Poe mentiva? (3)

A closeup of the bird silhouette on the branch.

“Tutto nella vita di questo poeta è difficile e oscuro; Edgar Allan Poe mentiva come un persiano: non per uno scopo preciso, ma così, a vuoto, per il gusto di mentire o forse nemmeno per quello: così come si respira.” 

Un attore che, rivolgendosi alla sua cara mamma,  scriveva in una lettera a MARIA CLEMM  (*) – New York (Filadelfia) 7 luglio 1849:

«Mia cara, cara mamma, sono stato tanto malato, ho avuto il colera, o le convulsioni, certo qualcosa di ugualmente brutto e ora posso appena tenere in mano la penna…La gioia di vederti ci compenserà quasi dei nostri dolori. Possiamo almeno morire insieme. Inutile discutere con me ora; bisogna ch’io muoia. Non ho nessun desiderio di vivere da quando ho terminato Eureka…per amore tuo sarebbe dolce vivere, ma bisogna che moriamo insieme…Sono stato portato in carcere una volta da quando sono venuto qui per ubriachezza: ma quella volta ero ubriaco. Fu per Virginia.”
Nessuna firma


(*) Sorella del padre di Edgar Allan Poe, David Poe, Jr., Maria Poe, nata il 17 marzo 1790, fu ben più di una zia per Edgar, tanto che il poeta la considerò sua madre, chiamandola affettuosamente  “Muddy”. Il 16 maggio 1836 Maria divenne anche suocera di Edgar, quando egli sposò sua cugina Virginia.
Giovanissimo, Poe si invaghì di Elena Stannard, madre di un suo compagno di studi.
Inconsolabile per la precoce morte della donna, dalle lettere si desume che per parecchi mesi si recò solo, di notte, anche sotto la pioggia, a piangere sulla tomba di lei. Ma non è certa la lunghezza del cordoglio, alcuni dicono che sulla tomba si recò solo un paio di volte.  
In una lettera dell’11 settembre 1835 scritta a John P. Kennedy, Richmond, uno dei pochi suoi ammiratori: “…Scusatemi caro signore, la confusione di questa lettera. I miei sentimenti in questo momento sono davvero degni di compassione. Soffro per un profondo abbattimento spirituale  come non mi è mai accaduto in passato. Ho lottato invano contro questa malinconia. Sono misero e non so perché.   Consolatemi se potete…convincetemi che vale la pena, che almeno è necessario vivere… , e vi sarete davvero dimostrato mio amico…”

L’estrema povertà in cui viveva, lo costrinse addirittura ad usare le lenzuola del corredo matrimoniale (portate in dote dalla sposa) come sudario per la moglie stessa. Chiede danaro, amicizia, favori, cibo e impieghi di lavoro. Rifiuta inviti a pranzo chiedendo in prestito al suo stesso ospite 20 dollari per potersi presumibilmente abbigliare con decenza onde accettare il suo invito, scrive a Giovanni P. Kennedy – Baltimora, domenica 15 marzo 1835:“Caro signore,
Il vostro gentile invito a pranzo oggi mi ha ferito sino al cuore. Non posso venire, e per ragioni di una natura molto umiliante per via del mio aspetto. Potrete immaginarvi la mia profonda mortificazione nel rivelarvelo ma è stato necessario. Se volete essere mio amico sino al punto di prestarmi venti dollari vi farò una visita domani, altrimenti sarà impossibile, e mi piegherò al mio destino.
Sinceramente vostro
E.A. Poe

Lo cacciano da West Point per insubordinazione.
“Sono abbandonato interamente alle mie risorse, senza professione e con pochissimi amici. Peggio di tutto sono senza un soldo” scrive da Baltimora a John P. Kennedy nel novembre del 1834.  Da Richmond scrive ancora a John P. Kennedy il 7 giugno 1836 a proposito di una nuova casa: “Caro signore,
Mi trovo temporaneamente in una piccola difficoltà e mi permetto di ricorrere ancora una volta a voi per aiuto. ..Vi sarei assai obbligato se poteste prestarmi la somma di cento dollari per sei mesi, sarei così in condizione di far onore alla cambiale che matura fra tre mesi.”
In una lettera a Giovanni Allan, (padre adottivo) Richmond, martedì 20 marzo 1827
Caro Signore,
Abbia la gentilezza di inviarmi il mio baule col mio vestiario. …Non avendo ricevuto né il baule né una risposta alla mia lettera ne desumo che lei non l’abbia ricevuta.  Mi trovo nella più dura necessità, non avendo toccato cibo da ieri mattina. Non ho un posto dove dormire di notte, girovago per le strade, sono quasi esausto. La supplico, come non vorrà che si compia la sua predizione sul conto mio  mi mandi senza indugio il baule che contiene i miei vestiti e mi presti, se non vuole darmelo il danaro per le spese di viaggio a Boston (dodici dollari)…”
Dopo la firma una postilla: “Non ho un centesimo al mondo con cui procurarmi del cibo.”


La sua sete di attenzione e la mancanza di soldi sono croniche. Non si fa scrupolo di chiedere danaro ad amici e parenti, professando amicizia e affetto. Scrivendo a Frederich Thomas, New York , 4 maggio 1845: “…Da tre o quattro mesi lavorato quattordici o quindici ore al giorno, sempre a sgobbare…Non ho mai saputo prima che cosa sia essere schiavi. Eppure Thomas, non ho guadagnato…Dì a Dow da parte mia che non ho mai avuto la possibilità di rimborsarlo…Nemmeno il diavolo in persona è stato così povero. ” E scrivendo da Fort Moultrie, porto di Charleston il 1 dicembre 1828 a John Allan: “…Sono stato nell’esercito americano per tutto il tempo consentito dal mio scopo e dalla mia inclinazione, adesso è ora che ne venga via… Aiuti pecuniari io non ne chiedo a meno che non vengano dalla sua decisione libera e imparziale…I miei più affettuosi saluti alla mamma….”
Da Fort Monroe, Virginia, 22 dicembre 1828: “…Se desidera dimenticare che sono stato suo figlio, io sono troppo orgoglioso per rammentarglielo nuovamente… padre mio non mi respinga come un essere degradato, Voglio essere l’onore del suo nome… Disprezzato, sarò doppiamente ambizioso, e il mondo sentirà parlare del figlio che lei ha ritenuto indegno della sua attenzione…” anche a questa lettera il padre adottivo non risponde. E poi: da Baltimora,  20 maggio 1829:
“ Caro babbo,
Ho ricevuto stamane la tua lettera con accluso un assegno di cento dollari e di questa generosa somma puoi essere sicuro che sarò riconoscente…Sono riuscito a trovare la nonna e i miei parenti, ma il fatto che mio nonno era quartiermastro generale  di tutto l’esercito degli Stati Uniti durante la guerra della Rivoluzione è nettamente dimostrato…”

leggevi il re del brivido? (2)

A Raven statue outside the home of Edgar Allen Poe, Famous American poet. The Raven was his most popular poem, the statue signifies that fact.

C’è anche un Poe profetico che fa dire a uno dei due personaggi in MONOS E UNA : “Monos: -tu ricorderai che al tempo dei nostri antenati, uno o due sapienti, sapienti dinanzi alla verità ma non davanti al giudizio del mondo, osarono mettere in dubbio la giustezza  del termine “progresso” dato al cammino della nostra civiltà. Ci sono state delle epoche….in cui alcuni vigorosi intelletti si alzarono coraggiosamente a lottare per quei principi…che dovevano insegnare alla nostra razza a sottomettersi alla guida delle leggi naturali, e non a tentare di dominarle. A lunghi intervalli apparvero alcune menti eccezionali che considerarono i progressi della scienza empirica come regresssi sulla via della vera utilità…L’uomo, che per il fatto che non avrebbe potuto non riconoscere  la maestà della Natura, esultò come un bambino al conquistato e crescente dominio sui suoi elementi…Fra le altre strane idee guadagnò terreno quello dell’uguaglianza universale e…a dispetto della voce ammonitrice delle leggi della gradazione che compenetrano  tutte le cose del Cielo e della Terra, furono fatti selvaggi tentativi di far prevalere la Democrazia su tutto. Purtroppo, questo male scaturì fatalmente dal male principale, la Conoscenza. … Nel frattempo sorsero enormi città fumose, senza numero. Le foglie verdi inaridirono sotto il caldo fiato delle fornaci… per il mondo universalmente infetto non potevo anticipare nessun’altra rigenerazione  salvo che nella morte…Vidi che l’uomo come razza, per non estinguersi del tutto deve nascere di nuovo. …Angosciato dal caos e dal decadimento  universale, fui colpito da una febbre perniciosa…” Come non rilevare in questi pensieri profetici, anticipatori del nostro vivere odierno le tesi di Julius Evola in RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO e di Henry Miller nel suo TROPICO DEL CAPRICORNO. Una denuncia potente, assidua, se non perniciosa per chi ha confezionato il nostro recente passato e sta pianificando il futuro. Una denuncia fatta di consapevolezza, un grido rauco che non si spegne, destinato a subire l’ostracismo del potere globale e della nuova conoscenza totalizzante oggi incarnata dalla Fisica moderna. Una denuncia ancora troppo blanda per i padroni del mondo, ma scagliata come una lancia per ferire, scuotere l’opinione pubblica,…invano, sinora. Ancora una volta ci viene in aiuto il saggio di Charles Baudelaire che dice: “Edgar Allan Poe e la sua patria non erano sullo stesso piano.

Gli Stati Uniti sono un paese gigantesco e fanciullo…Orgoglioso del suo sviluppo materiale, anormale e quasi mostruoso, questo nuovo venuto nella storia ha una fede ingenua nell’onnipotenza dell’industria; è convinto come qualche disgraziato fra noi, che essa finirà per mangiare il diavolo. Laggiù il tempo e il danaro hanno un così gran valore! L’attività materiale esagerata sino alle proporzioni di mania nazionale  lascia ben poco posto agli spiriti  per le cose che non sono della terra. Poe, che era di buon ceppo, e che d’altronde professava che la grande sventura del suo paese era di non avere una aristocrazia di razza, poiché in un popolo senza aristocrazia il culto del bello non può fare a meno di corrompersi, diminuirsi, sparire che riconosceva nei suoi concittadini…tutti i sintomi del cattivo gusto …che riteneva il progresso, la grande idea moderna, un’estasi da gonzi, e chiamava i perfezionamenti dell’abitacolo umano, cicatrici e abominazioni rettangolari….Da tutti i documenti che ho letto …la convinzione che gli Stati Uniti furono per Poe soltanto una vasta prigione …soltanto una grande barbarie illuminata a gas…Spietata dittatura quella dell’opinione pubblica  nelle società democratiche; non implorate da essa né carità, né indulgenza …Si direbbe che dall’empio amore della libertà sia nata una nuova tirannia  la tirannia delle bestie, o zoocrazia, che con la sua feroce insensibilità somiglia all’idolo di Juggernaut.” Del resto, aggiungo io modestamente, non c’è da stare allegri né si può attendere qualcosa di diverso dal nuovo popolo a stelle e a strisce se un suo filosofo psicologo pensatore, certo William James, sostiene che  “l’utile è il criterio  del vero” e “il valore di ogni concezione, perfino metafisica va misurato dalla sua efficacia pratica”. Non aveva posto Poe nella sua patria per respirare e librarsi alto e potente, ammirato e stimato come avrebbe dovuto essere in virtù del suo genio. Come poteva perdonargli (?) il suo Paese l’inclinazione verso l’aldilà col suo imperdonabile corollario macabro? L’America che ha sempre visto e che vede tuttora la morte inopportuna, imbarazzante, indigesta e, certo, improduttiva. Una banalità dire che fu incompreso. Succede ai geni, del resto in Europa Vincent Van Gogh, suo gemello nello spirito e nel sondare gli abissi del suo animo, non ha avuto sorte migliore. 

Non è ozioso il riferirsi ancora a Julius Evola che in RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO scrive: “l’America ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione industriale, alla realizzazione meccanica, visibile quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura puramente tecnico collettiva, priva di ogni sfondo  di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità…”  Come avrebbe potuto vivere se non sopravvivendo Poe in quel contesto?  Quali i valori, gli apprezzamenti, la sensibilità del nuovo mondo verso il suo morboso attaccamento verso la vita ma anche verso la morte. Sul suo suolo patrio  Edgar Allan Poe con le sue visioni e il suo  insopprimibile onirismo vagava, cercando di sopravvivere suo malgrado.
Ma ci sono altri aspetti “curiosi” nella vita e nella personalità di questo gigante mai esplorato a sufficienza, figlio di attori egli stesso attore, un attore che scambiava la vita per una recita e viceversa, e che chiedeva, implorava denaro, cinque, dieci, venti, cento dollari, per una camicia perché quella che indossava aveva i polsini logori, o per metri di stoffa, per un pasto, per un biglietto di treno, per affittare una sala in cui avrebbe tenuto una conferenza, o per una cambiale in scadenza.  Li chiedeva a tutti,  fastidioso, patetico, imbarazzante, assicurando che li avrebbe presto restituiti e con gli interessi. 

I pettegolezzi, le manie, la sua assillante richiesta di danaro, le emozioni che gli procura la morte e le piccole e grandi menzogne che costellavano la sua vita. Tutto questo emerge vivido e documentato nell’ EPISTOLARIO edito da Longanesi nel 1955, raccolto da John Ward Ostrom con la densa prefazione di Henry Furst, autentica miniera di informazioni; così scopriamo subito cose sorprendenti. A cominciare dalle primissime righe della prefazione:

Poe scriveva i suoi capolavori? (1)

Dovrò scusarmi con  Charles Baudelaire se, attingerò al suo saggio su Edgar Allan Poe, ma che io sappia non c’è niente di più acuto e partecipe  in circolazione che tratti dello scrittore americano che egli tanto apprezzava. Parlare di Edgar Allan Poe può sembrare ozioso, considerata la mole di articoli, saggi e analisi dedicati a lui e alla sua opera. Davvero c’è ancora da dire qualcosa su di lui? Proverò a spigolare in un campo di grano mietuto da molti e agguerriti per cercare qualcosa di inedito e tentare collegamenti. Scrive Baudelaire: “I personaggi di Poe o meglio il personaggio di Poe, l’uomo dalla sensibilità acuta, l’uomo dai nervi a pezzi, l’uomo che con volontà caparbia e paziente sfida le difficoltà,  l’uomo che fissa con uno sguardo gelido  come una spada  gli oggetti che si ingigantiscono man mano che egli lo osserva è Poe stesso. I personaggi femminili, luminosi e malati, che muoiono di strani mali  e parlano con voci musicali, sono ancora lui; o per lo meno con le loro strane aspirazioni, con la loro cultura, la loro inguaribile melanconia, partecipano intimamente dell’indole del loro creatore…” Riprendo l’idea aggiungendo: Poe non solo è quello che scrive Baudelaire ma qualcosa di più radicale: egli è anche paesaggio, è trapasso incessante fra vita e morte, nel senso che si può ritornare dalla morte come nel racconto LIGEIA; tra cadaveri lividi e prossini alla decomposizione descriti peraltro senza indugio o compiacimento, aggiungendo quindi credibilità all’orrido, ed è ambiente-simbolo di spazi interiori, in cui abbondano spessi drappi funerei e violacei, direi anche che Poe è la frotta di topi dalle labbra gelide che lo mordono e la stessa cricca di inquisitori che lo vuole morto, ne IL POZZO E IL PENDOLO, lo scrittore è identificabile in quella cella schifosa e viscida che modifica la sua geometria, ovvero la sua mente cangiante, nello stesso racconto, è poi l’assassino che sfonda la testa con un’ascia alla povera moglie derelitta e anche il gatto nero che trionfa di quel crimine ne IL GATTO NERO,

senza che ci sia una conseguente presa d’atto e di coscienza nel colpevole, una sua sia pur minima manifestazione di pentimento e disperazione o desiderio di redenzione per il misfatto, è poi anche Ligeia e lady Rowena Trevanion nell’orribile macabro riflusso morte vita di un cadavere e anche ne IL RITRATTO OVALE è la fanciulla di rara bellezza, gaia e leggiadra del dipinto, e anche il marito di lei, il pittore assassino, inconsapevole (?) quando dipingendola le toglie la vita. Oso dire che non c’è nulla di esterno a Poe ma di assolutamente e manifestamente interiore, intrinseco alla sua singolare natura. Personaggi, ambienti, animali non sono all’esterno del suo essere ma al suo interno, egli li vede non con gli occhi ma li percepisce con tutto se stesso, attraverso lo sguardo interiore, che non necessita di occhi per vedere, per questo egli non deve cercare, al massimo sognare ad occhi aperti, e aprire la porta agli ospiti che affollano la sua psiche. In questo non c’è invenzione nell’opera di Poe ma la mia eretica affermazione gli va a merito onorando il suo genio contenente mondi degenerescenti, il riferimento all’opera di Evola lo farò più oltre e in modo puntuale. Poe è l’invenzione di se stesso, o meglio la trasposizione analitico scientifica artistica del suo io. Tutto ciò traspare anche dal suo viso, che lascia perplessi denunciando complessità nel temperamento e personalità singolari. Ti fissa in modo indefinibile, fanciullesco eppure profondo, la faccia asimmetrica, un sopracciglio più basso dell’altro. I baffi disallineati. L’espressione assorta e depressa, come di chi ha in animo di chiedere conforto; è Il grande malinconico, alcolizzato per necessità, e anche qui Baudelaire ci viene in aiuto: “…..Il suo profilo forse non offriva una vista piacevole…aveva grandi occhi tetri e insieme luminosi, di un colore indefinibile e tenebroso che tirava al viola; il naso nobile e solido; la bocca sottile triste, anche se leggermente sorridente…l’espressione un po’ distratta con un impercettibile  velo di malinconia…” Io  aggiungo, col rispetto dovuto al genio, che non affiderei in custodia nemmeno temporanea a uno come lui, non dico un bambino, ma nemmeno un gatto.

Al pari di Vincent Van Gogh che tentava di esorcizzare i suoi demoni dipingendo soli e stelle interiori, Poe non ci prova nemmeno, accetta i suoi demoni, perché essi sono parte di lui, li subisce, li coltiva, ne illustra  la suggestione, il magnetismo, l’orrore; dà loro il benvenuto senza tentare tuttavia di scacciarli o dominarli come faceva Van Gogh. Sa che non ci sarebbe speranza. Non c’è tentativo di riscatto nei suoi personaggi, ma l’accettazione supina di una realtà ineludibile. Non riabilitazione, né happy end, per chi ha le stimmate del genio e del folle, né per lui né per i protagonisti dei suoi racconti. Sia lui, sia Vincent Van Gogh, sia Friedrich Nietzsche, con ovviamente diverse inclinazioni ed esiti camminano su  sentieri paralleli, diretti a una meta comune: l’orlo dell’abisso, lo scrutano, lo valutano, lo patiscono l’abisso e la gran voragine della consapevolezza non si sottrae alla loro spietata e lucida indagine; i tre sono accomunati da una fine miserevole e tragica che non mi pare frutto di coincidenza. Loro hanno visto e, “bruciati” dalla consapevolezza, pagheranno. I tre hanno sondato l’abisso esteriore e interiore e da esso sono stati inghiottiti. Poe sa di non potersi salvare, non desidera del resto la piatta normalità del vivere dei comuni mortali. Genio, dicevo, ed ecco a questo proposito un riferimento puntuale dello stesso Poe (da “Eleonora”, 1841): “…Discendo da una famiglia famosa per il vigore della fantasia e l’ardore della passione. Gli uomini mi hanno chiamato pazzo. Ma non è stato ancora risolto il dilemma se la pazzia sia o non sia l’intelligenza più eccelsa, se molto di quello che è glorioso, se tutto ciò che è profondo, non scaturisca dal male del pensiero, dagli stati della mente esaltata a spese dell’intelletto comune. Coloro che sognano ad occhi aperti sanno molte cose che sfuggono a quelli che sognano soltanto di notte. Nelle loro grigie visioni balugina nei loro occhi l’eternità, e tremano svegliandosi, al pensiero di essere stati sull’orlo del gran segreto…E senza bussola e senza timone, si addentrano nell’oceano immenso della “luce ineffabile”…”

I prossimi post saranno dedicati al signore delle tenebre, la sua testimonianza appare troppo importante

scriveva Omar Ghiyās od-Dn Abol-Fath Omār ibn Ebrāhm Khayyām Neyshābri?

Alcune quartine di Omar Khayyam

63
Ahimè, ché del libro di gioventù siam giunti alla fine,
E il fresco april della vita sè fatto dicembre,
E quell’uccello giocondo che nome avea Giovinezza
Ahimé , non so quando venne, non so quando è partito.

65
Questo Intelletto, che della Fortuna calca la via,
Cento volte ogni giorno ti dice questo di nuovo:
Cògli quest’attimo, tu, del Tempo, chè certo non sei
Quel porro che tagliano oggi e che rispunta domani

174
Fosse dipeso da me, non sarei venuto nel Mondo,
E se da me dipendesse landarmene, mai me ne andrei.
E meglio di tutto stato sarebbe se in questo diroccato Convento
Non fossi venuto, né andato, né stato, giammai.

 191
Non cercare la Gioia: la vita non è che un sol soffio,
Ogni atomo è polvere secca di Kei-Qobâd e di Giàm.
E tutte le cose del mondo, anzi l’intero Universo,
Son fantasia di sogno, illusione d’inganno.

238
Il cielo che tutto contiene il nostro venire e l’andare,
Non ha né visibile fine, né manifesto principio.
E niuno mai disse il vero su questa difficil questione:
Da dove siamo venuti e dove andremo.

Nulla di nuovo sotto il sole dunque, se quattrocento anni dopo Lorenzo de Medici scrive:

Quant’è bella giovinezza,
Che si fugge tuttavia!
Chi vuol essere lieto, sia:
Di doman non c’è certezza
Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi; oggi siàn,
giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

E seicento anni appresso ecco Giacomo Leopardi, attanagliato dalla morsa del pessimismo cosmico. La tendenza al piacere, connaturata all’uomo, è per Leopardi infinita, sia perché non cessa mai, sia perché non accetta limiti all’intensità e varietà del suo soddisfacimento, ma nel contempo essa non può mai realizzarsi compiutamente poiché ogni piacere dell’uomo è comunque destinato al nulla della morte. Ne deriva un contrasto insanabile tra finito e infinito tra reale e ideale: una contraddizione che è propria dell’esistenza umana, condannata a cercare un piacere impossibile da conseguire pienamente e perciò inseparabile dal dolore e dalla noia.

Ma torniamo al nostro Omar Kayyām (Nshāpr, 18 maggio 1048  4 dicembre 1131) matematico, astronomo, poeta e filosofo persiano. Ghiyās od-Dn Abol-Fath Omār ibn Ebrāhm Khayyām Neyshābri (Persian: غاث الدن ابو الفتح عمر بن ابراهم خام نشابور) per il quale incomprensibile è la morte, l’ingiustizia del destino, e l’ingiustizia sociale. Incomprensibile tutte, e superabili solo per due vie, quella della tragica disperazione e quella della scettica ironia. Ma anche quella della terza via, non mistica ma robustamente musulmana.

190 Non sono io l’uomo che possa tremare di fronte alla Morte, Ché l’altra metà del Creato di questa metà m’è più dolce. Ho un’anima che Dio m’ha dato in prestito un giorno, La riconsegnerò puntuale appena il tempo sia giunto.
Le QUARTINE con prefazione e versioni dall’originale persiano di Alessandro Bausani sono una riscoperta di cui vale la pena parlare (l’edizione è dell’anno 1963 e la sovra copertina, ahimè, è ingiallita.

Così apprendiamo che… secondo alcuni Khayyami era un razionalista negatore di ogni dogma religioso, anzi un ateo e uno scettico, secondo altri era proprio il suo contrario, cioè un mistico, e secondo il suo recente editore persiano Mohammad Alî Forûghî invece fu un dotto, filosofo e matematico, dotato di una potente sensibilità poetica e che esprime tristezza e amarezza nel non riuscire a trovare con la sua ragione la verità assoluta nel mondo.

Per gli uni un ateo scettico, per altri un mistico esoterico, per altri ancora un filosofo che esprime in bei versi l’ansia di conoscere il Vero, inappagabile con la sola ragione. Per Arberry, l’inglese che lo scoprì e lo fece conoscere al mondo: fu poeta del pessimismo razionalistico, ma che non si prende mai troppo sul tragico e che allegra e ravviva il suo dire con una delicata vena di umorismo. Nella densa prefazione si legge ancora che: il poeta scienziato visse, studiò e assorbì un pensiero, che è quello islamico, possentemente e nudamente teistico e demitologizzato… Dio è sovrana e liberissima persona, le leggi della natura non esistono di fronte all’arbitrario Suo agire, ché Egli è sempre presente e occasionalissimamente a volta a volta tutto produce.
Concludo con questa accorata e splendida quartina che riconferma il desiderio inappagabile, centro del suo pessimismo cosmico, di tornare ad essere nel tempo fisicamente e individualmente:

163
Oh, fosse a noi dato di trovare infine un asilo di pace!
Oh, questo lungo andare, avesse, in fondo, una Méta!
Oh, fosse, dopo cento e mille anni, dal cuor della terra
Oh, fosse a noi data speranza di sorgere a nuovo com’erba!  

Non so ancora staccarmi da questo mitico e davvero grande protagonista della poesia persiana, nato due secoli e mezzo prima di Dante Alighieri, la cui figura è avvolta nella leggenda e così infine ancora cito:

57
Colui che fondò la terra e la volta celeste ed i cieli
Quante brucianti piaghe impresse nel cuore dolente!
E quante labbra di gemma e quante trecce di muschio
Racchiuse in arca di polvere, in scrigno di terra.

Se non è grande poesia questa dimmi te cos’è!

Ernest si era infatuato del Vate?

La notizia l’ho ricavata da un ritaglio di giornale ingiallito, probabilmente del 1984; l’articolo è di Franceso La Valle e il giornale è IL GAZZETTINO. Se fai qualche ricerca scopri quello che ho scovato io e che merita nuova attenzione. Ve la riporto come l’ho letta, evitando di commentare.
Americani Sul Grappa – Documenti E Fotografie Inediti Della Croce Rossa Americana in Italia Nel 1918
GIOVANNI CECCHIN Published by Asolo 1984. 

Ancora un libro, memorie, due personaggi stratosferici, così lontani eppure così intimamente legati nell’ammirazione che uno provava per l’altro, non so se ricambiata, e poi nella disillusione per un sogno andato in frantumi. Ernest Hemingway e Gabriele D’annunzio. Ovvero la strana coppia. Scrive lo scrittore americano: “mentre fumavo, vagavo col pensiero al grande amatore che, esaurito l’amore per la donna, stava ora spremendo sul suo infuocato cranio le ultime gocce di amor patrio. Com’egli avesse messo da parte i decreti delle nazioni per fare il filibustiere. Questo eroe ormai vicino al disarmo. Un amante che era solo fallito in una ricerca, quella della morte in battaglia. Avrebbe egli incontrato la morte che cercava o sarebbe stato di nuovo beffato?

Pensavo all’ultima volta che l’avevo visto quando scese dalla carlinga dopo il raid della Serenissima su Vienna. Come, con quel suo aspetto di vecchio avvoltoio calvo, egli s’era sfilato il pugnale con l’impugnatura d’avorio che portava alla cintura sopra il maglione di aviatore e disse al pilota: “Tu hai perseguito il tuo obiettivo, io no!”, e s’incamminò via. Mentre pensavo a questo D’Annunzio e guardavo dalla battagliola, mi sentii premere contro le costole la punta di un pugnale e una voce mi sibilò “Che fiamme?” “Fiamme nere” ansimai contro il parapetto.” Benissimo Scribe Frog Eyes (scribacchino occhi di rana). Finalmente si salpa, mi disse in inglese “Voltati…Grifone sta pilotando fuori il piroscafo…stai andando a Fiume Scribe. abbiamo requisito la nave stanotte. “Diavolo d’un Picks! Ora siamo lontani dal Grappa!” dissi. ….” Ora tutti gli Arditi sono laggiù col Gabriele. Bisogna stare nel gruppo. Questa sì che è vita.”
firmato Ernest Hemingway.

Nell’articolo ci leggi anche: A Chicago Hemingway nel 1922 scriveva del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” e l’articolo di Francesco La Valle conclude: In un personaggio della complessità di Hemingway, l’dentificazione ambivalente con D’Annunzio è sempre stata presente. Nel 1922 scriveva di lui nel contesto della famosa intervista a Mussolini: “D’Annunzio,… il vecchio calvo, forse un po’ matto, ma del tutto sincero e divinamente coraggioso fanfarone”E ancora nel 1950 in DI LA’ DAL FIUME E FRA GLI ALBERI: “il grande meraviglioso autore de IL NOTTURNO”. E fu proprio dal D’Annunzio musico della parola, oltre che “eroe” che Hemingway fu profondamente influenzato: dalla “magia” di una prosa fonica e ritmica, di semplicità e complessità evocative della musica. Tutte cose da approfondire, non ti pare?

Lasciami solo aggiungere una considerazione a margine, che ha il sapore dell’ovvio. Poteva forse continuare all’infinito quell’epoca di eroi, l’esaltazione del sangue bramoso di gloria e della mente che agognava nuove mete, emergenti come un fiume in piena nelle pagine del IL LIBRO ASCETICO DELLA GIOVINE ITALIA e nei discorsi esaltati con cui il Vate arringava i suoi legionari? Poteva andare oltre quell’avventura dello spirito, del sangue e delle armi, eredità ardenti ma scomode della prima guerra mondiale? Non poteva, è la risposta, infatti già si stava preparando il tempo nuovo, quello della normalità, della mediocrità dei nuovi soggetti politico sociali europei, anche se sarebbe occorsa una nuova guerra. L’eroismo, l’esaltazione, come l’amore e l’ardimento sono fratelli della giovinezza, quella che il vecchio avvoltoio calvo e un po’ matto, secondo Hemingway, ma sincero, non si rassegnava ad aver perduto; la normalità per lui era morte, ma non quella cercata in battaglia, bensì quella che esige oblio, silenzio, tacita rassegnazione, asservimento a nuove regole di vita per preparare una terra senza eroi, né proclami.

c’era la malinconia?

Non quella che credi tu, ma quella celebrata e coltivata da illustri poeti. Quel sentimento “nobile”, che sgorga come acqua triste e desiderata, da una polla, mica quella che ti prende all’improvviso a guardare fuori durante un giorno di pioggia o di sole, che tanto è la stessa cosa, anche se di questo “umore” risulta essere stretta parente, la malinconia degli artisti, di quelli che, ad esempio, soffrono perché vedono la loro città scomparire; in questo caso si tratta della Parigi di Baudelaire, che scrive:
Parigi cambia! Ma nulla è mutato nella mia malinconia:
palazzi nuovi, impalcature, massi,
vecchi quartieri, tutto in me diviene allegoria,
e i miei ricordi più
cari sono grevi come rocce.

Così scrive Baudelaire mentre la sua Parigi viene sventrata per obbedire al nuovo piano urbanistico. La malinconia che attraversa senza fretta la vita di poeti, artisti di ogni tempo e regione. La poesia allo specchio, che il poeta coltiva e di cui vorrebbe liberarsi, (ma sara poi vero?) e a cui riserva grande rilievo nelle sue rime. C’è tuttora la malinconia, vagoni di malinconia. Su LA MALINCONIA ALLO SPECCHIO di Jean Starobinski, pubblicato da Giulio Einaudi si legge: La malinconia ha un profondo legame con la riflessione e gli specchi. Forse nasce nel punto in cui lo sguardo s’incontra nello specchio, questa “trappola di cristallo”. Baudelaire è stato un mirabile testimone della congiunzione di specchio e malinconia. Un tale motivo, che ha dato vita ad allegorie e a rappresentazioni molteplici, esigeva un ascolto attento. Un ascolto qui consacrato ad alcune poesie, tra cui Le Cygne, autentico capolavoro. A questo si aggiunge, sotto l’influenza di Saturno, tutta la serie di “figure chinate”, di occhi che si abbassano su altri sguardi, su sguardi che si rivolgono alle lontananze della patria assente o del vano riflesso. “Vedo tua madre” si legge in La Lune offensée “che piega la greve massa dei suoi anni verso lo specchio, imbellettando artisticamente il seno che t’ha nutrito!”. (Jean Starobinski). Prefazione di Yves Bonnefoy. Il volumetto che ho io l’ha pubblicato Garzanti nella collana I Coriandoli e costava nel 1990 quindicimila lire per una novantina di pagine scarse! Deve avermela regalata qualcuno. Alla faccia della cultura per tutti e a buon mercato! ì Cos scrive Baudelaire mentre la sua Parigi viene sventrata per obbedire al nuovo piano urbanistico. La malinconia che attraversa senza fretta la vita di poeti, artisti di ogni tempo e regione. La poesia allo specchio, che il poeta coltiva e di cui vorrebbe liberarsi, (ma sará poi vero?) e a cui riserva grande rilievo nelle sue rime. C’è tuttora la malinconia, vagoni di malinconia. Su LA MALINCONIA ALLO SPECCHIO di Jean Starobinski, pubblicato da Giulio Einaudi si legge: La malinconia ha un profondo legame con la riflessione e gli specchi. Forse nasce nel punto in cui lo sguardo s’incontra nello specchio, questa “trappola di cristallo”. Baudelaire è stato un mirabile testimone della congiunzione di specchio e malinconia. Un tale motivo, che ha dato vita ad allegorie e a rappresentazioni molteplici, esigeva un ascolto attento. Un ascolto qui consacrato ad alcune poesie, tra cui Le Cygne, autentico capolavoro. A questo si aggiunge, sotto l’influenza di Saturno, tutta la serie di “figure chinate”, di occhi che si abbassano su altri sguardi, su sguardi che si rivolgono alle lontananze della patria assente o del vano riflesso. “Vedo tua madre” si legge in La Lune offensée “che piega la greve massa dei suoi anni verso lo specchio, imbellettando artisticamente il seno che t’ha nutrito!”. (Jean Starobinski). Prefazione di Yves Bonnefoy. Il volumetto che ho io l’ha pubblicato Garzanti nella collana I Coriandoli e costava nel 1990 quindicimila lire per una novantina di pagine scarse! Deve avermela regalata qualcuno. Alla faccia della cultura per tutti e a buon mercato!

Comunque, a parte il prezzo, le tre letture di Charles Baudelaire condotte da Jean Starobinski sono una chicca, un po’ ostica a volte, ma chicca rimangono. C’è da dire che quando i Francesi fanno qualcosa che riguarda i loro “idoli” indigeni fanno le cose in grande, mettendoci una cornice spessa e ricca. Scrive il critico: ho presentato agli ascoltatori del Collège de France, durante l’inverno 1987 98, otto lezioni sulla storia e poetica della malinconia, eccetera. Pare che durante le lezioni nessuno fiatasse tanto interesse c’era. Andando nel vivo, si legge:

O lettore quieto, bucolico,
o sobrio e ingenuo uomo perbene,
getta questo libro saturnino,
tutto orge e malinconie.

Simile all’eroina di Diderot, la Malinconia, allegorizzata da Baudelaire è giovane: le sue “noie” sono precoci; conosce “notti” languide. Scrive libero pensiero: a proposito della malinconia:
Da Aristotele a Orazio, da Leopardi a Baudelaire fino ad arrivare a Freud, la malinconia ha dominato la scena letteraria ed artistica per interi secoli, ammantandosi di diverse connotazioni: melanconia, acoedia, taedium vitae, tristitia, spleen, noia, depressione. Chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle illusioni e inclina alla malinconia.” Così scriveva Leopardi nello Zibaldone, addossando alla melanconia l’accezione di escavatrice della psiche umana, sondando abissi vergini di conoscenza, e conducendo l’uomo sul viale della verità, arduo da percorrere.

“La malinconia, sempre inseparabile dal sentimento del bello”, secondo l’autore de “Les fleurs du mal”, invece, non si agghinda della lieve delicatezza, che oggi siamo soliti attribuire a questo termine. Al contrario, essa si carica del molesto fardello della realtà, della dimensione terrena, assumendo le sembianze dello “spleen” a cui il poeta vuole accanitamente sfuggire per innalzarsi al divino, allo sconosciuto, all’inesplorato. Eppure, egli non riesce nel suo intento, spossato da una martellante disperazione. Uno specchio di voluttà solitaria, e uno specchio di dolore altrettanto solitario. Gli specchi sono gli officianti di un piacere perverso:

E poi giungevano le sere malsane, le notti febbricitanti,
Che fanno innamorare le giovani dei loro corpi,
E agli specchi, -sterile voluttà –
Contemplare i frutti maturi del loro nubilato”.

“Un volto di donna è una provocazione tanto più attraente quanto più il volto è generalmente malinconico”. Baudelaire conosce sicuramente, tutto il pericolo della malinconia e scrive: “Germinavagli nell’occhio la lacrima di qualche ricordo; e andava a vedersi piangere allo specchio”. E in quel che lo seduce sa leggere l’amarezza rifluente, come se venisse da privazione o disperazione, o ancora “bisogni spirituali, ambizioni tenebrosamente represse”. Baudelaire ha “coltivato” il suo isterismo” con gioia e terrore “, ma spera di “guarire di tutto, della miseria, della malattia e della malinconia”. Alla fine della sua avventura lo troveremo affetto dalla melanconia dell’azzurro e posseduto dalla “tristezza in cui ci getta la coscienza d’un male incurabile e organico“. Leggi cosa scrive a proposito di un cigno fuggiasco:

un cigno evaso dalla sua gabbia:
con i piedi palmati fregava il selciato arido,
trascinando il bianco piumaggio sul terreno accidentato,
Presso un ruscello secco l’animale, aprendo il becco,

immergeva febbrilmente le ali nella polvere,
e diceva il cuor tutto memore del suo bel lago natio:
Quando scenderai, acqua, quando esploderai, fulmine?”
Vedo quel misero, strano e fatale mito,

verso il cielo, talvolta, verso il cielo ironico
e crudelmente azzurro-come l’uomo di Ovidio
sul suo collo convulso innalzando l’avida testa-
in atto di lanciare rimproveri a Dio!

Scrive Starobinski: Il cigno in gabbia e un emblema superbo della malinconia. ...Evaso dalla gabbia per trascinarsi sull’arido selciato sotto i cieli freddi il cigno è votato alla più grave malinconia.Aggiungiamo che per il cigno evaso la libertà apparentemente riconquistata è una più grave separazione. Il passaggio da una prigionia accidentale a un esilio essenziale- a una mancanza e a una shiavitù assolute.
Non ho resistito a riportare alcuni dei suoi più famosi versi che sicuramente conosci:

Spleen
Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve
Sull’anima gemente in preda a lunghi affanni,
E in un unico cerchio stringendo l’orizzonte
Riversa un giorno nero più triste delle notti;

Quando la terra cambia in un’umida cella,
Entro cui la Speranza va, come un pipistrello,
Sbattendo la sua timida ala contro i muri
E picchiando la testa sul fradicio soffitto;

Quando la pioggia stende le sue immense strisce
Imitando le sbarre di una vasta prigione,
E, muto e ripugnante, un popolo di ragni
Tende le proprie reti dentro i nostri cervelli;

Delle campane a un tratto esplodono con furia
Lanciando verso il cielo un urlo spaventoso,
Che fa pensare a spiriti erranti e senza patria
Che si mettano a gemere in maniera ostinata.

E lunghi funerali, senza tamburi o musica,
Sfilano lentamente nel cuore; la Speranza,
Vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica ed atroce,
Infilza sul mio cranio la sua bandiera nera…

Siamo in tema: malinconia che diventa speranza vinta, angoscia dispotica e atroce necessaria per i suoi versi fecondi. Il grande Baudelaire metteva nero su bianco la malinconia, la utilizzava insomma e senza assumere antidepressivi.

Isabel portava le treccine? Ora scrive “prosa poetica”

Sai cosa diceva Flaubert nelle sue “Memorie di un pazzo” a proposito della Poesia? Questo diceva: Noi restiamo a terra, su questa terra gelida che soffoca ogni fiamma, che smorza ogni ardore! Per quale scala tornare dall’infinito alla realtà ? Fino a che punto la Poesia può abbassarsi senza morire? Come imprigionare questo gigante che abbraccia l’immensità?

Mica l’ho scritto io, la frase è di Gustave Flaubert, come dire: uno che la sapeva lunga sulla Poesia. Gigante che abbraccia l’immensità: mitico, francesissimo Gustave! E Poesia sia! Ma nel mio ultimo post sulla Poesia ho promesso di non deludere chi mi segue, senza parlare a vanvera e voglio dunque portarti prove tangibili, concrete, esse sono necessarie per convincerti di quanto sia indispensabile che tu ricordi di quando c’era (e c’è tuttora, come inderogabile necessità di espressione) la Poesia e di quanto oggi sia raro riconoscerla e coltivarla. Ma c’è qualcuno che lo fa, senza clamore, lontano da atteggiamenti presuntuosi. Succede spontaneamente, e con sorpresa. Si dice dei giovani, ci si lamenta dei giovani, a volte a ragione, spesso a torto; fumano, bevono, si stordiscono, trascurando gli studi, eccetera, i giovani dovrebbero essere il futuro e invece guarda che roba. Ma i giovani sono il futuro. Eccone un esempio. Quando Fernanda mi dice: Leggi se vuoi, e quando hai tempo poi mi dici cosa ne pensi. Non mi piace dare pareri, nemmeno ad amici. Poi rileggo e infine le chiedo: Ma chi è che scrive così ? Mia figlia. dice lei. Tre pagine in tutto che lasciano tuttavia perplessi. Isabel, che ho visto bimba con le treccine e la lingua fuori, intenta a disegnare e colorare una margherita, ora scrive liriche. Animo sensibile, introverso, e riflessivo, indovino io, come quello dei poeti autentici. Squarci lirici che giungono a illuminare una età difficile come quella degli adolescenti (sono sempre problematiche le stagioni verdi della vita). Ecco quello che Isabel scrive presentando prima sé stessa:

Sono Isabel Ibrahim, ed ho quindici anni e mezzo. In questo momento sto frequentando la terza liceo scientifico, o per meglio dire, devo ancora iniziarla. Ho deciso di scrivere queste prose poetiche in seguito a degli attacchi d’ispirazione creativa. La scrittura mi è sempre piaciuta fin da piccola, e la fantasia per me non è di certo un problema. Quando sarò cresciuta ed avrò trovato un buon lavoro (spero nella medicina), cercherò di esprimere al meglio le mie idee su carta e penna. È ovvio che io non mi aspetti né del successo né nell’immediato, spero solo di rincuorare delle persone attraverso la lettura di quanto ho prodotto. 

ALBA
Sono le sei. Il sole sorge, ed io osservo i suoi raggi colorare il blu. Intanto penso alla vita che si sveglia, alle persone che in questo momento sono pronte a ricominciare. Molti che in questo momento stanno ancora dormendo, chi invece a quest’ora e già andato: molti che di dormire non ne hanno voluto sentir parlare, tormentati dal tutto e dal niente. Altri che si stanno finalmente abbandonando al riposo, perlopiù
amanti, che soltanto sotto lo sguardo amorevole della Luna si sono potuti sognare. Persone che non hanno potuto vederla, quest’alba: altri ancora che sono nati col suo calore, portandone a propria volta nel petto di chi li ha accolti nel mondo; altri che non hanno mai potuto vederne il colore. Altri che sono ormai dispersi nelle ombre, sebbene la luce possa ancora frastagliare le loro membra ed incastonarsi nelle sfumature delle loro iridi; altri che insieme al Sole rinascono ogni dì e si spengono all’arrivo della notte, pronti ad un nuovo inizio. E così osservando le ultime stelle lasciare spazio a quella più imponente tra loro, ascolto i primi suoni della città, dove ogni tipo di vita è presente; ed anche se a volte in conflitto con le altre, si sa che la vera lotta è contro se stessi e solo quando ce ne si accorge allora sì che ci sarà l’alba anche nel proprio cuore.

PIOGGIA 
Una sola parola con un solo significato noto sul dizionario. Ecco cosa sono. Si sa cosa voglio dire, cosa posso portare, in bene ed in male, si sa quando posso arrivare, ma non si sa mai quando smetterò di cadere. Si sa, sono acqua, puro e semplice liquido vitale sotto forma di goccia, che scende a ritmi irregolari dal cielo, bagnando il suolo, o ciò che verrà investito al suo posto. Tutte cose banali, semplici, pratiche, risapute, inutili a ripetersi. Eppure molti non sanno chi è la pioggia. 
C’è chi mi chiama ‘meraviglia del creato’, ed io, arrossendo per questi complimenti, persisto nel bagnare il suolo, per lasciare un po’ di gioia a chi mi apprezza; chi si incanta osservando le mie nuvole, trovandole più interessanti e maestose che mai; chi di me non se ne fa nulla, e continua la sua corsa, nonostante le mie gocce si infrangano sulle sue vesti; altri che invece, appena sentita la notizia del mio arrivo, si alterano, prendendosela con me perché ho rovinato i loro piani; altri ancora che con la mia vista si rattristano, perché il mio grigiore li fa star male, ed è in quel momento che le mie nuvole si dissipano per lasciar spazio al sole, non volendo togliere il sorriso a quelle dolci creature. Ma chi è veramente la pioggia? 
Molti filosofi mi hanno paragonata alle lacrime, poiché la mia immagine appariva loro come lo scivolare del fiele bagnato sulle guance. 
Molti pensano che io non abbia un sapore, un odore, un suono, un tocco, un colore. Eppure, io un colore ce l’ho. È quello dell’arcobaleno quando il sole irradia le mie pozzanghere; è quello degli ombrelli quando le mie gocce si frastagliano su di essi; è quello di tutte le pelli che verranno colpite; è quello trasparente delle finestre, che quando mi permettono di sostare sul loro vetro, riesco a vedere le stanze che stanno proteggendo. 
Ho anche un sapore, e non è solo quello di smog o sabbia, ma anche quello che nessuno riesce a percepire: quello di una cioccolata calda stretta tra le dita per scaldarsi; è quello dell’amore che si consuma sotto il mio bagnato abbraccio, e quando, per aiutare qualcuno ad amarsi in silenzio, diminuisco la mia cadenza, per non disturbare le anime che stanno sugellando il loro sogno. 
Ho anche una varietà infinta di odori, dal solito di erba bagnata, fino ad arrivare al meno comune di torta appena sfornata lasciata a raffreddare al vento. 
Ho
persino un tocco, che può essere vellutato sulla pelle, o spigoloso sul suolo. Il mio tocco può anche rendere scivolose le superfici, e molte volte vorrei che non fosse affatto così. Ho udito tante cose quando il terreno era scivoloso, e dalle risate per chi cade nel fango con i suoi amici, si può giungere anche ai clacson prima di un incidente.  
In ultimo ho un suono, che varia, davvero tanto: vaga dai miei tuoni che spaventano i più fragili, alle canzoni suonate sotto la mia vista, perché ciò dona un senso di libertà. Nei miei suoni, però, ne esistono anche di peggiori: rumori di spari, urla di dolore attutite dal rombo dei miei tuoni, ed il sangue che viene lavato via dalle mie carezze, come per celare un oltraggio, mentre il buio della notte protegge chi ha sofferto. 

Ciò che nessuno sa è anche un’altra cosa: posso soffrire. Soffro durante i funerali, e li accompagno, per permettere a chi non si vuole mostrare di nascondere le sue lacrime dietro le mie. Soffro quando due amanti si lasciano, quando altri si uniscono ma so che così patiranno e basta. 
Posso provare preoccupazione, ed angoscia. Lo posso fare, specialmente quando una confessione sta per squarciare l’atmosfera più di quanto non lo facciano già i miei lampi. Divento preoccupata nell’osservare le strade bagnate, sperando che nessun albero ceda alla mia forza ed interrompa il viaggio di qualcuno. 
Però, a mio modo, io posso anche gioire per molte cose, piccole o grandi che siano. 
Divento
felice, ad esempio, nell’osservare il disegno di un bambino, mentre sosto sulla finestra posta accanto a lui. 
Lo sono anche quando un progetto ambizioso viene portato a termine nel migliore dei modi. 
Gioisco sapendo di essere la causa di molti sorrisi, specialmente quelli dei cani, quando cominciano a fiutare il mio odore nell’aria. 
Sono felice quando qualcuno mi dedica delle poesie. Quando qualcuno si mette a ballare nella gioia più sfrenata mentre io accompagno il loro ritmo col mio scroscio. 
Posso essere tante cose, nel bene e nel male, basta sapermi conoscere a fondo: alla fine sono soltanto una lacrima del cielo.  
Ecco chi sono. 

Una nuova poetessa all’orizzonte? Una nuova Joan Baez, Emily Dickinson, Gertrude Stein, Anna Akhmatova, Christina Rossetti, una delle tre sorelle Brontë o Sylvia Plath? solo il tempo lo dirà a proposito di Isabel. Tutta farina del suo sacco? Non c’è motivo di dubitarlo. Poesia, che sgorga naturale come da una polla d’acqua quella di Isabel, e tremendamente matura. Come puo esserlo il sentimento di una giovane che non va a ballare in discoteca e che preferisce riflettere, stando china sulle pagine dei libri, ispirata da ciò che LA PIOGGIA le suggerisce. Ce n’è bisogno di ragazze come Isabel, alla quale auguriamo ogni successo scolastico e artistico. Dicendo agli scettici che poesia e lirica non moriranno mai. Come la prosa poetica di Isabel insegna.

c’era la Poesia? (II)

Come ti dicevo: di poesia c’è bisogno come il pane. Perché? Ti chiederai. Comincio il post facendoti una domanda. Ma davvero ti senti superiore e diverso e migliore perche tu sei vestito e lui invece non lo era? Sto parlando del troglodita del Paleolitico che ha istoriato con scene di caccia pareti e soffitti delle grotte di Altamira in Spagna. Ti senti superiore a lui? Io no e non faccio l’originale o il bizzarro a oltranza. Tutt’altro. Sono serissimo. Pare che fossero in molti nel corso di migliaia di anni ad aver graffittato gli interni delle grotte! Sai cosa c’ è lì dentro? Il nostro futuro c’è. E la bellezza pura, ovvero la Poesia. Non si direbbe in una grotta. Vero? Chi l’avrebbe mai detto, proprio là  dentro, al buio! Da migliaia di anni attende. Le nostre origini ci sono, sui soffitti della grotta, dalle quali non possiamo né dobbiamo derogare, c’è il futuro di poeti, artisti, e pittori e graffittari. Il tuo futuro. Ovvero il pezzo migliore della nostra anima e del nostro intelletto e dell’intelligenza creativa.

Tutto registratro in una grotta. Un condensato di energia, di rappresentazione, di volontà di trasmettere una emozione, il troglodita privo di computer voleva lasciare qualcosa di suo, evidentemente, una scena, episodi di vita, e l’ispirazione, ovvero poesia allo stato puro. Per visitare quei luoghi oggi devi fare una coda di tre anni, se bastano. Sai di cosa parlo? di roba che e stata prodotta nella notte dei tempi. E cioe dai 25.000 ai 35.000 anni fa, questo dicono i test di laboratorio. Anni in cui la nonna di tua bisnonna non era ancora nata. E nella notte dei tempi uno sconosciuto seminudo prende carboncino, ematite e ocra per tracciare e colorare capolavori d’arte che probabilmente hanno ispirato lo stesso Picasso, il quale pare, anche se non è confermato, abbia detto al termine di una visita alle grotte, : “Dopo Altamira, tutto è decadenza.” Sottoscriviamo il suo parere all’istante, prendendolo alla lettera. Arte, Poesia, appunto, allo stato puro, già allora, da leggersicome esigenza insopprimibile, esclusivamente umana. Ma dimmi una cosa: chi glielo faceva fare al troglodita di turno sobbarcarsi quelle fatiche? Magari era affetto da artrite deformante o da torcicollo. Mica c’era il supermercato sottocasa e il cibo se lo doveva procurare, cacciando e rischiando la ghirba. Per cosa si metteva a graffiare muri? che ai tempi non c’erano nemmeno inviti e cocktail di presentazione ne’ musei, o critici specializzati, e nemmeno le fagocitanti leggi di mercato dell’arte. Per danaro? Ma se dovevano ancora inventarlo il denaro! Per chi istoriava l’energumeno con scene di caccia i muri di casa sua? Semplice: per se stesso, prima di tutto e poi per te e per me. Le grotte sono state definite Cappella Sistina della Preistoria e mi fermo qua. Gli slogan roboanti sono il prodotto dell’evo moderno, del resto. Di slogan viviamo, surrogati sintetici che vorrebbero sostituirsi all’oggetto, in questo caso di bellezza e suggestione inarrivabili. E oggi? Oggi no, non prendiamo più in mano ematite carboncino e ocra, per strada non ci sono. Allora io ti dico che se vuoi contrastare con successo i malanni che comporta vivere all’ammasso, intruppati nelle nostre megalopoli, fintamente protetti da occhi che ti scrutano, spiano e registrano chi sei e cosa fai e come ti muovi per condizionarti meglio in un secondo tempo, devi guardarti intorno e riflettere. Per contrastare efficacemente nevrosi, ansia e depressione e il timor panico di esistere, e combattere contro l’irraggiungibile chimera della modernità a ogni costo, che ti costringe ad adottare un sistema di vita contro natura, devi fare una scelta. E scendere nelle grotte di Altamira o in altre assai più antiche nel Borneo, ma pare che sia maledettamente scomodo raggiungere le Sulawezi, proprio per compensare i frustranti riti collettivi imposti dalla modernità che di umano hanno solo l’etichetta, devi scegliere insomma. Opponendo la tua forza a quella del sistema, al vivere secondo schemi, ritmi e abitudini studiati e progettati da altri per il benessere conclamato e la ricchezza esorbitante di pochi.

Devi prendere carboncino e ocra e metterti all’opera. (Trattasi di metafora, ma nemmeno poi tanto). Tu, da solo o in gruppo. E scendere nel profondo. Disegnare, scrivere, dipingere, scolpire, insomma creare, come han fatto i nostri antichi parenti, frugando dentro e fuori te stesso. Cercando e illustrando secondo Poesia. E sai perché ? Perché di poesia c’è bisogno come il pane, come ce n’era bisogno allora, 25.000 e 50.000 anni fa. C’è necessità che tu ti liberi, che tu esprima te stesso, facendo della tua Poesia un motivo per vivere, (l’unico? Non lo so) un mezzo fondamentale di espressione, del salutare liberarsi del tuo istinto creativo. Son retorico? Nemmeno un po’. Guardati attorno. Smetti un attimo di stare incollato a testa china all’iPhone, al tablet, allo schermo del computer. Diventi gobbo e ti viene il pollicione. Smetti, fruga, sogna e crea. Il troglodita attende che tu raccolga il testimone. In fondo sono passati solo trentamila anni. Ce l’hai anche tu, ne sono certo, si chiama vecchio progetto, si chiama sogno nel cassetto, e ambizione di fare al di là di schemi imposti, abitudini, nefaste utopie di progresso ed editori che fanno i bottegai (anche se non c’entra molto in questo contesto). Prova, per te stesso innanzi tutto, prova come ha fatto il troglodita, che non aveva nemmeno a disposizione la vicina della porta accanto alla quale chiedere: Ti piace? L’ho fatto io. Chiamala per nome, un dolce nome ma potente come la vita stessa: si chiama Poesia. Vedo che mi manca lo spazio, al prossimo post la dimostrazione di quanta ragione io abbia, con i fatti.

c’era la Poesia? (I)

Poesia con la P maiuscola non le poesiole che ti han fatto imparare a forza a scuola, torturandoti memoria e pazienza. P come poesia, come esordisce onniscente, wikipedia: La poesia (dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”) è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di parole secondo particolari leggi metriche. Fin qua non ci piove. Oggi non ci sia più. Sparita. Non è più merce attuale né facilmente reperibile, forse perché derrata deperibile, scusate la scipita allusione. Pare che non serva. La poesia. E se ne accenni sei accolto da un mezzo sorriso di compassione. La Poesia? E cos’è, si mangia? Meglio una caramella. Ma riguarda un passato nemmeno tanto remoto la poesia. La poesia non interessa, annoia, è fuori moda e fuori dal tempo, se parli di poesia oggi parli di quella del passato coi suoi poeti laureati e non. Non parliamo di poeti, non facciamo nomi, morti e viventi, potrebbero anche offendersi i pochi rimasti in circolazione, se ne esistono. Come ogni altra arte la Poesia necessita di ispirazione, se non c’è non c’è poesia ma vuoto balbettio o frastuono fastidioso, più gridi e meno fai poesia. Hai capito? La poesia può anche gridare o sussurrare ma deve essere autentica, cioè sentita, e partire dal cuore, ma non basta. Di poesia si muore nel senso che se nasci poeta oggi sei morto in partenza, devi trovarti un’alternativa, un mestiere per vivere. Perché? Perché la poesia pare non serva più, essendo roba vecchia, inservibile. Di poesia si muore, oggi. Nel senso che se nasci poeta la troverai davvero dura. Un tempo no, era diverso. Il poeta, quello autentico, era riverito e desiderato e ospitato nelle corti europee in cui vivevano rispettati e protetti i trovatori e i menestrelli che in musica cantavano storie e la gloria del loro signore e di belle dame. Ispirazione, dicevamo, come nei mestieri: chi nasce falegname difficile che faccia il fabbro o il calzolaio, ispirazione come inclinazione, vocazione, vita. I cimiteri della creazione son pieni di poeti veri o fasulli, morti per davvero…di fame o disperazione. Devi rifarti al passato se vuoi capirci qualcosa, c’era la poesia epica, il più grande dei poeti insegna, versi di gloria, amore e morte a cantare gli sbudellamenti sotto le mura di Troia per colpa della bella Elena, così dice la leggenda, smentita dalla storia, che parla invece di questioni commerciali. Niente di nuovo sotto il sole, eh? Il mito nutre la grande poesia, la bellezza, la forza, lo spirito di avventura, incarnato da Ulisse che di avventura ne sapeva qualcosa. Ma se il mito sparisce che fai? Con la poesia si tramandavano gesta, miti e leggende, che poi sono le nostre radici se ci pensi bene, qualcosa che ti fa diverso da un albero o da un pesce. Quanti i versi di ispirazione sacra?

Una montagna, dieci montagne e vallate, il sacro ispira la poesia (uno dei motivi per cui oggi non ce n’è più in circolazione, a pagarla oro, ovvio, no?) il fraticello di Assisi che svetta come poeta eccelso con il suo Cantico delle Creature, lode a Dio creatore e alle sue creature e la lauda drammatica di Jacopone da Todi che ispira il teatro poesia nel suo Donna de Paradiso. Ti ricordi quando c’era la poesia? Quando scriveva Petrarca della sua bella Laura, e allora è poesia d’amore, del sentimento, per lodare l’amore e cantarlo in ogni sua declinazione, vedi: bisogno di parlare di sentimenti e di occhi lucidi e di occhi che si accendono e di piogge e cascate di fiori sui capelli dorati e di Beatrice che ispira Dante a fare

quel bel viaggetto nell’al di là, ovvero poesia allegorica, e poi versi che narrano di fughe di ninfe amate da fauni e satiri e compagnia bella, per non parlare dell’amor tragico nei versi che tutto il mondo conosce degli amanti disperati Paolo e Francesca. Amore e morte che ispirano il verso. Roba da recuperare in soffitta, dunque. C’era bisogno di fissare sulla carta quell’antico amore. Altri combustibili che nutrono la Poesia ce ne sono, ma di altro genere, i versi del grande Foscolo sono ispirati dal rimpianto della sua bella patria Zante che mai più rivedrà e poi dall’impegno civile quando parla dei Sepolcri, e dalla contemplazione di sé stesso e del paesaggio che allude a un paesaggio dell’animo e della mente. Vagar mi fai sull’orme che vanno al nulla eterno. Robetta? Beh, non proprio. E Dio dove sta? Te lo dico un’altra volta. Per non sottacere i non entusiasmanti versi del Manzoni su Napoleone stecchito: Ei fu siccome immobile
dato il mortal sospiro stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro, eccetera, e quindi passiamo alla politica. E sulla condizione umana e la disperazione della giovinezza che trascorre e l’impotenza del poeta e sul pessimismo annichilente di Leopardi che contempla sé stesso e la natura e allora si rifugia nella poesia come nell’unico mezzo decente per sopravvivere. L’istrionico D’Annunzio ricorre alla poesia e le sue fonti di ispirazione sono molteplici: si parla di morte, di mito, di eroismo, avventura e di bellezza, sempre, parla cioè di sé stesso. Alla radice della Poesia ci stanno le molte, ma non tantissime, ispirazioni aspirazioni dell’uomo, ad ogni secolo (se va bene) la sua poesia. Un due tre quattro, non mi viene in mente un accidente se parlo del nuovo secolo-millenio. Forse che Neil Armstrong parla un nuovo linguaggio poetico quando sbarca sulla luna? E vai sulla luna senza essere ispirato da quello che vedi? Se c’è poesia nello sguardo degli astronauti se la tengono tutta per loro, non la diffondono. Quello che hanno provato oltre al timore di non ritornare e alle difficoltà del viaggio rimane segreto, tabù. Ma non divaghiamo. Oggi di poesia ce ne sarebbe bisogno, uno straziante bisogno, un bisogno enorme, così gigantesco che nessuno se ne rende conto, per questo ti chiedo: Ti ricordi della Poesia? È dentro di te e disperatamente cerca uno sbocco, una fessura, un appiglio per poter emergere, (la dimostrazione al prossimo post.) Sono sicuro di averti incuriosito abbastanza, e siccome un post non può annoiarti ed essere lungo come un’autostrada ti rivedo al prossimo che, indovina un po’, parlerà sempre di poesia, e avrà qualche sorpresa in serbo.