravvivenza e condizioni ambientali che hanno decretato per ognuno di noi. Temere l’evidenza di riscontrabili diversità e attitudini NON LEGATE solo alle condizioni socio ambientali non porta a nulla, anzi confonde le idee. Evviva dunque le diversità, patrimonio inalienabile delle razze umane e non, vero autentico sale della terra (retorica a parte).
Nostra sorella Wikipedia riporta sull’intelligenza: “Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), alcuni identificano l’intelligenza (in questo caso l’intelligenza pratica) come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti; nel caso dell’uomo e degli animali, l’intelligenza pare inoltre identificabile anche come il complesso di tutte quelle facoltà di tipo cognitivo o emotivo che concorrono o concorrerebbero a tale capacità. Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.“
E sulla razza: “Nel linguaggio comune, la razza identifica l’appartenenza degli esseri umani a determinati raggruppamenti in base ai loro tratti fisici, alla discendenza, alla genetica, o alle relazioni tra tali caratteristiche. È comunemente accettato che le categorie razziali siano dei costrutti sociali di uso comune pur non risultando concettualmente corrette e che dunque i gruppi razziali non possano essere definiti biologicamente. Alcuni studiosi suggeriscono che le categorie razziali possano essere comunque collegate ai tratti biologici (fenotipi) e a certi marcatori genetici che si trovano con una certa frequenza in talune popolazioni umane, alcuni dei quali corrispondono più o meno a gruppi razziali, ma sotto tale aspetto non vi è consenso universale sull’uso e la validità delle categorie razziali.“
Mia la foto del signore con la lancia in mano, scattata in Sudan.
C’è chi lo chiama affettuosamente Gran Vecchio o fratello maggiore, chi Maestro, mecenate e guida, altri ancora ispiratore e mentore, ma in primis, per tutti è l’Amico. Personaggio (quasi) mitico, ecco un (altro) libro che lo riguarda. Considerazione, gratitudine, commozione e affetto per un giovanotto di 80 anni traspaiono dalle pagine. Il tutto si ridurrebbe a peana di consenso un poco stucchevole verso l’uomo e il suo lavoro di una vita che sconfinerebbe nella celebrazione. Il soggetto, indovino che rifiuterebbe tale cornice. Gli apprezzamenti riuscirebbero indigesti anche al festeggiato -tuttora attivissimo e impegnato culturalmente in nuovi progetti.- Il volume, invece, è sorprendentemente ricco, vivace e di facile lettura e sa svincolarsi dall’aspetto privato e di encomio. Sa insomma farsi racconto. Spaccato culturale della vita di destra, per molti versi ignoto, degli ultimi 50 anni. Il volume in questione pubblicato da Oaks edizioni costituisce una miniera di informazioni, molte delle quali di prima mano. Aneddoti, amarcord, riferimenti a opere, citazioni ti fanno capire quanto vivace e attivo sia stato ed è tuttora il macrocosmo di destra dagli anni ‘50 ad oggi. E su quanti uomini di valore abbia potuto contare quella cultura; ancora oggi demonizzata dai brandelli marxisti leninisti (chi scrive ricorda le “occupazioni rosse” degli anni ‘70 delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo a Torino). Volume denso di citazioni, riferimenti a opere, personaggi, filosofie, convegni, forum, mostre come quella recente, sui dipinti di Evola. Gli argomenti: da Julius Evola “all’imbecille” D’Annunzio, dai Manga a Tolkien, da Lovecraft alla passione politica, e poi la miriade di riviste e pubblicazioni cult, la Storia ucronica e la magia. La cura maniacale del dettaglio, l’attenzione scrupolosa di citazioni e riferimenti a garanzia di esattezza filologica e semantica sono una delle cifre distintive del lavoro di GdT, (il baffuto individuo col sigaro della copertina). Un’esistenza diversa da quella che conduce, un’esistenza ucronica, ad esempio, per lui non avrebbe alcun senso avendo egli perseguito tutto ciò che animo, cultura e sensibilità gli suggeriscono. In Fisica Quantistica si è soliti affermare che tutto ciò che potrebbe accadere, sicuramente accadrà. Il giovanotto di 80 anni sembra rappresentare tale assioma.
Difficile la spigolatura del testo che si legge tutto d’un fiato, come se fosse l’avventura galoppante dello spirito ribelle; si desidererebbe ancora più dettaglio. Ho dovuto scegliere solo alcuni brani per ragioni di spazio, ma tutti gli interventi meriterebbero citazione.
Dall’introduzione: “è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Il volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e quindi da Luca Gallesi che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di una «festa a lungo attesa» in una controstoria della cultura italiana.”
“In tempi non sospetti, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco ci hanno detto che i capolavori del Fantastico non hanno nulla da invidiare ai grandi classici della letteratura convenzionale e, pertanto, come tali devono essere trattati.” Giuseppe Aguanno
“GdT ha continuato e continua nella sua opera di divulgazione, instancabile facitore di conoscenza in un mondo di ignoranti, con la consueta curiosità unita all’umiltà propria delle Grandi anime… i primi ottant’anni spesi bene, sono certo che i successivi saranno spesi benissimo!Mario Bortoluzzi
“Non esistono molte persone capaci di ragionare di questi tempi. Qualcuna l’ho incontrata. Gianfranco de Turris è una di loro.” Alessandro Bottero
“Tra mille incontri e telefonate ha sempre manifestato l’entusiasmo e la pazienza, l’attenzione, la fiducia e la complicità, nei tratti distintivi di un padre.” Giorgio Calcara
“Amico di una vita, grazie per essere stato un così prezioso compagno di strada …mi auguro di poter, ancora insieme, percorrere molte miglia sul sentiero affascinante della conoscenza, scrivendo e pubblicando tante pagine che nutrono l’anima.” Giovanni Canonico
“il rischio di cascare a piedi uniti nella celebrazione è seriamente tangibile. Non lo farò: in troppi siamo debitori a GdT, a vario titolo …non nutro sensi di colpa, ma, semmai, un’immensa gratitudine per il mio intrattabile mentore.” Marco Cimmino
“Gianfranco, l’augurio migliore che posso farti per il tuo compleanno è che tu possa continuare ancora per molto tempo a donarci l’irrazionale, linfa insostituibile per lo spirito e per il cuore, per sognare e per costruire mondi.” Alessandra Colla
“Merito di Gianfranco de Turris è il recupero di un patrimonio spirituale e culturale enorme. Ma aggiungerei anche l’aver saputo vedere l’interesse duraturo di un insieme di opere, scritti e forme speculative che hanno dato consistenza a un aspetto della cultura italiana troppo spesso ignorato anche dai più attenti ricercatori.” Nuccio D’Anna
“Può essere orgoglioso di ciò che ha raggiunto – e di ciò che raggiungerà ancora, ne sono certo, perché si può avere ottant’anni ed essere più creativi che mai! Ad multos annos, caro Gianfranco! Alain de Benoist (Traduzione di Andrea Scarabelli)
“Navigatore ardito, avventuroso come gli eroi mitici che, al seguito di Giasone, parteciparono al viaggio dalla Grecia alla Colchide per la conquista del Vello d’Oro: Gianfranco de Turris è l’archetipo dell’argonauta, per il rigore intellettuale e il coraggio nel difendere le idee scomode in nome di una visione del mondo senza tempo.” Michele De Feudis
“Che piacere riabbracciarci, io e Gianfranco, due vecchi dinosauri sopravvissuti al fatale meteorite dell’esistere, lui sordastro, io quasi, entrambi con la barba bianca, entrambi con mezzo sigaro trale labbra.” Luigi De Pascalis
“L’ARGONAUTA: Quattordici anni di vita, 468 puntate, oltre 2500 interviste!…Uomo estremamente generoso, uno dei pochi “maestri” incontrati nella mia vita; il maestro che stimola, sprona, forma e soprattutto insegna, o sarebbe meglio dire consegna l’esperienza e il sapere ai suoi allievi.” Roberta Di Casimirro
“La sua identità è scivolosa; sì, proprio come la forza da cui molte esistenze sono di fatto animate; quella che proviene dal centro di tutto; dal fondo incondizionato che, del mondo, ci costringe a riconoscere la radicale inesistenza; senza invitarci a procedere al di là di esso, verso un mondo che non c’è.” Massimo Donà
“In tanti anni, non l’ho mai visto scendere a un compromesso, mai venir meno a un impegno preso, mai commettere un atto d’ingenerosità, mai deflettere da quello che considerava il giusto cammino. Da ragazzo io ero un po’, diciamo così, scapestrato. Mia madre, che l’aveva conosciuto praticamente quando l’avevo conosciuto io, per cercare di temperarmi mi diceva sempre: «Ma lo vedi Gianfranco? Non puoi prendere esempio da lui?» Sebastiano Fusco
“Riscrivere, correggere, correggere ancora: non è proprio per tutti. Ad alcuni potrebbe addirittura parere, talvolta, di aver a che fare con un nume corrucciato, mai soddisfatto e intento a evidenziare il proverbiale pelo nell’uovo. Ma è apparenza, che vela invece l’amore per gli scritti chiari, ben ponderati.” Andrea Gualchierotti
“È stato, l’avanguardia, o l’araldo di uno scontro tra diverse visioni dell’uomo e della sua storia che è, oggi, sempre più drammaticamente in corso.” Andrea Marcigliano
“Lei è l’emblema dell’onestà intellettuale, dell’aulicità priva di affettazioni e dello spirito di abnegazione necessari a chi è costantemente impegnato nella ricerca della verità…In Russia il Suo nome è molto conosciuto e stimato.” Dmitry Moiseev
“De Turris ha passato al setaccio tutto della modernità: indizi, simboli, presagi, analizzato l’Utopia e le ideologie del Novecento, la tecnica e internet, la letteratura fantasy e il revisionismo, il millenarismo e cosa accade dietro le quinte della storia, il folklore e le altre dimensioni. Senza mai dimenticare la critica e la cultura politica, agganciate all’attualità, alle spie che indicano i cambiamenti nella società e nella contemporaneità.” Manlio Triggiani
E, fuori dal contesto del volume: L’ho conosciuto a Milano decine di secoli fa, col suo amico editore Marco Solfanelli. Gli ho spedito mini Garuda augurali in ebano da Bali, e qualche cartolina, ma temo non si ricordi. Se qualche volta pubblico lo devo a lui, mi ha insegnato a mettere i punti e le virgole al loro posto e, ovviamente, tutto il resto.
Quelli che non esistono sono tanti ma non si sa esattamente quanti. Vivono ai margini, nascosti, coesi, diffidenti e quasi mai si mescolano con noi. A volte danno fastidio e spesso puzzano, per non ricorrere a eufemismi e poi hanno quel modo di vestire che ricorda come andavamo vestiti una volta, vestiti di stracci anche, di solito sono repellenti. Si vede lontano un miglio che son diversi da te e da me. Sono zingari.
Sono stato alla loro festa anni fa, a Saintes Maries de la Mèr in Camargue, una festa che non terminava mai, un tripudio, una baraonda di voci, canti e balli, cavalli e carovane, fisarmoniche e chitarre, niente a che fare con gli zingari che vedi nei nostri campi nomadi, spesso coinvolti o accusati di essere malfattori, sicuramente sempre sospetti di esserlo. Un popolo ladro che non si è mai lasciato corrompere, era il parere di Emir Kusturica, regista jugoslavo che li amava. In Italia sono diffusi i Rom, etnia che usa un linguaggio (non esiste la scrittura) derivato da idiomi dell’India del nord. Vivono una famiglia “estesa” senza riconoscersi in altre istituzioni/organizzazioni, stato compreso. Difficile quindi “imbrigliarli” quando la loro casa e la strada e il loro tetto il cielo.
Ore 15 del pomeriggio, ultima domenica di agosto 2009 La signora ci riceve nel salotto. Un salotto davvero originale visto che non esistono le pareti. Alì e Micael ci corrono incontro. L’altro figlio siede su un pezzo di tavola di masonite, l’ultimo dorme sotto la tenda. Il marito spunta dietro una parete di cartone. Gli avvolgibili strappati sbattono contro un pezzo di muro. Garze, cerotti, qualche bottiglia di bibita, caramelle e vecchi album di animali, sono i nostri doni. Siamo zingari dice la signora, veniamo dalla Romania e non c’è lavoro. La signora ci dice di sedere, ma noi troviamo solo il tempo di scattare qualche foto e già rientriamo. Mario Ingrosso li ha fotografati. Sulla via del ritorno incontriamo altri rom, scesi da una macchina per far visita a conoscenti del campo abusivo; ci chiedono se lavoriamo per i giornali. Vivono fra le macerie delle nostre città, sotto i ponti delle tangenziali, negli anfratti delle fabbriche abbandonate. Protagonisti d’innumerevoli episodi di cronaca, fatti di sgomberi, allontanamenti, furti e accattonaggio molesto. Sono i paria, così da secoli. Rigettati dalle culture ufficiali dei paesi in cui risiedono. Coloro che non esistono, perché privi di documenti. Mal tollerati, incivili secondo i nostri canoni. Fra essi anche individui fuorilegge che soggiogano, imponendo la legge del più forte, le famiglie aggregate della loro comunità. I rom rappresentano la spina nel fianco di ogni amministrazione occidentale, sono diversi, non assimilabili. Ingombranti, non inseribili, e non affidabili. Esistono senza esistere. I personaggi che Mario Ingrosso ha fotografato sono i protagonisti di un reportage effettuato nelle aree abbandonate di una città del nord. Fra muri crepati, tetti sfondati, macerie. Vivono lì, a titolo provvisorio, ben sapendo che potrebbero essere cacciati dall’oggi al domani. Sono rom, musulmani sciti e cristiani; arrivano dalla Romania. Ecco ciò che Mario Ingrosso è riuscito a intendere dal loro approssimativo racconto:
foto di Mario Ingrosso
Le donne rom concepiscono i figli in Italia, dopodiché tornano in Romania per farli nascere. Affermano che, a causa del loro stato di clandestini in Italia, i nascituri non potrebbero avere alcun documento. Quindi dopo il parto tornano in Italia coi piccoli per svezzarli e infine li riportano in Romania presso i parenti per farli crescere. Una delle conseguenze è che da adulti non sapranno riconoscere chi li ha messi al mondo. Tutto questo procede dal loro status di clandestini. Gli attori di questo servizio devono condividere il campo con un gruppo al cui vertice c’è un capo clan non esattamente raccomandabile. Per due volte costui ha inveito contro di noi, intimando di andarcene. Sguardo e invettive non erano tali da rassicurarci. Quello che abbiamo letto nei loro sguardi lo lasciamo alla vostra sensibilità. Il nostro lavoro finisce mostrando immagini eloquenti e volutamente senza commento. Consentitecene uno solo: la bellezza antica e la dolcezza di alcuni volti femminili, quella sì ci ha colpito e per questo vogliamo segnalarla. Anche per questo auspichiamo un atteggiamento che non faccia di ogni erba un fascio e che sappia distinguere fra gli individui di un gruppo anche se non è sempre facile o possibile. La loro cultura è antica, parallela e alternativa alla nostra e arriva dall’India.
foto di Mario Ingrosso
Per il nostro modo di vedere i diversi e i non omologabili molti di loro non esistono. I loro sguardi però raccontano storie che forse non conosciamo affatto e che dovremmo un giorno ascoltare per non renderli estranei e nemici per sempre.
Scritto da Edoardo Simone Paluan all’età di 14 anni.
Ti ricordi quando parlavi e ascoltavi? e poi rispondevi, se ti pareva opportuno? Risale al tempo in cui la parola era in auge, prolissa o avara, spontanea, o forzata, stentata o debordante, ma sempre parola, autentica, e farina del tuo sacco. La parola eri tu, ti descriveva, lasciandoti esprimere come potevi. E allora ti ricordi quando c’era la parola? Preziosa, senza che tu te ne rendessi conto, tua o di altri, comunque unica, aveva il suo peso, significato e conseguenza, ricca di sfumature, o volutamente asettica (quasi mai) parlava di te dalla prima sillaba all’ultima, deteneva un valore maturato durante qualche decina di migliaia di anni.
Suoni gutturali, fonemi, prime vocali e poi sillabe, infine la parola strutturata, il significato della parola. Parola di uomo, non surrogato di parola di macchina. Oggi la parola? Quale? Lo sai che la parola, e non solo quella, è in via di dissoluzione, smembrata, sintetizzata e slogata da un sistema invasivo studiato da chi pensa di saperla molto lunga e che alla fine ha un piano in mente, conscio o inconscio che sia, lo si può immaginare. Il piano ovviamente presume un antefatto: che si chiama guadagno, tanto guadagno, coincidente con le montagne di denaro che hanno succhiato e che continueranno a sottrarre dalle tue tasche per farti acquistare iPhone, iPad, smart phone, computer portatili, eccetera ogni due tre anni. Ma non è questo che conta, non fraintendere, non sono un antimodernista antidiluviano, anch’io li utilizzo quei mezzi, sono comodi, veloci e non ne potrei fare a meno…(o forse sì?) Però gli ho dato un limite, un giusto valore, sono io che li amministro, non loro me, per cui accendo il Nokia della seconda guerra punica ogni due mesi, di messaggi non ce ne sono quasi mai, ma sai che bel vivere? I messaggi arrivano mediati, attraverso le parole di moglie e figlio, non sono un troglodita innamorato esclusivamente di Tradizione e passato, tutt’altro, mi interessa davvero cosa vogliono farci fare in futuro e dove vogliono condurci con questi “innocui” aggeggi che hanno ammazzato la parola e…il pensiero. Ma chi è stato? Quelli là, gli inconoscibili, l’empireo nebuloso che ci governa, i senza volto onnipresenti, gli amministratori del nostro io, ovvero speculatori sofisticati e anonimi, uomini del marketing più avanzato, geniali inventori di nuova scienza, impalpabile eppur pervasiva e invadente scienza. Hanno inventato nuove monete e strumenti di comunicazione di massa, e te ti devi adeguare; finanzieri senza etica e decoro, massacratori di economie e stati sovrani. Oh mah! Parole al vento, dirai te.
Non hai torto. Come diceva mia nonna: non bisogna abbaiare alla luna, la luna non risponde mai, chi vuoi che ti ascolti? Con chi ce l’hai? Con l’inevitabile progresso? Con le nuove tecnologie? Battaglia già persa in partenza, ritirati su un’isola deserta, allora, rimandato a settembre, studia meglio la lezione. Ci vedo del buono quando l’aggeggio si configura come strumento indispensabile, non come superfluo e tu ti stai dedicando al superfluo creando la necessità del superfluo per confonderla in seguito come esigenza irrinunciabile, le abitudini sono peggiori dell’attacca tutto. Chiaro il concetto?! Guarda che qualcuno ti osserva e ti studia e ti succhia dati anagrafici e altro studiando le tue abitudini eccetera, guarda che con quell’aggeggio, ossia il tuo amato iPhone consenti a qualcuno di farti carpire abitudini e alla fine anche idee…le tue idee, in una ….parola, diventi soggetto di analisi, influenzabile, indirizzabile, questo qualcuno vuole.
Chiamalo: potere sofisticato e subdolo, se ti piace. Guarda cosa è successo con qualche risultato taroccato di elezioni e referendum popolare nel mondo. Ma perché invece di rimbambire a premere tasti a cercare e a inviare messaggi non ti porti in tasca un libro? Uno da poco, un tascabile, da qualche euro o uno da mille lire quando ancora le lire esistevano. Pubblicato da eroici editori di un tempo! Scoprirai cose che manco te le immagini, avventure, personaggi, luoghi indimenticabili, intere epoche, proprio attraverso quei libercoli di poco conto, e intanto ti rifai il palato e il gusto per il momento in cui ricomincerai a usare la parola. Io ti osservo, sono la tua anima nera, ma ti voglio bene, alla fine, dicendoti che te sei diventato iPhone dipendente, senza accorgertene, giorno dopo giorno, ma che dico? dopo la prima ora ti saresti sentito perduto senza iPhone. Sì lo so, non dovrei dirlo, che ho gioito quando a mio figlio gli è scivolato l’iPhone di mano e che gli è passato sopra un camion. Non dire di no, ti vedo, sai, in metropolitana, per strada, in sala d’attesa, mentre lei o lui ti chiedono qualcosa, ma….mi senti? Sì, sì, ti sento, non è vero, non senti, sei risucchiato nell’aggeggio, stai cercando una strada con l’aggeggio, non dico che la cosa sia inutile, tutt’altro, ma, come dire? crea dipendenza; alla tua lei dici di amarla con l’aggeggio, comunichi le tue dimissioni con l’aggeggio e gli altri, sempre con l’aggeggio, ti rispondono in tempo reale, compulsivo, nevrotico, irreale. Sai perché ? L’aggeggio ha vinto, ti sovrasta, incapace come sei di limitarne l’impiego, e sai perché ? Perché non usi più la parola, quella vera, che ti ha sempre nutrito, e che hai fatto fatica ad imparare, cioè lo strumento per eccellenza che ti fa (faceva) vivere, la parola alla fine eri tu, le tue abitudini, la tua poca o tanta cultura, il tuo io stava nella parola e oggi sta nell’aggeggio. Da non credere. Non potrebbe essere diversamente. Pensare e parlare infastidisce chi vuole che tu pensi e dica senza dare fastidio, a chi vuole uniformare il pensiero, perché la parola, cioé il tuo pensiero può contraddire, contrastare, sobillare, aizzare e scompaginare l’uniformità di chi pensa per te e che vuole che tu pensi in un solo modo. Ahi! c’e qalcosa che non funziona. Tu chi immagini, ma di cosa stai parlando? Di te. Della tua vita, ti osservo, sai? Con lo sguardo, senza derogare da condotte comuni. tu dirai beh che è successo di così negativo, non capisco. Mi sono facilitato la vita. Ma non ti rendi conto che ti stai uniformando, che non parli più con le tue idee, corrette o sbagliate che siano, che stai perdendo la parola, come hai già perso la capacità di scrivere tenendo la penna in mano, (io compreso). Le statistiche non le ho inventate io. Che succede? C’è un disegno diabolico in atto? Hanno distrutto la parola, ecco tutto, non te ne sei accorto? Le sue sfumature, i suoi doppi sensi, i significati sottintesi, la ricchezza del significato. La tecnologia della moderna comunicazione ha semplificato, sfrondato, eliminato la vecchia parola e cioè la cultura che la sovrintendeva, creando il linguaggio asettico, sintetico, uniforme, una volta sterilizzato e semplificato il linguaggio esso non produrrà più frutti. Prova a scrivere Re Lear o Giulietta e Romeo o I Promessi Sposi via iPhone se ne sei capace. Ti sfido: prova a scrivere con carta e penna una lettera, se sei in grado allora sei salvo. Se distruggono la parola distruggono anche la tua identità di cui la parola è primo referente e conseguenza diretta. Davanti a te c’era un altro, omologo o no, ci potevi discutere, qualcuno in carne e ossa, un corrispondente, un umano anche nemico, non dico di no, col quale ti confrontavi, chiedevi, imploravi, cinguettavi e, per dirla con un termine onnicomprensivo: comunicavi, cioè vivevi. Okei, lo ammetto, una volta non potevi parlare con Uagadougu o Benares o Baltimora così come lo puoi fare facilmente adesso. Adesso hai l’imbarazzo di scegliere. Chiamalo: potere sofisticato se vuoi. Guarda cosa è successo con qualche risultato taroccato di elezioni e referendum nel mondo. Ma perché invece di rimbambire a premere tasti a cercare e a inviare messaggi non ti porti in tasca un libro? Uno da poco, un tascabile, da qualche euro o uno da mille lire quando ancora le lire esistevano. Il libro ti fa riflettere, l’iPhone no. Pubblicato da eroici editori! Scoprirai cose che manco te le immagini, avventure, personaggi, luoghi indimenticabili, intere epoche, proprio attraverso quei libercoli di poco conto, e intanto ti rifai il palato e il gusto per il momento in cui ricomincerai a usare la parola. Io ti osservo, sono la tua anima nera, ma ti voglio bene, alla fine, dicendoti che te sei diventato iPhone dipendente, senza accorgertene, giorno dopo giorno, ma che dico? dopo la prima ora ti saresti sentito perduto senza iPhone. Sì lo so, non dovrei dirlo, che ho gioito quando a mio figlio gli è scivolato l’iPhone di mano e che gli è passato sopra un camion.
Hanno preso una tua esigenza, l’hanno elaborata, agghindata, arricchita, uniformata e resa indispensabile a te, in una parola hanno creato una esigenza alla quale ora risulta difficilissimo rinunciare. Ti ricordi quando comunicavi con la parola vera? e non pigiando tasti tutti uguali e il tuo interlocutore non era esclusivamente l’iPhone, ma era un altro te stesso con cui ti confrontavi; era ieri e sembra passato un secolo.
Lo sai che a poco apoco si son persi per strada per poi estinguersi? Ma come chi? Gli editori! Sai cosa scrive la Treccani? Questo: editóre s. m. (f. –trice) [dal lat. edĭtor –oris «chi dà fuori, chi pubblica, chi organizza», der. di edĕre; v. edito]. – 1. Chi fa stampare (o, prima dell’invenzione della stampa, chi faceva trascrivere) e pubblicare, del tutto o in parte a proprie spese, opere altrui, libri, musica, riviste, ecc. curandone la distribuzione e riservandosi, in genere, i diritti di esclusiva (v. copyright): l’e. di un vocabolario, di una collana di classici; Società italiana degli autori ed editori (in sigla: SIAE). Finito! Stop! Trovane uno se ci riesci! Te pensi che io sia fanatico del passato, ma non è mica vero, sai. E che non sappia apprezzare ciò che il nuovo reca con sé. Sei in errore. Prendiamo per esempio, quello che ha più coinvolto e condizionato la nostra esistenza in questi ultimi vent’anni: il web. La ragnatela che, volenti o nolenti, si è insediata nel nostro lavoro, in casa, in vacanza e nelle nostre abitudini quotidiane, mutandole radicalmente. Del web possiamo parlare fino alla nausea, di vantaggi, innegabili benefici, assuefazioni, e aspetti decisamente deleteri. Io del web ne considererò una fettina, solo un pezzetto, ma per te che scrivi libri, determinante, perché, se non lo sapete ancora, anch’io, come te, scrivo libri. Attenti all’errore: non ho detto che sono uno scrittore, ma solo che scrivo libri. Meglio chiarirsi da subito! Quindi i soggetti del presente post saranno: libri, editori, Amazon e il sottoscritto, in rappresentanza di tutti coloro che pensano (una volta lo pensavo anch’io di me) di essere geni incompresi della scrittura. Andiamo al sodo: qualcuno si offenderà, ma devo correre il richio. E dunque: da anni non esistono più editori veraci ma solo surrogati, deficienti di individui che leggono un manoscritto, lo apprezzano, lo segnalano e poi decidono di investire sull’opera (proprio quello che Treccani riporta) per farla conoscere. Dal Settecento sino a venti anni fa era prassi corrente (salvo eccezioni, perché il bamba di autore che sborsa quattrini per vedersi pubblicato c’era anche allora…come ora, e fra questi nomi illustri). Poi cosa è successo? Hanno gettato la spugna, gli editori, rinunciando al faticoso e improbo lavoro di scovare talenti. Si sono fatti abbagliare, son venuti meno al loro compito, non sono più l’altra gamba dell’autore, non diffondono più idee e cultura. Comprano titoli che son sicuri di rivenedere in patria, diritti di opere che hanno già venduto all’estero, vanno a farsi un giro alla fiera di Francoforte e via. Ovvero il marketing editoriale ha preso il sopravvento, eludendo l’editor superstite. Chi sei? Nessuno. Chi ti conosce? Nessuno. Come ti chiami? Nesuno. Dove lavori? Da nessuna parte. Hai già pubblicato prima? No. Allora il tuo lavoro, seppur pregevole e degno di lode, non possiamo pubblicarlo perché non rientra nei nostri programmieditoriali. Te la ricordi questa frase, vero? Alzi la mano quanti di voi hanno ricevuto uno scritto del genere. E chi scopre allora Marcel Proust, Louis-Ferdinand Céline o Stephen Crane? E cosa pubblicano allora i moderni editori per fare cassa e tenere alti i profitti? Montagne di carta con cui intasano le librerie, con copertine da urlo, quelle sì, veri capolavori. E dentro cosa trovi? Capolavori inediti? No, prodotti che il marketing ha realizzato pensando di vendere (e spesso ci riesce) E altro? No, non ti basta la copertina?! Ovvero gli editori hanno rinunciato a fare il loro mestiere, il loro fiuto è svanito, la funzione di motore della cultura inceppata, si sono affidati ai maghi del marketing. Loro sanno come far vendere un titolo. Poi si sono, come dire? passami il termine, caro editore, che affolli ancora gli scaffali delle librerie: si sono abbassati di livello, chiedendo una partecipazione economica per stampare i tuoi lavori (e pare ci sia la fila di autori famelici pronti a sborsare pur di vederesi pubblicati). Anche i grandi nomi di editori? Sì, anche quelli.
Pensi che esageri? No, ho le prove. Al massimo non mettono il tuo libro in libreria per non compromettersi. Così possono dire che loro non c’entrano con la tua roba, non è nel loro catalogo, anche se ci hanno messo il loro nome sopra per farti contento, e prelevarti qualche euro, chiaro? Poi hanno creduto nella figura del ghost writer che, se poteva essere una curiosità un tempo, oggi fa male vedere quanti ce ne sono in giro, (lo confesso, ho peccato: anch’io faccio parte dell’elenco dei reprobi ghost writers). I quali scrivono per onorare presentatrici, danarosi, gente di spettacolo, uomini dello sport, politici, droghieri che vogliono scrivere la loro biografia. Ma fanno tutto badando solo a una cosa: contribuire a far fare cassa. Di editori meritevoli ed eroici che si sono venduti l’alloggio per continuare a lavorare ne conosco un paio. E Jack London, Robert Musil e August Strindberg chi li scopre? Acqua passata, siamo nel millennio successivo, adesso c’è il web, e dentro al web ci sta Amazon. Ovvero la nuova frontiera, ovvero il miraggio, la méta agognata, la conquista. Non sono ironico, bada bene. Il mare aperto si apre davanti alle tue aspirazioni, ce la puoi fare anche senza editori! Qualcuno ce l’ha fatta e può dirtelo. Punto e a capo. Cosa sta succedendo? La rivoluzione per ogni vero autore o che si ritiene tale. Cosa è cambiato? Tutto, salvo chi scrive e chi legge. Quelli sono rimasti uguali a sé stessi. La rivoluzione comporta pregi e difetti. Enormi i primi, grandissimi i secondi (ma non per te, almeno direttamente). La rete, in questo caso Amazon, di cui è protagonista assoluto ti consente l’avventura, ti fornisce i mezzi, ti consiglia e ammaestra e poi ti lascia solo, te e il web, te e i tuoi potenziali lettori, te e il mercato che può ignorarti o cominciare ad apprezzare il tuo stile, le tue idee, le tue trame: terrificante e oneroso in eguale misura, sei rimasto da solo, non ci sono paraventi, se ci credi devi andare fino in fondo, potresti anche farcela! Hai sconfitto gli editori che si sono sconfitti da soli, anni prima. Non solo. La tecnologia ti mette in contatto coi tuoi lettori, i quali ti scrivono! E ai quali puoi rispondere, se vuoi. A proposito, io ne ho circa sei, ai quali risponderò presto, mi manca sempre il tempo! Amazon è diventato editore, distributore, librario, fattorino e spedizioniere per consegnare le tue copie (eventuali) a chi le richiede. Amazon apre la porta all’ignoto, sta a guardare, impassibile se ce la fai o soccombi, prendere o lasciare. Amazon, ovvero l’editore galattico senza volto, suona la campana a morto per le case editrici agonizzanti. Dicevamo di aspetti negativi in questa faccenda. Li chiamerei effetti collaterali, ma da non trascurare per chi, come te e me, sta a cuore la cultura. Chi dice che quello che scrivi vale? Chi lo giudica? Chi trova del buono o del fasullo nelle tue opere? …Nessuno; chi scova i talenti di oggi e domani? Chi riesce a dire: ecco il nuovo Garcia Marquez? Nessuno. Perché di veri critici e di editor e di agenti col fiuto si è perso anche lo stampo. Chi scova i nuovi talenti, allora?Te bussi alla porta. Permesso? Posso entrare? Entri dentro la stanza e la stanza la scopri deserta. Nella stanza dell’editore il vuoto impera. Una cosa è certa, al tuo lettore non puoi mentire, non è sciocco, capisce se fai il furbo, perdonandoti anche errori veniali, ma solo se scrivi col cuore. Devi fidarti di lui e lui di te; sei rimasto solo, caro collega. Amazon e il tuo pubblico contano su di te, esigendo il meglio. Non puoi tradirli perché nessuno, a priori, dice che è meglio che cambi mestiere o che sei un nuovo William Faulkner o Ernest Hemingway. Buona fortuna, te lo meriti. Siamo sulla stessa barca io e te.
C’è un libricino che langue nella mia libreria e che sta inesorabilmente sbriciolandosi. Decisamente prezioso. È del febbraio 1989. Un tascabile Bompiani assai malmesso edizione speciale per L’Espresso. Perché te ne parlo? Alle sue pagine ingiallite che ormai si stanno scollando devo la riscoperta di un autore, di un grande autore della letteratura del Rinascimento italiano che la vetrina della grande letteratura a volte trascura. Un libro senza alcuna pretesa che amo particolarmente perché mi ha accompagnato in metropolitana, nella sala d’attesa del dentista, mentre aspettavo un amico al bar. Estrarlo dalla tasca della giacca e cominciare a leggere era una piacevole abitudine. Così ho potuto leggere le disavventure di un bandito del mare: Nu lezem dun pirata, dun barruer de mare, lo qual robava le nave e feva omiunca mal, e tuto zo kel errasse entro peccao mortal, grand ben voleva a la matre del Rex celestial. Scritto da Bonvesin de la Riva, terziario nell’ordine degli Umiliati, milanese; fra le altre opere in lingua volgare tradusse un manuale sul modo di comportarsi a tavola.
De quinquaginta curialitatibus ad mensam. Tornando al nostro bandito in ammollo egli era devoto alla Madonna, ma lo vediamo far naufragio e, divorato dai pesci sino al collo, può solo invocare la vergine per la sua anima peccatrice e così la Madonna lo accontenta. Due frati che passavano su un’altra nave lo confessano e lo benedicono. E il pirata può così morire in pace. Il libricino che cade a pezzi è davvero importante. Dentro infatti ci trovate Jacopone da Todi, S. Francesco, Dante, Boccaccio, Poliziano, Petrarca, ecc. (a cura di Enzo Golino – Introduzione dei testi e note di Giacomo Spagnoletti-consulenza di Maria Corti.)
Agli editori, piccoli artigiani o colossi internazionali chiedo: Perché non provate a stampare più spesso edizioni a perdere, di infimo costo o addirittura gratuite, seppur così ben fatte come il tascabile che conservo con amore e riguardo? Non è un’operazione in perdita. Ve lo assicuro. Anch’io due secoli fa mi occupavo di marketing. Attualizzare la cultura non significa banalizzarla, o annacquarla, ma glielo devi dare il gusto alla gente, o prima o poi apprezzerà…si spera. Ci potreste mettere sopra la pubblicità dei vostri libri e altro. Sarebbe un modo per introdurre opere con vesti più importanti e a prezzi remunerativi. Una sorta di assaggio semigratuito in vista del pranzo. Perché non distribuire edizioni usa e getta (per chi le vuole gettare, ovviamente, non certo io) da distribuire insieme a una Coca Cola, a un panino, al biglietto di un cinema o a un CD, oppure al supermercato, in omaggio per spese superiori ai dieci euroo sterline. Ti ricordi cosa ti davano in premio se ti abbonavi all’Automobil club? Mi son fatto di quei dizionari! Ma erano altri tempi. Dirai, mica vero, siam sempre quelli, basta che molli per un attimo l’iPhone che ti ammazza il cervello alla ricerca di qualcuno che ti cerca. Ma se ha bisogno davvero ti chiama. Lasciamo stare. Nel metrò di Milano ogni tanto accade di trovare cose del genere. Librettini in bacheca. Ma ci vorrebbe ben altro. Distribuirli nei bar, nelle tabaccherie, in panetteria, del resto anche questo è cibo, cibo per la mente (l’espressione non è mia). Un modo come un altro per smitizzare la cultura, per renderla quotidiana, alla portata di tutti, per informare e far amare alla gente storia, personaggi e miti, avvicinandola alle persone, se sta su un piedistallo nessuno la vuole, pensa che non sia fatta per lui. Benigni insegna, con la lettura del suo Dante ha riempito le piazze e ci ha commosso, interessato e avviato alla ricerca. E se provassimo a moltiplicare per mille questo genere di impresa te non pensi che porterebbe i suoi frutti? Sarebbe senz’altro un antidoto al rimbambimento dovuto all’uso indiscriminato, cioè normale, dell’ ‘iPhone.
Poesia con la P maiuscola non le poesiole che ti han fatto imparare a forza a scuola, torturandoti memoria e pazienza. P come poesia, come esordisce onniscente, wikipedia: La poesia (dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”) è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di parole secondo particolari leggi metriche. Fin qua non ci piove. Oggi non ci sia più. Sparita. Non è più merce attuale né facilmente reperibile, forse perché derrata deperibile, scusate la scipita allusione. Pare che non serva. La poesia. E se ne accenni sei accolto da un mezzo sorriso di compassione. La Poesia? E cos’è, si mangia? Meglio una caramella. Ma riguarda un passato nemmeno tanto remoto la poesia. La poesia non interessa, annoia, è fuori moda e fuori dal tempo, se parli di poesia oggi parli di quella del passato coi suoi poeti laureati e non. Non parliamo di poeti, non facciamo nomi, morti e viventi, potrebbero anche offendersi i pochi rimasti in circolazione, se ne esistono. Come ogni altra arte la Poesia necessita di ispirazione, se non c’è non c’è poesia ma vuoto balbettio o frastuono fastidioso, più gridi e meno fai poesia. Hai capito? La poesia può anche gridare o sussurrare ma deve essere autentica, cioè sentita, e partire dal cuore, ma non basta. Di poesia si muore nel senso che se nasci poeta oggi sei morto in partenza, devi trovarti un’alternativa, un mestiere per vivere. Perché? Perché la poesia pare non serva più, essendo roba vecchia, inservibile. Di poesia si muore, oggi. Nel senso che se nasci poeta la troverai davvero dura. Un tempo no, era diverso. Il poeta, quello autentico, era riverito e desiderato e ospitato nelle corti europee in cui vivevano rispettati e protetti i trovatori e i menestrelli che in musica cantavano storie e la gloria del loro signore e di belle dame. Ispirazione, dicevamo, come nei mestieri: chi nasce falegname difficile che faccia il fabbro o il calzolaio, ispirazione come inclinazione, vocazione, vita. I cimiteri della creazione son pieni di poeti veri o fasulli, morti per davvero…di fame o disperazione. Devi rifarti al passato se vuoi capirci qualcosa, c’era la poesia epica, il più grande dei poeti insegna, versi di gloria, amore e morte a cantare gli sbudellamenti sotto le mura di Troia per colpa della bella Elena, così dice la leggenda, smentita dalla storia, che parla invece di questioni commerciali. Niente di nuovo sotto il sole, eh? Il mito nutre la grande poesia, la bellezza, la forza, lo spirito di avventura, incarnato da Ulisse che di avventura ne sapeva qualcosa. Ma se il mito sparisce che fai? Con la poesia si tramandavano gesta, miti e leggende, che poi sono le nostre radici se ci pensi bene, qualcosa che ti fa diverso da un albero o da un pesce. Quanti i versi di ispirazione sacra?
Una montagna, dieci montagne e vallate, il sacro ispira la poesia (uno dei motivi per cui oggi non ce n’è più in circolazione, a pagarla oro, ovvio, no?) il fraticello di Assisi che svetta come poeta eccelso con il suo Cantico delle Creature, lode a Dio creatore e alle sue creature e la lauda drammatica di Jacopone da Todi che ispira il teatro poesia nel suo Donna de Paradiso. Ti ricordi quando c’era la poesia? Quando scriveva Petrarca della sua bella Laura, e allora è poesia d’amore, del sentimento, per lodare l’amore e cantarlo in ogni sua declinazione, vedi: bisogno di parlare di sentimenti e di occhi lucidi e di occhi che si accendono e di piogge e cascate di fiori sui capelli dorati e di Beatrice che ispira Dante a fare
quel bel viaggetto nell’al di là, ovvero poesia allegorica, e poi versi che narrano di fughe di ninfe amate da fauni e satiri e compagnia bella, per non parlare dell’amor tragico nei versi che tutto il mondo conosce degli amanti disperati Paolo e Francesca. Amore e morte che ispirano il verso. Roba da recuperare in soffitta, dunque. C’era bisogno di fissare sulla carta quell’antico amore. Altri combustibili che nutrono la Poesia ce ne sono, ma di altro genere, i versi del grande Foscolo sono ispirati dal rimpianto della sua bella patria Zante che mai più rivedrà e poi dall’impegno civile quando parla dei Sepolcri, e dalla contemplazione di sé stesso e del paesaggio che allude a un paesaggio dell’animo e della mente. Vagar mi fai sull’orme che vanno al nulla eterno. Robetta? Beh, non proprio. E Dio dove sta? Te lo dico un’altra volta. Per non sottacere i non entusiasmanti versi del Manzoni su Napoleone stecchito: Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, eccetera, e quindi passiamo alla politica. E sulla condizione umana e la disperazione della giovinezza che trascorre e l’impotenza del poeta e sul pessimismo annichilente di Leopardi che contempla sé stesso e la natura e allora si rifugia nella poesia come nell’unico mezzo decente per sopravvivere. L’istrionico D’Annunzio ricorre alla poesia e le sue fonti di ispirazione sono molteplici: si parla di morte, di mito, di eroismo, avventura e di bellezza, sempre, parla cioè di sé stesso. Alla radice della Poesia ci stanno le molte, ma non tantissime, ispirazioni aspirazioni dell’uomo, ad ogni secolo (se va bene) la sua poesia. Un due tre quattro, non mi viene in mente un accidente se parlo del nuovo secolo-millenio. Forse che Neil Armstrong parla un nuovo linguaggio poetico quando sbarca sulla luna? E vai sulla luna senza essere ispirato da quello che vedi? Se c’è poesia nello sguardo degli astronauti se la tengono tutta per loro, non la diffondono. Quello che hanno provato oltre al timore di non ritornare e alle difficoltà del viaggio rimane segreto, tabù. Ma non divaghiamo. Oggi di poesia ce ne sarebbe bisogno, uno straziante bisogno, un bisogno enorme, così gigantesco che nessuno se ne rende conto, per questo ti chiedo: Ti ricordi della Poesia? È dentro di te e disperatamente cerca uno sbocco, una fessura, un appiglio per poter emergere, (la dimostrazione al prossimo post.) Sono sicuro di averti incuriosito abbastanza, e siccome un post non può annoiarti ed essere lungo come un’autostrada ti rivedo al prossimo che, indovina un po’, parlerà sempre di poesia, e avrà qualche sorpresa in serbo.
Loredana Pecorini non c’è più da tre anni. Ma di lei ho un ricordo così vivo e grato che difficilmente si annebbierà. Tu, che sei di Milano, o ci vivi ancora, te la ricordi quando andavi a cercare opere speciali o a ascoltare musica in Foro Bonaparte, nella sua magica libreria? E tu, che mi stai leggendo perdona l’impertinenza, ma se hai conosciuto Lalla mi farebbe piacere conoscerti! Perché Lalla Pecorini faceva parte, e ora lo fa solo nel ricordo, delle persone ed eredità culturali migliori di Milano.
Mi aveva regalato un bel libro su Ugo Foscolo con la sua dedica a mio figlio. Bando al triste e grato ricordo. Perché ne riparlo? Avevo recensito il libro di un suo amico autore, in omaggio a lei e a lui ecco quello che avevo scritto qualche tempo fa: LA CHIMERA DI CARLO VIII e penso che il post sia ancora attuale. La signora ha più di cinquecento anni. Ma non li dimostra. Lo spirito è quello di una ragazzina, entusiasta e coinvolgente. Le avevamo chiesto un incontro per illustrare un nostro progetto e fra telefoni che squillavano e saluti con vecchi e nuovi clienti siamo riusciti a malapena a introdurre l’argomento. Di chi e di cosa stiamo parlando? Di una delle più lussureggianti librerie milanesi (ora sparita) : e della sua titolare, signora Loredana Pecorini, il cui spirito e passione sono identiche a quelle dei primi stampatori tedeschi, veneziani e trinesi che nelle loro botteghe, seicento anni fa, dettero inizio a una nuova arte: quella della stampa col torchio. La signora Pecorini è la loro erede ideale. E mentre dimostriamo interesse lei ci illustra con amorevole cura edizioni che farebbero gola a un troglodita. Carte giapponesi, caratteri mai visti prima, edizioni che sembrano carezzare lo spirito e la mente, in particolare una dell’opera proustiana che occhieggia da una teca protetta, dotata di una copertina che, da sola, induce all’acquisto. Sono i libri che lei vende, e definirli libri di pregio riesce assolutamente riduttivo. Infatti, il valore aggiunto di queste opere non è facilmente calcolabile. Non occorre essere bibliofili, bisogna semplicemente amare le cose belle, il gusto, l’armonia, capire che state sfogliando opere d’arte fatte di carta, passione, con illustrazioni fuori del comune, con caratteri e spaziature che nulla hanno da spartire col libro delle normali librerie. Fra le “meraviglie” della sua Libreria, troviamo: LA CHIMERA DI CARLO VIII di Silvio Biancardi. Si potrebbero sprecare numerosi aggettivi encomiastici per lodare quest’opera. Ne scegliamo due soltanto: entusiasmante e insostituibile. E già dai primi capitoli se ne capisce il motivo. Le 800 pagine de LA CHIMERA DI CARLO VIII si leggono (avendone il tempo) tutte d’un fiato, come un romanzo dalle mille avventure, dai mille volti, dai cento tradimenti; alleanze e promesse non mantenute si susseguono a non finire. Sono le radici di un albero che affondano nel passato dell’Italia, facendoci comprendere molte cose sui nostri trascorsi, sui comportamenti, sul nostro carattere nazionale di allora e odierno, non esattamente tutte incoraggianti o di cui vantarsi.
Ma la storia e i suoi perché qui trovano un riscontro tale e dovizia di particolari attraverso testimonianze e documenti di stupefacente rilievo e vastità. È tutto documentato con abbondanza di particolari. L’autore fa parlare sovrani, ambasciatori e belle dame in una girandola di battute che mai disorienta, anzi che sorprende per la sua vivezza. Silvio Biancardi tratteggia sapientemente un disegno che affascina per la ricchezza dei particolari e per la trama di ciò che davvero è accaduto in quegli anni drammatici. Era l’epoca dei Medici, di Leonardo da Vinci, degli Spagnoli a Napoli, per intenderci, il tempo degli anatemi di Frate Girolamo Savonarola e delle meraviglie che le regali residenze napoletane custodivano. L’autore, spesso con sottile ironia, mai esprimendo giudizi fuorvianti raccoglie le ambasciate di Ludovico il Moro, le debolezze di Carlo VIII, (un sovrano il cui aspetto non era propriamente aitante: piccolo, smilzo, con un gran naso, e non suscitava entusiasmo), i dinieghi diplomatici della Serenissima, la faticosa spola degli ambasciatori spediti su e giù per la penisola a ricucire strappi, proporre alleanze, minacciare rappresaglie. Ma Carlo VIII aveva un progetto: scendere in Italia per scacciare gli Aragonesi e riprendersi quello che riteneva di sua proprietà: il regno di Napoli per poi continuare la rotta andando a combattere i Turchi. L’Italia dei cento stati, al suo passare si dissolve come neve al sole, mettendo in luce rancori, cupidigie, rivalse e vendette. L’Italia che non c’era, è tutta lì, non sa che pesci prendere, è in preda al collasso e si spaventa per poi tentare colpi di coda. I Francesi fanno sul serio e sparano per davvero con le loro micidiali artiglierie abbattendo a colpi di cannone le scarse resistenze degli Aragonesi. Soprattutto brillano le trame di Ludovico Sforza detto il Moro, che dopo aver favorito la discesa del sovrano francese accogliendolo con feste e danze a cui partecipano dame dalle generose scollature, ora sollecita la lega di Stati in funzione antifrancese (intrappolare il re ora nemico in quella palude insidiosa che era l’Italia di fine Quattrocento?) Dopo aver sperato invano di espandere il suo potere Ludovico il Moro si sente ora trascurato e non tarderà a vendicarsi tramando esplicitamente contro i Francesi. E il Papa? Tutto da leggere ciò che successe veramente fra Alessandro VI e Carlo VIII. E l’autore di questo affresco dalle forti tinte ce ne dà ampio resoconto. E come trascurare le speranze deluse di Pisa che invoca il re francese in funzione anti-fiorentina? O l’enigmatica impassibilità del governo dei Dogi che non dice mai nulla e non rifiuta mai nulla? L’opera di Biancardi è unica perché fa parlare i protagonisti di quegli anni, secondo un diario di avvenimenti incalzante che ha il sapore di un reportage. Forse per una di quelle rare alchimie della storia Silvio Biancardi può dire: Io c’ero, ho visto e ora racconto. Le illustrazioni sono tratte dal volume. L’edizione ci è stata segnalata da Loredana Pecorini titolare della libreria omonima.
La contestazione rivela quanto sia ancora viva e ricca di fermenti la sua figura. Alzi la mano chi può dire di aver studiato tutta l’opera di Gabriele D’Annunzio. Staremmo forse sulle dita di una mano. Voi ed io. Ho dato la mia tesi di laurea su Gabriele d’Annunzio, relatore il professor Marziano Guglielminetti, Palazzo Nuovo Torino, luogo di intense contestazioni rosse ai tempi del Sessantotto e oltre.
D’Annunzio appare in posa dimessa, mi pare di scorgere. Siete stati al Vittoriale? Vi siete auto inflitti la lettura della sua opera e le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi? Avete letto il Notturno e Meriggio? E la morte del cervo? D’Annunzio fascista? Atrocemente falso! Un falso storico che non so a chi interessi sostenere. Ovvero le distorsioni di un mito. Una volta per tutte: Nella sua opera tutto parla di eroicità, di mito, di eroismo, di proclami, di riesumazione e promozione dell’ antica Gloria italica che col Fascismo (quel fascismo) ci stanno come i cavoli a merenda. Alla stessa stregua condanniamo Giulio Cesare e le sue legioni, ovvero gran parte del nostro passato. Qualcuno se la sente? I suoi diretti riferimenti sono il mito del superuomo, anzi, dell’ultrauomo, del resto Friedrich Wilhelm Nietzsche aveva appena deposto i suoi frutti (avvelenati) a proposito dell’uomo nuovo, allora perché non mettiamo all’indice anche il filosofo tedesco, così il professor Gianni Vattimo si mette a strepitare, e a ragione. Grandissimo D’Annunzio, solo in alcuni suoi lavori (ma questo discorso esula dal tema attuale della contestazione. Oppure visto che nutriamo (ancora!) dubbi sulla sua appartenenza al regime, (e solo per quello!) diciamo che i suoi versi regali valgono poco! Bestemmia! Non ci sto.
D’annunzio uomo di pace rappresentato mentre sommessamente e malinconicamente sfoglia un libro su una pila di libri? Questa è la statua contestata? Semmai è la statua a dover essere commentata e l’atteggiamento del poeta perché me lo presenta rinunciatario, non perché sarà collocata dove deve esserlo. Una statua che gli corrisponde solo in parte perché presenta D’Annunzio come uomo di pace, che D’Annunzio non fu mai, anche se alla fine prenderà le distanze dal suo attivismo sfrenato, dalla gloria, dall’eroe, dalla sua indole stessa. A chi non capiterebbe dopo aver tanto vissuto? Ma non è un rinnegarsi il suo, se mai un ripiegarsi. Non fu mai uomo di pace D’Annunzio, non sarebbe stato l’erede di antichi miti in cui voleva specchiarsi, sostenerlo significa imbrattare il vero storico con menzogne tendenziose e insostenibili e danneggiare la sua grandezza ammirata all’estero che ne fa un binomio inscindibile di poeta soldato. Preferisco D’Annunzio in compagnia di Natale Palli su un biplano nel cielo di Vienna o a cavallo, a Fiume fra i suoi legionari. D’Annunzio da fastidio al PD? Siamo ancora a questo punto? Non ci posso credere! Tu da che parte stai? Destra, sinistra? Se sei di destra sei un fascista reazionario, bombarolo, massacratore e tiranno, se sei di sinistra un bolscevico esecrabile che giustificava i crimini di Stalin e Mao. Questi sono I giudizi che vogliamo? Tutto ciò che attiene o si riferisce o ricorda quel tipo di antagonismo storico politico, ancora oggi va criticato e ostacolato e messo all’indice dalle parti avverse, a quanto pare ancora oggi inconciliabili. D’Annunzio suscita ancora polemica e il suo nome va rimosso dalle strade! Allora rimuoviamo qualche centinaio di nomi nostrani. Magari anche quello di Machiavelli. Ma noi non siamo Americani ai quali basta rimuovere qualche statua per sentirsi in pace con la coscienza; viva D’Annunzio sono tentato di gridare. Ma non voglio farlo. Uomini come lui non finiranno di sollevare domande, di porre in dubbio verità di parte, o ancora, evidentemente troppo vicine per potersi definire vera storia. La polemica va colta nel suo aspetto positivo, ma va scissa dalla condanna tout court perché: D’Annunzio fiumano, guerrafondaio, capo di un manipolo di sfegatati col pugnale sguainato. Così non fu, o meglio: non fu solo così. Offendere le terre giuliane dal delicato equilibrio socio politico? altro errore! Il dente duole ancora? Protestiamo forse Fiume che ridiventi italiana per qualche bandiera di troppo? Un gesto incongruo e insostenibile che nuoce alla comprensione. Una buona volta occorre riguardare al passato non con spirito di parte o con atteggiamento preconcetto. È tempo di farlo.
A me sarebbe piaciuto che a sollevare contestazioni fossero stati non appartenenti al PD, vorrei dei contestatori capaci con cui confrontarmi, non i petulanti contestatori di una statua, vorrei tentare un dibattito, serio, definitivo, scrupoloso, anche se difficilissimo, dicendo anche a me stesso che se ti piace il nero non può piacerti il rosso e viceversa, ma non ha semplicemente alcun senso denigrare ciò che è grande di suo e a prescindere, intoccabile, invidiato da mezza Europa, cioè il nostro poeta soldato solo perché ha usato il Fascismo, e voleva divertirsi ancora un po’ con mitraglie, siluri e aerei, e il bel gesto e le pose col pugnale sguainato, non sono pose fasciste ma “romane”, andate a leggere la carta del Quarnaro, non a discolpa sua ma a spiegazione delle sue gesta. D’Annunzio non ha bisogno di essere scusato, condannato, osteggiato, ma solo studiato e compreso. Ce la facciamo una buona volta a non prendere posizioni a priori? Gli stranieri farebbero carte false per avere fra le loro memorie gente come lui. Lo sa il PD questo? Ho amicissimi e parenti stretti che hanno militato in Lotta Continua e stimati professori (defunti) ex comunisti ammiratori di Togliatti, ma che mai si sarebbero sognati di denigrare il nostro D’Annunzio. Farei carte false per sentire dire a un ex comunista italiano (quelli veri, non la confusa melassa di oggi): amo D’Annunzio per quello che ha scritto e farei ugualmente carte false per sentire uno di destra dire: ho studiato Gramsci, ho studiato Engels, apprezzo molto del loro pensiero. Da li bisogna partire per il confronto. Il partigiano comunista parente di una mia amica ed ex collega di lavoro, ammazzato inseguendo il sogno di una internazionale rossa sulle barricate di Parigi, contro i nazisti, lo ammiro e lo rispetto per la fedeltà alla sua idea (anche se dovessi suscitare scandalo) e tuttavia mi soffermo e rifletto sulle pagine di Julius Evola, che considerava D’Annunzio un teatrante che badava alla cornice. Evola, il filosofo della Tradizione, che intimorisce ancora in Italia, (ma non all’estero) che si rivoltava contro il mondo moderno, condannando sia il comunismo che il capitalismo. Ce la facciamo, dico io, tutti quanti a tornare grandi, invidiati, ammirati, come un tempo, Italiani, degni del nostro nome, e perché no? insieme ai nostri vicini amici slavi, ma occorre deporre le fionde di cui disponiamo e smetterla di tirarci sassi.
Quelli del PD che lo vogliano o no devono sapere che Gabriele D’Annunzio appartiene anche a loro. E per la cronaca: In Francia la biografia del Vate è stata scritta dall’Ambasciatore Maurizio Enrico Serra, rappresentante permanente presso le Organizzazioni Internazionali a Ginevra, insigne studioso di cose letterarie, che con il volume dedicato a D’Annunzio termina la personale ‘trilogia italiana’. Sono oltre 700 pagine sotto il titolo D’Annunzio le Magnifique (Grasset 2018, euro 30), con scheda editoriale audace: “Gabriele D’Annunzio fu lo scrittore-personaggio più imitato del suo tempo. Henry James, Shaw, Stefan George, Heinrich e Thomas Mann, Karl Kraus, Hofmannsthal, Kipling, Musil, Joyce, Lawrence, Pound, Hemingway, Brecht, Borges e tutti i francesi – da Remy de Gourmont a Cocteau, Morand Yourcenar – tre generazioni di intellettuali lo hanno letto, studiato, copiato.
Occorre smetterla col denigrare i protagonisti della nostra trascorsa grandezza. Tanto grandi rimangono, nonostante le nostre diatribe. Un italiano grande, unico, “mitico” e imparagonabile fu D’Annunzio. Senza se e senza ma.
Non è infine per spirito polemico che cito un altro “grande” italiano….forse l’ultimo grande, sebbene atipico: Pier Paolo Pasolini, ma forse ne’ a lui ne’ al Vate giovano le statue, bensì lo studio, la lettura imparziale del loro pensiero oltre al rispetto, infine l’orgoglio di sentirli nostri e italiani.
La dialettica degli opposti può anche rimanere inconciliabile (con pace precaria di tutti) ma il livello del confronto non deve comunque situarsi all’infimo gradino su cui posa un quesito effimero: statua si, statua no. Se no, facciamo ridere l’Europa, che ci invidia d’Annunzio. E l’ignoranza dei molti non è mai stata buona consigliera.
Il sottoscritto Mario Paluan, esule italiano e auto confinato volontariamente oltremanica si rivolge direttamente a: Vittorio Sgarbi, Claudio Magris, Giorgio Rossi, assessore alla cultura Veit Heinichen, intellettuale politicamente corretto e giallista, Alessandro De Vecchi, promotore della petizione anti statua, Borut Klabjan, studioso triestino, Roberto Di Piazza, sindaco di Trieste, Kolinda Grabar Kitarovic Presidente croata Vodka Obersnel sindaco di Fiume, capi del PD locale di Trieste
A queste persone va il mio ringraziamento per essersi interessati e aver preso parte a una polemica dibattito rinnovando così il mito e la figura del Vate.