li scaricavano per la strada?

Passava un camion e l’addetto li afferrava con gli uncini di Capitan Uncino per deporli sul marciapiede. Servivano al lattaio, al verduraio, al panettiere no, che non ne aveva bisogno, al macellaio nemmeno che negli anni Cinquanta ne aveva uno tutto suo di frigo, speciale, una specie di cassaforte buia a muro, da cui prelevava lombate e carne da fare il sugo, che poi macinava davanti a te. Prima del frigo, prima dell’avvento della scienza del freddo cosa c’era? Blocchi di ghiaccio sfusi e gocciolanti, protetti da gran sacchi di juta, destinati a squagliarsi per via e che dovevano durare quel tanto che bastava per conservare alimenti e bibite del giorno fino a notte fonda. Quei blocchi avevano un cuore più caldo, un cuore candido e ghiaccio trasparente tutt’attorno, che sembrava vetro. Così pensavo io, rammaricandomi nel sapere che a fine giornata il trancio semitrasparente si sarebbe consumato fino a sparire. I blocchi di ghiaccio servivano addirittura a blocare la fioritura troppo precoce dei peschi! Da non credere. Ti sembrava impossibile che ci fossero sempre bevande fredde in circolazione e che il freddo arrivasse proprio da quei blocchi e solo da loro. Sui viali c’erano i botteghini delle bibite all’estate, melone e cocco in secchi e bacinelle dove il ghiaccio, galleggiava, fino a tardi. E quando non ce n’era più cosa succedeva? L’alternativa era un tè bollente, ma i nostri costumi non sono come quelli dei cammellieri del deserto. Aranciata e Coca Cola senza ghiaccio? Davvero impensabili! Il ghiaccio moriva, pensavo, preoccupato per la sua sorte. La mamma di tutti i freezer era la ghiacciaia

da cui arrivava l’algido ben-di-dio. A Torino, ad esempio, dove sono nato, proveniva dalle ghiacciaie sotterranee di Porta Palazzo, o da quelle della Consolata, dove i camion lo prelevavano, che, se prendi corso Regina Margherita ci arrivi in due minuti da casa mia.
Rispetto alle altre città, Torino era avvantaggiata dalla vicinanza delle Alpi, dove c’erano vari ghiacciai utilizzati come cave, sia in Val di Susa che nelle Valli di Lanzo. Tagliato in blocchi di dimensioni che potevano essere facilmente trasportati e manipolati e che, allo stesso tempo, permettevano di farne arrivare a valle il più possibile, il ghiaccio raggiungeva Torino avvolto in sacchi di juta bagnati, con cui si cercava di farlo durare il più possibile. Nella vita contadina il ghiaccio era indispensabile per fare il burro, uno degli alimenti di primaria necessità poiché nelle regioni del Nord era (ed è) utilizzato al posto dell’olio.

Ogni paese aveva la sua “nevaia” o “ghiacciaia”, un buco profondo, in un luogo freddo, in ombra, dove si raccoglieva la neve durante l’inverno e si copriva il tutto con fascine. Questa neve finiva per trasformarsi in ghiaccio che durava fino all’inverno successivo. La persona che custodiva la nevaia, tagliava, con una sega, man mano il ghiaccio necessario e, alla fine dell’estate, il buco era diventato così profondo che gli occorreva una scala a pioli per arrivare in fondo alla nevaia…Ti ricordi del frigo, allora?! Del primo frigo, ovvero del mastodonte che ti avevano piazzato in cucina e che metteva tutti a tacere, con la sua algida mole. Di colpo secoli erano stai inghiottiti dal progresso, di colpo gli Americani avevano detto e fatto mutando abitudini e modo di mangiare e bere. Cosa c’ è in frigo? Tanto bastava per organizzarsi oggi, domani, il resto della settimana. Ghiacciaia addio, ancestrali fatiche addio. I nuovissimi aggeggi di colpo annullavano la dipendenza dalla neve, dal ghiaccop naturale, Il ghiaccio bell’e pronto, asettico, perfetto, pronto all’uso e commestibile anche! in cubetti, in ovetti aveva preso il sopravvento. Piu freddo, meno freddo, Decine di secoli a centellinare il freddo per far durare i cibi, il rito del freddo, il mito del freddo, non piu, per le generazooni a venire. La bara bianca a tre, due, uno sportello risolveva tutto. surclassati da quel parallelepipedo ronzante. Non Ti ricordi dei frigo, ma del Primo frigo. Mia cugina si era addirittura fatta fotografare accanto al suo, pieno di cibo, con le porte aperte in segno di abbondanza e di riuscita economico sociale. Lo guardavi con reverenza, quasi temendo che, all’improvviso, non funzionasse più e invece, come per le lavatrici, che anche se le prendevi a mazzate (come recitava una certa pubblicità) continuavano a funzionare, anche il bianco sarcofago continuava a emettere il suo imperterrito rassicurante ronzio. La Coca Cola senza ghiaccio pare sia una schifezza. Ti ricordi del primo frigo? Ma questa è un’altra storia.

c’era l’Italia? (2)

Quel pezzo d’Italia che si chiama Liguria, ad esempio, che per i Liguri è tutta l’Italia, avendo problemi di intesa anche coi confinanti riservati Piemontesi, tanto per citarne un pezzo, perché per i Liguri ce n’è una sola di Italia, la loro, (e non solo per loro) appunto quella fetta di terra che si affaccia sul mare omonimo, ma non sono i soli a nutrire sentimenti regional nazionalistici. E non puoi dargli torto e biasimare il risentimento di una regione dal forte passato e orgoglio politico militare e dalla esclusiva connotazione identitaria, diciamo che la maggioranza delle regioni in questo senso è assimilabile alla Liguria, avara delle sue tradizioni ai cui abitanti danno fastidio le torme di turisti che affollano ogni anno le sue spiagge e che, pare lo facciano ancora, affittano le loro abitazioni, per avere qualche soldo in più, condividendole con i detestati invasori nordisti. Dite che non è cosi? Ne ho le prove. A Varazze io ci andavo in vacanza proprio in quel modo. Si nasce, vive e muore da Liguri, ma io mi sento ligure come loro, come faccio a dirglielo agli spezzini, savonesi e genovesi che la loro terra appartiene anche a me? Magari si incazzano se glielo dico.

Quando ascolto la tristissima, accoratissima e bellissima canzone cantata da Bruno Lauzi sull’emigrante genovese che comincia con Mi se ghe pensu.… mi identifico col protagonista e mi commuovo come una bertuccia, anche se di ligure non ho proprio niente, sebbene per anni sia stato in vacanza sul mar Ligure. Mi commuovo lo stesso perché anche dal Veneto e dal meridione salpavamo per l’altrove, cercando fortuna e lavoro. Una mia zia, infatti, si chiamava Argentina e i suoi cugini hanno colonizzato quella terra omonima, si fa per dire, proprio come i Liguri, i Veneti, Piemontesi, e i terroni, eccetera. Ma non divaghiamo. Il prezzo della riunificazione italica lo abbiamo pagato tutti e lo stiamo ancora pagando, sentendoci defraudati, disillusi e traditi gli uni dagli altri, e facendo confronti fra prima e dopo. Non è forse così ? Ovvero le regioni col loro potente irrinunciabile passato hanno dovuto delegare e affidarsi a un potere unico che stenta a meritare fiducia e consenso. Lampante. Le aspettative disilluse e le sorti delle tante Italie prima della riunificazione non corrispondono al tran tran attuale, sta sotto gli occhi di tutti, innegabile; come potrebbe l’Italia di oggi rinnovare i fasti di una repubblica di Genova, o la grandezza di Venezia e del Regno Lombardo Veneto quando battibeccava coi Turchi, e delle repubbliche marinare oppure lo splendore del regno delle due Sicilie, visto che Napoli nel Settecento era considerata una capitale della cultura e dello stile di livello europeo (vai a leggere per favore quello che scrive il portale del Sud: (Napoli era la seconda città d’Europa (dopo Parigi) e la quinta nel modo, più grande di New York! e di Tokio. Era soprattutto la splendida capitale barocca, amica delle arti, dei commerci, delle scienze, straripante di turisti e viaggiatori…) e produceva statue da mozzarti il fiato come quelle del Corradini.

Ti ricordi della Siena di Gianna Nannini? La sua Italia e Siena, quando parla della sua città le si illuminano gli occhi. Ma lei cosa ne sa di Sezzadio, Cassine, di Fubine, e di Crea o di Asti e Cuneo. Come fai a dire Italia, voglio dire? Tante Italie, come quelle esplorate dal lodevole Alberto Angela, (ma perché non lo mettiamo a capo dei Beni culturali Alberto Angela e con pieni poteri di intervento?) Nel suo infaticabile lavoro di presentazione e promozione dell’italico suolo egli ci dà risposte ghiotte e davvero interessanti che dovrebbero catalizzare il nostro interesse. Le sue trasmissioni fanno il tutto esaurito, ma l’interesse si trasformerà in noi in voglia di amare e fare qualcosa per l’Italia? Che non sono (solo) quattro stupefacenti ruderi disseminati qua e là. E intanto l’Italia muore, inarrestabile la sua fine, a partire dalle sue coste, a partire da quelle di Rosignano Sovay, ad esempio, dove un mare morto assomiglia a un mare vivo dei tropici, ma cosi non è. Ti ricordi dell’Italia? Di quale Italia? dirai te. Non so nemmeno più io su quale soffermarmi. Quella degli Etruschi, dei Sabini, dei coloni greci, dei sette re di Roma, o quella imperiale di Augusto o ancora quella antecedente, di fieri popoli incoercibili che la popolavano prima che la forza dei Romani riuscisse a fatica a prendere il sopravvento e li costringesse insieme, ma insieme non ci siamo mai stati, ….già allora c’erano problemi di comprensione. Quale Italia ti chiedo se ricordi, quella splendida che l’Europa tanto ci invidiava? Quella che nutriva il mondo intero con l’ineffabile creazione di Michelangelo, Leonardo, Crivelli, Botticelli, Mantegna e Brunelleschi? O quella successiva alla calata del bruttarello e timido re di Francia Carlo VIII in cerca di gloria e di recupero del suo regno di Napoli? Così ben documentata da Silvio Biancardi nel suo libro La chimera di Carlo VIII, o quella dei torinesi, pugnaci e tosti che tramavano per riunificarla sotto l’egida del Cavour e della mai amata dinastia dei Savoia. Ma come fa un ferrarese ad amare un Savoia, me lo spieghi? Lui ha ancora in testa la corte degli Estensi e il bollito alla piemontese mal si conciglia con la salama da sugo di Formignana e il pasticcio di maccheroni di Ferrara, arcinoti nel mondo. E a un borbonico come fanno a piacergli i Savoia? A chi lo diceva a un palermitano che non c’era più il suo Ferdinando ma un Vittorio Emanuele re d’Italia, o’ usurpatore, ovvero il nuovo padrone del vapore. Quando penso all’Italia mi gira la testa e penso anche a mia nonna che aveva fatto dodici figli spazzati via per metà da malattia e spaventi, allacampagna di Gualdo, Formignana, Tresigallo, affondata nella pianura padana che sono in pochi a conoscere, tranne Ferrara e Bologna si capisce. Ma se ti ricordi di qualche Italia in particolare, che alla fine son tutte particolari, dimmelo, a me la memoria comincia a far difetto.

passava sputacchiando con la sua Indian a tre marce?

Era già così cinquant’anni fa. Non sapete chi è a meno che non abbiate vissuto in borgo Vanchiglia, a Torino, subito dopo la Guerra. Nemmeno io so chi è, se non che si chiamava Emilio e che andava su e giù per borgo Vanchiglia col suo bolide che sfrecciava a quaranta all’ora!

emilio

La sua Indian a tre marce, col cambio a leva, la teneva cara come non mai, in un buco di un cortile in corso San Maurizio con l’acciottolato sempre umido dove spuntava l’erba. La sua Indian color bordò opaco e lui. Inseparabili. Emanazioni di un Tempo che non è più. Sentivo scatarrare la sua marmitta all’inizio della via. Arriva Emilio! Pensavamo in casa. Aveva anche il side car entro cui chiudeva talvolta la moglie. E da vedovo se ne andava in giro col side car vuoto. Gli ho detto un giorno: posso farle una foto? Non ha detto niente, poi ha detto di aspettarlo. È venuto giù dopo un quarto d’ora, abitava in un alloggio di ringhiera che si affacciava al cortile. Con i pantaloni stirati e le scarpe lucide per farsi fare la foto.  Poi si è messo in posa per la foto che sembrava una statua. Mi ha raccontato che una volta si è messo della benzina sul collo per farsi passare il bruciore di una puntura di vespa, che gli era passata sotto la sciarpa e lo aveva punto. Teneva insieme la sua Indian col filo di ferro. Le mani bruciate da benzina e olio motore. Emilio è un reperto, testimone della vita di borgo Vanchiglia, subito dopo la Guerra. Venuto dal nulla, per la mia memoria, e sparito nel nulla. Di tipi così oggi non ce ne sono in circolazione. E di cortilii che odoravano di sapone da bucato e brodo neanche. Nemmeno Salvatore, il gran barbiere siculo, altoparlante del borgo c’è, dalle scarpe lucide come il pavimento di un transatlantico e la madre della Ginetta che mi soffocava di abbracci con le tette grosse come bisacce semisgonfie e nemmeno Francesca, grossa come un armadio, portinaia per vocazione, figlia di Carlo il ciabattino cosmico, gran bestemmiatore di Madonne, che mi aveva onorato per avermi tenuto a battesimo. Più nessuno c’è in borgo Vanchiglia, a Torino.

il sole era da vendere?

IL MERCANTE DI SOLE TORNO SUBITO, lo abbiamo trovato scritto una volta sul cartello appeso all’ingresso. Il tempo di un caffè, di una sigaretta, fumata velocemente sul terrazzo della stazione di Lambrate a Milano. Andrea e Mauro tornano subito al lavoro. Perché davanti alla loro vetrina e dentro la libreria c’è sempre gente. Di sabato, qualche volta di domenica, di giorno e di sera. La libreria LOGOS MONDADORI è un luogo di frontiera, un avamposto sulla linea di demarcazione che divide la città da quella zona informe che prelude agli imbocchi delle autostrade. Una libreria speciale, in un luogo particolare che merita una visita. Davanti alla sua vetrina ci passa buona parte dei dodici milioni di passeggeri che ogni anno transitano nella stazione; speciale perché i titolari consigliano e commentano l’ultimo libro del mese rendendosi partecipi delle vostre scelte. Se è la prima volta che ci andate sicuramente ci tornerete. Contigua alla libreria c’è anche un bar dove servono un caffè eccellente. Per non parlare della sala d’aspetto della stazione proprio davanti al suo ingresso. C’è un posto migliore per sbirciare le prime pagine di un libro appena comprato? Ma qual è l’ultimo libro segnalato questa settimana da Andrea e Mauro? Un libro singolare che potrete trovare solo alla LOGOS MONDADORI. IL MERCANTE DI SOLE,

titolo che Mondadori aveva un tempo in catalogo e che ora detiene l’editore Lorenzo Fornaca di Asti. Perla dimenticata di Angelo Gatti, autore poco noto al grande pubblico e ingiustamente trascurato dalla critica. Cos’ha di speciale il libro? Parecchie cose. Perché anche se l’autore non si chiama Marcel Proust tratteggia una singolare Recherche indagando i fantasmi di un mondo perduto e mai più ritrovato con un’abilità psicologica e ritrattistica eccellente. I dialoghi sono il piatto forte del romanzo. Ma non solo. C’è una serie di squarci lirici e vividi che incantano: Cominciava un pomeriggio di luglio soffocato e abbagliante, e un calore d’incendio, un odore d’arsiccio gravavano sulla campagna. Paesi calcinati, vigne bruciate dal verderame e ingiallite dalla polvere, campi mietuti spaccati dal gran secco, apparivano e sparivano nell’aria immobile. Sulle strade deserte gli alberi gettavano ombre ancora brevi. Si legge nella prima pagina del libro e a pagina 95: Il cielo, rimbombando fremette, e le vibrazioni mutarono in lampi; tutti i campanili risposero a quello d’Alliano. Un immenso corale si levò e allargò, cantato in piena sonorità dalle campane e dalle campanelle; colpi acidetti, squilli argentini, rintocchi cupi si inseguirono e si fusero; poi i suoni, raccolti in una invisibile nuvola, viaggiarono sui colli e sulle valli.

Ambientato nel profondo nord della provincia astigiana, fra vigne, campi, borghi e un castello in rovina in procinto di essere ceduto da una nobildonna squattrinata, il romanzo si dipana su più livelli e ha, fra i vari protagonisti, una presenza costante di assoluto rilievo. La campagna e la magia di una terra faticosamente e dolorosamente dissodata da cariatidi con mani enormi, dure come il legno dei loro badili. Tutto qua? Assolutamente no. Mentre la lontanissima Torino subisce i bombardamenti degli aerei inglesi in missione notturna qualcuno ammirerà quei bei fuochi d’artificio che scoppiano nella notte. È la contraerea che fa il suo lavoro o una gran festa d’estate?! Tratto di un mondo perduto, col sottofondo di una rivoluzione sociale ed economica ancora in corso. E con l’incerta sensazione che il mondo stia davvero cambiando, ma solo apparentemente in meglio. Nel nuovo mondo, nelle pagine de IL MERCANTE DI SOLE emergono due figure femminili magistralmente tratteggiate. La figlia dell’acquirente del castello, fascinosa e inquieta creatura di stampo dannunziano, afflitta da un oscuro dolore e una bimba indifesa e sensibile che ammira con occhi spalancati il bagliore degli scoppi delle bombe su Torino, ma forse si tratta solo di fuochi d’artificio. Dimenticavamo il protagonista di questa Recherche in terra astigiana: Cuordileone di nome e di fatto, eroe positivo a oltranza che spande ottimismo e buoni pensieri per tutta la vicenda. Gli contendono la scena una serie di comprimari fatta da nobildonne decadute, sognatori e figli del progresso, oltre a uno stuolo di cani e contadini stizzosi, muri corrosi dal tempo, talpe e bruchi velenosi e una quantità di uccelli chiamati ad uno ad uno per nome che allietano quella terra e la bella d’erbe famiglia e d’animali di foscoliana memoria. Ma è il Monferrato astigiano che alla fine ruba la scena. Infinitamente più saggio e fascinoso delle bizzarre creature che ospita. Violentato attraverso la sistematica distruzione della sua antica bellezza, defraudato della lussureggiante profondità dei boschi, decimati dalla speculazione, imbruttito con l’edificazione selvaggia dei suoi borghi. Non voglio fare un elenco, se no mi vengono i fumi, basta pensare a Moncalvo. Senza tregua, senza rispetto, gli insulsi distruttori che lo abitano sradicano tradizioni, bellezza e poesia. Nell’inconsapevolezza totale. IL MERCANTE DI SOLE contiene anche questa denuncia, purtroppo ancora oggi così attuale. L’accattivante copertina è un simpatico disegno a fumetti che ricorda i tempi andati ed è di Valter Piccollo. I diritti de IL MERCANTE DI SOLE appartengono al comune di Asti, che ha consentito di realizzare una nuova edizione a Lorenzo Fornaca.