Non so se hai mai letto ISOLE NELLA CORRENTE del grande Ernest, ultima sua opera prima del suicidio. Opera minore che parla di un pittore, dei suoi figli e delle relazioni fra lui e loro, di bevute stratosferiche seduti al bancone di un bar, di una battuta di pesca, probabilmente una delle migliori che siano mai state scritte, della morte tragica dei figli, e anche della caccia a una combriccola di soldati crucchi. Il racconto, come ti ho detto, non pè dei migliori, ne parlo tuttavia perché ti “costringe” a leggerlo fino alla fine, questa è la magia della scrittura di Hermingway. Sarà il mito che H. seppe nutrire o subire? Sarà il personaggio fragile e malato, a detta del suo amico Orson Welles, Hemingway: aspirante rodomonte dai piedi d’argilla. I personaggi ricorrenti a bevute dall’alto tenore alcolico per sopportare l’onere della loro esistenza, sono individui “provvisori” , spacconi, o aspiranti grandi artisti, percorrono esistenze senza sbocco né costrutto, Ma se vuoi sapere come si pesca e si perde un pesce gigantesco nell’oceano e i “fragli” rapporti fra padre e figli il libro fa per te. In molti personaggi avverti la loro inconfondibile natura americana, che è quasi un leit motiv, riscontrabile anche in altri autori, una navite, una fanciullezza dello spirito, il loro stupore davanti alla natura e al mondo in genere. Quello che mi preme sottolineare è che in un libro come questo, forse un po’ noioso, dove le vicende sono vissute da perdenti vive quella scrittura che ha reso grande lo scrittore americano. Quanto il mito di H. pesi sui suoi lavori influenzando i lettori è evidente. Lo sai scritto da lui, per cui predisponi la tua attenzione. Tanto basta a seguirlo fino alla fine, che in questo caso non prevede un finale eclatante, né eroico, né tantomerno da vincente.
Hai letto H. e tanto deve bastare. Per dirla come il mito del personaggio sopravanzi o confonda il vero valore della sua opera. Il suo “marchio” comunque lo avverti, fatto di disperazione, depressione, e fallimento esistenziale sottotraccia,. Se malato, come davvero lo è stato, un grandissimo malato, un fragile logorroico, reduce dalla vita come molti dei suoi personaggi, nato con la penna in mano, e morto con la penna in mano. Uno che aveva conosciuto e ammirato non poco Gabriele D’annunzio e i suoi Arditi, per poi rimangiarsi l’ammirazione scrivendo a Chicago nel 1922 a proposito del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” . Effettivamente di noi gli Americani capiscono pochino.
Ticchetetac, faceva e poi dopo decenni di servizio il ticchettio si ridusse a poco più di un mormorio elettromeccanico contenuto e rassicurante: non faceva più Ticchetetac ma: sssrrrbim! la macchina elettrica ora va a capo da sola e corregge. Un po’ come dire: dalla legna da ardere al metano. Non comandi più un astina con un carattere scolpito in cima ma una sferetta metallica, una vibrante pallina tecnologica in grado di cambiare stile del carattere! Uno schianto di macchina, dalla imperscrutabile tecnologia, visto che le lettere, tutte le lettere dell’alfabeto sono scolpite in altorilievo su quella sferetta nervosa che preme sulla carta lettere e numeri. Ti ricordi quando hai scritto prima su una, poi sull’altra? Strumento indispensabile per ogni super segretaria di direzione e non. Ecco come ti condisco una delle invenzioni più straordinarie che il mondo abbia conosciuto.
Sei andato avanti per anni, e ti pareva che fosse il massimo della tecnologia per la scrittura. Senza neppur saper immaginare che genere di rivoluzione ti attendeva dietro l’angolo. Lettere e numeri di metallo che imprimevano sulla carta il loro significato, crampi alla mano addio! Un progresso reputato inarrestabile, del rivoluzionario avvento del computer nemmeno l’ombra. Manuale, meccanica, elettrica ed elettronica. Così ti ho descritto l’evoluzione del modus scrivendi. Ci pensava lei! La macchina da scrivere ticchetetac. Leggera portatile o mastodontica e inamovibile come un ammasso di pesante ferraglia. L’ultimo ritrovato, portatile e non, prodotto della tecnologia più moderna. Il mondo scriveva a macchina, proclami, editti, lettere di licenziamento e assunzione, romanzi, racconti brevi e necrologi, tesi di laurea e cronache “a caldo” di giornalisti, che sulle loro portatili redigevano cronache e reportage, magari appoggiando la prediletta Olivetti Lettera 22 sulle ginocchia come faceva Indro Montanelli.
Il succedaneo di carta e penna, anzi qualcosa che surclassava definitivamente l’antico modo di comunicare, durato migliaia di anni. Ti ricordi il giorno del tuo compleanno quando mamma e papà te l’hanno regalata? Ce l’aveva la vicina di casa, una siculo tunisina di belle maniere, appena approdata dal nord Africa che ti aveva detto infila il foglio se vuoi, ma il numero 9 non lo batte, è scassato il tasto. Grave mancanza della formidabile macchinetta sciorina lettere. Ti sei messo a tavolino e da allora devi ancora smettere di battere sui suoi tasti neri cerchiati di ferro. Così avresti desiderato, ma le cose non sono andate a quel modo, perché i tempi hanno imposto altre diavolerie. Io, che sono legato alla tradizione e a tutte le cose che ammuffiscono in soffitta, e che parlano a oltranza la lingua delle cose obsolete, scomode, trapassate e fuori del tempo, la ricordo con rimpianto, così personalizzata, e imperfetta, e ho fatto fatica ad adeguarmi, a parte i costi nel comprare nuovi aggeggi per la comunicazione. Carta e penna vi saluto! …e io pago.. Dicono che sei antiquato ma al computer non hai voluto piegarti per anni! Solo quando ti hanno obbligato hai ceduto. Il problema è che facevi difficoltà a trovare i nastri inchiostrati per scrivere e che la gente cominiava ad additarti per strada dicendo: Quello lì e un troglodita! Vuole continuare a lavorare con la macchina da scrivere! Onta e disonore, quasi mi cacciavano dalla redazione di un periodico di informazione tecnico industriale!
La macchina da scrivere, non pus ultra della tecnologia, ovvero il prolungamento del pensiero cullato dal famigliare, amichevole, rassicurante ticchettetac. Io ne ho avute cinque, di tutte le marche. Corona, Triumph, Olivetti, portatili e non, di metallo non scalfibile o dalla carenatura di plastica, mastodontiche creature inamovibili, così imponenti e impossibili da ignorare, macchine da scrivere da tavolo anche per comporre racconti e romanzi, e superpiatte “gazzelle” con cui stendere cronache marziane e lettere di dimissione. Poi ho dovuto cedere anch’io, nessuno accettava manoscritti e inediti redatti con la macchina da scrivere. Ti avrebbero guardato con orrore e derisione descrivendoti come marziano. Ti saresti tagliato fuori da solo facendoti bollare per antiquato, non mi viene un altro termine decisamente meno diplomatico. Ma questo da dove viene? Dal Carbonifero? Dalle caverne? Dal cembalo scrivano di Giuseppe Ravizza, che permetteva ai ciechi di scrivere, alle Remington e Olivetti,
conosciute e premiate per la loro affidabilità. Macchine iper robuste, affidabili e moderne per quei tempi di tumultuosa effervescenza creativa. Sempre più perfezionate e silenziose per redigere documenti velocemente e in modo standard. La fine di inchiostro e pennino coincide con l’invenzione nel 1802 di Agostino Fantoni. La macchina da scrivere conta comunque circa 52 padri inventori, un record che ci dice quale fosse il desiderio e la volontà di produrre velocemente documenti “perfetti”, immediatamente comprensibili da tutti e standard, lontani anni luce dai parti faticosi e laboriosi dello scrivere a mano. Mi viene quasi da sorridere se penso al giorno in cui qualche nuovo aggeggio potrà sostituire il nostro amato odiato computer, o forse non ce ne sarà più bisogno perché avremo perso ogni capacità, necessità e desiderio di esprimerci?! E basterà fissare un foglio di carta per vederlo riempirsi di caratteri e cifre. Trasmissione del pensiero? Solo bizzarre fantasie?! Ma se non ci saranno più pennini, carta, inchiostri, computer e obsolete tastiere, non ci sarà più niente di quel genere me lo dici con cosa e su cosa scriveranno i futuri Omero e gli Aleksei Nikolaevich Tolstoi di turno?
Prima o poi doveva capitare qualcosa del genere. Qualcosa di davvero importante anche se sottotraccia. Pochi si sono accorti della cosa e della sua rilevanza. Non occorre scomodare Darwin, le mutazioni, la fisica quantistica, o l’inclinazione dell’essere mutante che intende sopravvivere e poi affinarsi. Il terremoto non ha fatto il gran botto, la trasformazione è strisciante; sto parlando della trasformazione di una specie, che, di solito, inizia con eventi minimi per poi definirsi macroscopica. Ovvero il nano metterà in crisi i giganti, ma né uno né gli altri ora ne hanno contezza. E il seme darà i suoi frutti o prima o poi. La mutazione potrà mettere in crisi l’intero sistema, una prassi consolidata e un malcostume in via di peggioramento vertiginoso. Succede a Napoli, patria delle eccelse sculture di Antonio Corradini, custodite nella cappella San Severo. Napoli, scrigno di bellezze spesso segrete, e che nel 700 era una fra le prime città europee in fatto di cultura e innovazione, due volte più grande di Milano, tanto per dirne una. Bando alle ciance e vengo al sodo. Avevo scritto che gli editori (dicesi editore individuo che in virtù del suo fiuto scopre, scommette investe e lancia un autore, convinto del valore del suo lavoro) erano una razza in via di estinzione, salvo alcuni eroici individui che hanno impegnato anche la camicia per tentare di fare cultura.
Un volume di HOMO SCRIVENS
Le case editrici di grido languono incapaci di svolgere il vero ruolo che è quello di promuovere cultura e civiltà o anche solo dibattito e ricerca: languono in un pantano fatto di pubblicazioni apocrife, di volumi a pagamento (succede anche nelle grandi case editrici, e io ne so qualcosa visto che ho le mani in pasta anche nell’attività di ghost writer.) Dicevo?! Ah! sì. Della scomparsa della razza degli editori, sostituiti da tipografie paludate, da stampatori blasonati e intrallazzati, che fanno di tutto all’infuori di stimolare idee e ricerca. Gli editori di oggi non sanno più scoprire Jack London, Italo Svevo o Stephen Crane, ammesso che autori di quel calibro siano oggi in circolazione. Sono lontani i tempi in cui Gabriele D’Annunzio citava il suo editore chiamandolo Monte d’oro di stirpe Aldina (era Mondadori). Monopolizzando lo spazio in libreria gli editori moderni devono piazzare il loro prodotto, come fosse shampoo o tonno in scatola, non esiste differenza. Tu dirai che è aria fritta, che non dico nulla di nuovo e hai ragione. Ma per confortarti ti dirò due parole su quanto è successo a Napoli e che merita attenzione. L’autore ha preso il posto dell’editore, ovvero alcuni scrittori si son detti basta! e, senza troppo clamore, son diventati editori, protagonisti della loro scelta e lettori, in un colpo solo, lo riporta il quotidiano IL MATTINO di Napoli. E tu non chiami questa rivoluzione? Succede a Napoli, città verace e con ogni evidenza alternativa e creativa. Così è accaduto che gli editori autori si sono dati un nome chiamando la nuova creatura HOMO SCRIVENS, descritta in modo limpido e onesto da Aldo Putignano.
Nella presentazione gli autori-editori-lettori precisano che non intendono annegare nel fango dell’editoria a pagamento ne’ che sono la casa editrice più importante dell’universo ma: “siamo brava gente”. Affermazioni che la dicono lunga sull’attuale situazione editoriale italiana e, forse, mondiale. A HOMO SCRIVENS gli autori editori hanno preso il timone in mano, collaborano con istituzioni e editori amici e si danno un sacco da fare tentando altre strade, seguendo la loro creatività tutta partenopea. Non è fumosa o velleitaria la loro intenzione, basata sulla precisa decisione di eludere logiche di mercato grottesche e stantie. Basta ascoltare il breve video di presentazione. Voglio fare un augurio a questi prodi: che la loro iniziativa prenda piede, che porti a qualcosa di nuovo, capace di smuovere le mefitiche acque di una palude che conduce alla morte della lettura e quindi della conoscenza, che insegni qualcosa di sano e originale ai grandi nomi promotori della ex cultura italiana, fagocitati nel loro recente passato da inclinazioni politiche e ora sorrette dal nulla e da sclerotiche logiche di mercato.
Collaboratori di HOMO SCRIVENS
Quelli di HOMO SCRIVENS meritano attenzione e successo, chissa dove approderanno?! Scrive MACROLIBRARSI: Homo Scrivens è una casa editrice anomala: nata da un laboratorio di scrittura tenuto a Napoli, è formata da scrittori che hanno deciso di aiutare altri colleghi a far conoscere le proprie opere al pubblico, anche quelle che case editrici a pagamento decidono di rifiutare. I titoli trattati riguardano soprattutto la narrativa: racconti, romanzi, testi italiani, scrittura collettiva e saggi sulla scrittura. Un gruppo di editori che ha come obiettivo quello di fare da ponte diretto di collegamento tra i lettori e gli autori.
Sai cosa diceva Flaubert nelle sue “Memorie di un pazzo” a proposito della Poesia? Questo diceva: Noi restiamo a terra, su questa terra gelida che soffoca ogni fiamma, che smorza ogni ardore! Per quale scala tornare dall’infinito alla realtà ? Fino a che punto la Poesia può abbassarsi senza morire? Come imprigionare questo gigante che abbraccia l’immensità?
Mica l’ho scritto io, la frase è di Gustave Flaubert, come dire: uno che la sapeva lunga sulla Poesia. Gigante che abbraccia l’immensità: mitico, francesissimo Gustave! E Poesia sia! Ma nel mio ultimo post sulla Poesia ho promesso di non deludere chi mi segue, senza parlare a vanvera e voglio dunque portarti prove tangibili, concrete, esse sono necessarie per convincerti di quanto sia indispensabile che tu ricordi di quando c’era (e c’è tuttora, come inderogabile necessità di espressione) la Poesia e di quanto oggi sia raro riconoscerla e coltivarla. Ma c’è qualcuno che lo fa, senza clamore, lontano da atteggiamenti presuntuosi. Succede spontaneamente, e con sorpresa. Si dice dei giovani, ci si lamenta dei giovani, a volte a ragione, spesso a torto; fumano, bevono, si stordiscono, trascurando gli studi, eccetera, i giovani dovrebbero essere il futuro e invece guarda che roba. Ma i giovani sono il futuro. Eccone un esempio. Quando Fernanda mi dice: Leggi se vuoi, e quando hai tempo poi mi dici cosa ne pensi. Non mi piace dare pareri, nemmeno ad amici. Poi rileggo e infine le chiedo: Ma chi è che scrive così ? Mia figlia. dice lei. Tre pagine in tutto che lasciano tuttavia perplessi. Isabel, che ho visto bimba con le treccine e la lingua fuori, intenta a disegnare e colorare una margherita, ora scrive liriche. Animo sensibile, introverso, e riflessivo, indovino io, come quello dei poeti autentici. Squarci lirici che giungono a illuminare una età difficile come quella degli adolescenti (sono sempre problematiche le stagioni verdi della vita). Ecco quello che Isabel scrive presentando prima sé stessa:
Sono Isabel Ibrahim, ed ho quindici anni e mezzo. In questo momento sto frequentando la terza liceo scientifico, o per meglio dire, devo ancora iniziarla. Ho deciso di scrivere queste prose poetiche in seguito a degli attacchi d’ispirazione creativa. La scrittura mi è sempre piaciuta fin da piccola, e la fantasia per me non è di certo un problema. Quando sarò cresciuta ed avrò trovato un buon lavoro (spero nella medicina), cercherò di esprimere al meglio le mie idee su carta e penna. È ovvio che io non mi aspetti né del successo né nell’immediato, spero solo di rincuorare delle persone attraverso la lettura di quanto ho prodotto.
ALBA Sono le sei. Il sole sorge, ed io osservo i suoi raggi colorare il blu. Intanto penso alla vita che si sveglia, alle persone che in questo momento sono pronte a ricominciare. Molti che in questo momento stanno ancora dormendo, chi invece a quest’ora e già andato: molti che di dormire non ne hanno voluto sentir parlare, tormentati dal tutto e dal niente. Altri che si stanno finalmente abbandonando al riposo, perlopiù amanti, che soltanto sotto lo sguardo amorevole della Luna si sono potuti sognare. Persone che non hanno potuto vederla, quest’alba: altri ancora che sono nati col suo calore, portandone a propria volta nel petto di chi li ha accolti nel mondo; altri che non hanno mai potuto vederne il colore. Altri che sono ormai dispersi nelle ombre, sebbene la luce possa ancora frastagliare le loro membra ed incastonarsi nelle sfumature delle loro iridi; altri che insieme al Sole rinascono ogni dì e si spengono all’arrivo della notte, pronti ad un nuovo inizio. E così osservando le ultime stelle lasciare spazio a quella più imponente tra loro, ascolto i primi suoni della città, dove ogni tipo di vita è presente; ed anche se a volte in conflitto con le altre, si sa che la vera lotta è contro se stessi e solo quando ce ne si accorge allora sì che ci sarà l’alba anche nel proprio cuore.
PIOGGIA Una sola parola con un solo significato noto sul dizionario. Ecco cosa sono. Si sa cosa voglio dire, cosa posso portare, in bene ed in male, si sa quando posso arrivare, ma non si sa mai quando smetterò di cadere. Si sa, sono acqua, puro e semplice liquido vitale sotto forma di goccia, che scende a ritmi irregolari dal cielo, bagnando il suolo, o ciò che verrà investito al suo posto. Tutte cose banali, semplici, pratiche, risapute, inutili a ripetersi. Eppure molti non sanno chi è la pioggia. C’è chi mi chiama ‘meraviglia del creato’, ed io, arrossendo per questi complimenti, persisto nel bagnare il suolo, per lasciare un po’ di gioia a chi mi apprezza; chi si incanta osservando le mie nuvole, trovandole più interessanti e maestose che mai; chi di me non se ne fa nulla, e continua la sua corsa, nonostante le mie gocce si infrangano sulle sue vesti; altri che invece, appena sentita la notizia del mio arrivo, si alterano, prendendosela con me perché ho rovinato i loro piani; altri ancora che con la mia vista si rattristano, perché il mio grigiore li fa star male, ed è in quel momento che le mie nuvole si dissipano per lasciar spazio al sole, non volendo togliere il sorriso a quelle dolci creature. Ma chi è veramente la pioggia? Molti filosofi mi hanno paragonata alle lacrime, poiché la mia immagine appariva loro come lo scivolare del fiele bagnato sulle guance. Molti pensano che io non abbia un sapore, un odore, un suono, un tocco, un colore. Eppure, io un colore ce l’ho. È quello dell’arcobaleno quando il sole irradia le mie pozzanghere; è quello degli ombrelli quando le mie gocce si frastagliano su di essi; è quello di tutte le pelli che verranno colpite; è quello trasparente delle finestre, che quando mi permettono di sostare sul loro vetro, riesco a vedere le stanze che stanno proteggendo. Ho anche un sapore, e non è solo quello di smog o sabbia, ma anche quello che nessuno riesce a percepire: quello di una cioccolata calda stretta tra le dita per scaldarsi; è quello dell’amore che si consuma sotto il mio bagnato abbraccio, e quando, per aiutare qualcuno ad amarsi in silenzio, diminuisco la mia cadenza, per non disturbare le anime che stanno sugellando il loro sogno. Ho anche una varietà infinta di odori, dal solito di erba bagnata, fino ad arrivare al meno comune di torta appena sfornata lasciata a raffreddare al vento. Hopersino un tocco, che può essere vellutato sulla pelle, o spigoloso sul suolo. Il mio tocco può anche rendere scivolose le superfici, e molte volte vorrei che non fosse affatto così. Ho udito tante cose quando il terreno era scivoloso, e dalle risate per chi cade nel fango con i suoi amici, si può giungere anche ai clacson prima di un incidente. In ultimo ho un suono, che varia, davvero tanto: vaga dai miei tuoni che spaventano i più fragili, alle canzoni suonate sotto la mia vista, perché ciò dona un senso di libertà. Nei miei suoni, però, ne esistono anche di peggiori: rumori di spari, urla di dolore attutite dal rombo dei miei tuoni, ed il sangue che viene lavato via dalle mie carezze, come per celare un oltraggio, mentre il buio della notte protegge chi ha sofferto. Ciò che nessuno sa è anche un’altra cosa: posso soffrire. Soffro durante i funerali, e li accompagno, per permettere a chi non si vuole mostrare di nascondere le sue lacrime dietro le mie. Soffro quando due amanti si lasciano, quando altri si uniscono ma so che così patiranno e basta. Posso provare preoccupazione, ed angoscia. Lo posso fare, specialmente quando una confessione sta per squarciare l’atmosfera più di quanto non lo facciano già i miei lampi. Divento preoccupata nell’osservare le strade bagnate, sperando che nessun albero ceda alla mia forza ed interrompa il viaggio di qualcuno. Però, a mio modo, io posso anche gioire per molte cose, piccole o grandi che siano. Divento felice, ad esempio, nell’osservare il disegno di un bambino, mentre sosto sulla finestra posta accanto a lui. Lo sono anche quando un progetto ambizioso viene portato a termine nel migliore dei modi. Gioisco sapendo di essere la causa di molti sorrisi, specialmente quelli dei cani, quando cominciano a fiutare il mio odore nell’aria. Sono felice quando qualcuno mi dedica delle poesie. Quando qualcuno si mette a ballare nella gioia più sfrenata mentre io accompagno il loro ritmo col mio scroscio. Posso essere tante cose, nel bene e nel male, basta sapermi conoscere a fondo: alla fine sono soltanto una lacrima del cielo. Ecco chi sono.
Una nuova poetessa all’orizzonte? Una nuova Joan Baez, Emily Dickinson, Gertrude Stein, Anna Akhmatova, Christina Rossetti, una delle tre sorelle Brontë o Sylvia Plath? solo il tempo lo dirà a proposito di Isabel. Tutta farina del suo sacco? Non c’è motivo di dubitarlo. Poesia, che sgorga naturale come da una polla d’acqua quella di Isabel, e tremendamente matura. Come puo esserlo il sentimento di una giovane che non va a ballare in discoteca e che preferisce riflettere, stando china sulle pagine dei libri, ispirata da ciò che LA PIOGGIA le suggerisce. Ce n’è bisogno di ragazze come Isabel, alla quale auguriamo ogni successo scolastico e artistico. Dicendo agli scettici che poesia e lirica non moriranno mai. Come la prosa poetica di Isabel insegna.
Ho esagerato!? Certamente. Ma soprattutto incongruo, se considerate che il fatto risale a decine di anni fa e internet non era nemmeno nel limbo delle grandi rivoluzioni
– Vai a vedere questo tizio cosa vuole; è giù nell’atrio. Dice di essere un vero malese. Non come lo sceneggiato della televisione.- Sibila il capoufficio del marketing. – Se non è matto portalo in redazione. Magari ci scappa un articolo. –
Matto non era Jimmi Naidu; un tigrotto della Malesia in carne ed ossa che mi si para davanti con un sorriso obliquo, protestando la sua origine e dicendo:- Kabir Bedi è indiano, non può fare Sandokan alla tv. Sai? Io sì, io della Malesia, tu sai?- e un breve fischio aspirato concluderà quella e molte altre frasi successive.
Il blog di Mario Paluan, così mi chiamo, inizia idealmente dall’incontro con Jimmy, nell’atrio del quotidiano LA STAMPA, una mattina di aprile del 1976. 37 anni fa vi avrei messo così al corrente degli sviluppi, peccato che mail e blog dovevano essere ancora inventati. Da lì comunque inizia una delle mie numerose vite. Il blog c’è adesso e parte proprio da quella vicenda.
Non c’erano dubbi sulle origini di Jimmy; il suo sguardo penetrante ti scrutava e non riuscivi a indovinare quello che avrebbe detto o fatto un minuto dopo. Ci frequentammo il tempo sufficiente per progettare il viaggio dei viaggi, sorta di sogno occhi aperti on the road per gli irrequieti giovani di allora.
La misteriosa Kabul divenne la meta designata, col nome annidato su una vecchia carta geografica.
Ma non so nemmeno io perché proprio Kabul. –Mi piacerebbe davvero andarci- dissi, dopo una piccantissima cena malese a casa sua. –Tu vuoi andare là, vuoi? Tu, eh? Andiamo!- Disse col suo fischio aspirato. E partimmo dalla sua casa di corso Belgio a Torino, con scatole di pomodori e spaghetti e la voglia di avventura che andava a mille, a bordo della sua Citroën con famiglia al seguito.
A proposito, se non avete necessità inderogabili, sempreché gli Iraniani vi facciano varcare la frontiera verso l’Afghanistan, pensateci bene prima di tentare il viaggio. È facile immaginare il genere di ostacoli che incontrereste oggi. Gli anni ’70 sono finiti da un pezzo e poi di tigrotti della Malesia come Jimmy, che oggi gestisce un raffinato ristorante a Torino, si è perso lo stampo. Qualcuno di voi è per caso andato da quelle parti?
Da quel viaggio, diciamo così, alquanto accidentato, è stato tratto un ebook; Verso Kabul edito da Premedia, 37 anni dopo.