li incontri per strada? eppure non esistono!

Quelli che non esistono sono tanti ma non si sa esattamente quanti. Vivono ai margini, nascosti, coesi, diffidenti e quasi mai si mescolano con noi. A volte danno fastidio e spesso puzzano, per non ricorrere a eufemismi e poi hanno quel modo di vestire che ricorda come andavamo vestiti una volta, vestiti di stracci anche, di solito sono repellenti. Si vede lontano un miglio che son diversi da te e da me. Sono zingari.

Sono stato alla loro festa anni fa, a Saintes Maries de la Mèr in Camargue, una festa che non terminava mai, un tripudio, una baraonda di voci, canti e balli, cavalli e carovane, fisarmoniche e chitarre, niente a che fare con gli zingari che vedi nei nostri campi nomadi, spesso coinvolti o accusati di essere malfattori, sicuramente sempre sospetti di esserlo. Un popolo ladro che non si è mai lasciato corrompere, era il parere di Emir Kusturica, regista jugoslavo che li amava. In Italia sono diffusi i Rom, etnia che usa un linguaggio (non esiste la scrittura) derivato da idiomi dell’India del nord. Vivono una famiglia “estesa” senza riconoscersi in altre istituzioni/organizzazioni, stato compreso. Difficile quindi “imbrigliarli” quando la loro casa e la strada e il loro tetto il cielo.

Ore 15 del pomeriggio, ultima domenica di agosto 2009 La signora ci riceve nel salotto. Un salotto davvero originale visto che non esistono le pareti. Alì e Micael ci corrono incontro. L’altro figlio siede su un pezzo di tavola di masonite, l’ultimo dorme sotto la tenda.  Il marito spunta dietro una parete di cartone. Gli avvolgibili strappati sbattono contro un pezzo di muro. Garze, cerotti, qualche bottiglia di bibita, caramelle e vecchi album di animali, sono i nostri doni. Siamo zingari dice la signora, veniamo dalla Romania e non c’è lavoro. La signora ci dice di sedere, ma noi troviamo solo il tempo di scattare qualche foto e già rientriamo. Mario Ingrosso li ha fotografati. Sulla via del ritorno incontriamo altri rom, scesi da una macchina per far visita a conoscenti del campo abusivo; ci chiedono se lavoriamo per i giornali. Vivono fra le macerie delle nostre città, sotto i ponti delle tangenziali, negli anfratti delle fabbriche abbandonate. Protagonisti d’innumerevoli episodi di cronaca, fatti di sgomberi, allontanamenti, furti e accattonaggio molesto. Sono i paria, così da secoli. Rigettati dalle culture ufficiali dei paesi in cui risiedono. Coloro che non esistono, perché privi di documenti. Mal tollerati, incivili secondo i nostri canoni.
Fra essi anche individui fuorilegge che soggiogano, imponendo la legge del più forte, le famiglie aggregate della loro comunità. I rom rappresentano la spina nel fianco di ogni amministrazione occidentale, sono diversi, non assimilabili. Ingombranti, non inseribili, e non affidabili. Esistono senza esistere. I personaggi che Mario Ingrosso ha fotografato sono i protagonisti di un reportage effettuato nelle aree abbandonate di una città del nord.  Fra muri crepati, tetti sfondati, macerie. Vivono lì, a titolo provvisorio, ben sapendo che potrebbero essere cacciati dall’oggi al domani. Sono rom, musulmani sciti e cristiani; arrivano dalla Romania. Ecco ciò che Mario Ingrosso è riuscito a intendere dal loro approssimativo racconto:

foto di Mario Ingrosso

Le donne rom concepiscono i figli in Italia, dopodiché tornano in Romania per farli nascere. Affermano che, a causa del loro stato di clandestini in Italia, i nascituri non potrebbero avere alcun documento. Quindi dopo il parto tornano in Italia coi piccoli per svezzarli e infine li riportano in Romania presso i parenti per farli crescere. Una delle conseguenze è che da adulti non sapranno riconoscere chi li ha messi al mondo. Tutto questo procede dal loro status di clandestini. Gli attori di questo servizio devono condividere il campo con un gruppo al cui vertice c’è un capo clan non esattamente raccomandabile. Per due volte costui ha inveito contro di noi, intimando di andarcene. Sguardo e invettive non erano tali da rassicurarci. Quello che abbiamo letto nei loro sguardi lo lasciamo alla vostra sensibilità. Il nostro lavoro finisce mostrando immagini eloquenti e volutamente senza commento. Consentitecene uno solo: la bellezza antica e la dolcezza di alcuni volti femminili, quella sì ci ha colpito e per questo vogliamo segnalarla. Anche per questo auspichiamo un atteggiamento che non faccia di ogni erba un fascio e che sappia distinguere fra gli individui di un gruppo anche se non è sempre facile o possibile. La loro cultura è antica, parallela e alternativa alla nostra e arriva dall’India.

foto di Mario Ingrosso

Per il nostro modo di vedere i diversi e i non omologabili molti di loro non esistono. I loro sguardi però raccontano storie che forse non conosciamo affatto e che dovremmo un giorno ascoltare per non renderli estranei e nemici per sempre.

  Scritto da Edoardo Simone Paluan all’età di 14 anni.

ti sei innamorato del Sahara?

I POPOLI SAHARIANI

…Le attuali popolazioni del Sahara discendono probabilmente da quei ceppi, proto-berberi e neri, che diedero vita alle ultime fasi della civiltà neolitica. I processi migratori, stimolati dal progressivo degrado ambientale, suscitarono un numero impressionante di mescolanze e suddivisioni in gruppi, tribù, confederazioni e famiglie, la cui consistenza numerica poteva cambiare repentinamente. Sicuramente ci furono contatti col mondo mediterraneo e con la Valle del Nilo, come dimostrano le molte affinità culturali e mitologiche. La letteratura dell’antichità classica trabocca di popoli dai nomi fantastici, che occupavano le immensità del Sahara occidentale e centrale, dai monti dell’Atlante fino alle remote regioni ai confini con la savana sudanese: Nasamoni, Getuli, Numidi, Ataranti, Etiopi trogloditi, Autoleli. Molte di queste genti, pur diverse tra loro, condividevano una parentela linguistica e facevano parte di un unico grande gruppo: i Berberi. Il termine deriva dall’arabo berbera, che significa linguaggio incomprensibile, ma potrebbe anche essere una storpiatura del termine latino barbarus, con cui i Greci ed i Romani designavano tutti gli stranieri. Furono però gli Arabi a raggruppare sotto questo nome le popolazioni bianche dell’Africa settentrionale, tramandandolo fino ai giorni nostri.

GLI UOMINI DELLO SPAZIO VUOTO (il nomadismo)

Il termine nomade deriva dalla radice greca nomàs, e indica coloro che errano per mutare pascolo. I nomadi propriamente detti sono quindi pastori, possessori di bestiame, sul quale basano quasi interamente la loro economia. Il sistema produttivo dei nomadi é totalmente diverso da quello degli agricoltori e dei cacciatori-raccoglitori. L’agricoltore é profondamente legato alla terra che coltiva e non può abbandonarla neppure per un breve periodo, pena la perdita del raccolto. E’ necessariamente un sedentario. La caccia e la raccolta, anche se presumono un certo grado di mobilità, si basano sul prelievo diretto dei prodotti offerti dall’ambiente naturale. La sussistenza dei pastori é dovuta invece allo sfruttamento delle risorse vegetali, tramite il bestiame domestico: capre, pecore, vacche e dromedari trasformano l’erba in proteine pregiate, latte e carne, con un rendimento ecologico altissimo. L’impegno richiesto dalla pastorizia è piuttosto limitato, sia in termini di lavoro che di tempo. Per le operazioni necessarie alla cura degli animali, comprese le attività rituali connesse, i nomadi consumano pochissime energie. Il rapporto tra assunzione e spreco di calorie, cioè il bilancio energetico di un gruppo di Tuaregh del Niger meridionale va dai 20 ai 30 punti in positivo. Incredibilmente elevato, se facciamo riferimento ai costi della produzione alimentare nella moderna società industriale, i cui rendimenti scendono a un miserabile valore di 0,3. Inoltre, la pastorizia nomade o seminomade, è lunico modo di utilizzare le regioni aride, che non si prestano all’agricoltura. L’immensa corona di deserti e steppe, che si estende dalla costa atlantica dell’Africa occidentale fino alle terre fertili della Cina, é territorio d’elezione del nomadismo. Senza la presenza dei nomadi quelle regioni sarebbero rimaste vuote, contrade destinate ad essere per sempre disabitate e selvagge.
Paolo Novaresio

Quelli che non esistono

womanA seguito dell’articolo di padre Angelo Zelio Belloni del 15 ottobre. Mario Ingrosso, mio figlio Edoardo Simone ed io in un campo rom abusivo alla periferia di Milano. Immagini di Mario Ingrosso

La signora ci riceve nel salotto. Alì e Micael ci corrono incontro. L’altro figlio siede su un pezzo di tavola di masonite, l’ultimo dorme sotto la tenda. Il marito spunta dietro una parete di cartone. Gli avvolgibili strappati sbattono contro un pezzo di muro. Garze, cerotti, qualche bottiglia di bibita, caramelle e vecchi album di animali, sono i nostri doni. Siamo zingari dice la signora, veniamo dalla Romania e non c’è lavoro. La signora ci dice di sedere, ma noi troviamo solo il tempo di scattare qualche foto e già rientriamo. Sulla via del ritorno incontriamo altri rom, scesi da una macchina per far visita a conoscenti del campo abusivo; ci chiedono se lavoriamo per i giornali. Vivono fra le macerie delle nostre città, sotto i ponti delle tangenziali, negli anfratti delle fabbriche abbandonate. Protagonisti d’innumerevoli episodi di cronaca, fatti di sgomberi, allontanamenti, furti e accattonaggio molesto. Sono i paria, così da secoli. Rigettati dalle culture ufficiali dei paesi in cui risiedono.  Coloro che non esistono, perché privi di documenti. Mal tollerati, incivili secondo i nostri canoni. Fra essi anche individui fuorilegge che soggiogano, imponendo la legge del più forte, le famiglie aggregate della loro comunità.

I rom rappresentano la spina nel fianco di ogni amministrazione occidentale: Ingombranti, non inseribili, non affidabili. Esistono senza esistere. I personaggi che Mario Ingrosso ha fotografato sono i protagonisti di un reportage effettuato nelle aree abbandonate di una città del nord.  Fra muri crepati, tetti sfondati, macerie. Vivono lì, a titolo provvisorio, ben sapendo che potrebbero essere cacciati dall’oggi al domani. Sono rom, musulmani sciti e cristiani; arrivano dalla Romania. Ecco ciò che Mario Ingrosso è riuscito a intendere dal loro approssimativo racconto: Le donne rom concepiscono i figli in Italia, dopodiché tornano in Romania per farli nascere. Affermano che, a causa del loro stato di clandestini in Italia, i nascituri non potrebbero avere alcun documento. Quindi dopo il parto tornano in Italia coi piccoli per svezzarli e infine li riportano in Romania presso i parenti per farli crescere. Una delle conseguenze è che da adulti non sapranno riconoscere chi li ha messi al mondo. Tutto questo procede dal loro status di clandestini.sigaro
Gli attori di questo servizio devono condividere il campo con un gruppo al cui vertice c’è un capo clan non esattamente raccomandabile. Per due volte costui ha inveito contro di noi, intimando di andarcene. Quello che abbiamo letto nei loro sguardi lo lasciamo alla vostra sensibilità. Il nostro lavoro finisce mostrando immagini eloquenti e volutamente senza commento. Consentitecene uno solo: la bellezza antica e la dolcezza di alcuni volti  femminili, quella sì ci ha colpito e per questo vogliamo segnalarla. Anche per questo auspichiamo un atteggiamento che non faccia di ogni erba un fascio e che sappia distinguere fra gli individui di un gruppo anche se non è sempre facile o possibile. La loro cultura è antica, parallela e alternativa alla nostra e arriva dall’India. Per il nostro modo di vedere i diversi e i non omologabili molti di loro non esistono. I loro sguardi però raccontano storie che forse non conosciamo affatto o non vogliamo conoscere

Sconosciuti fra noi: gli Zingari

di padre Angelo Zelio Belloni  

Per non fare torto a nessuna delle numerose etnie zingare che non sono riducibili alle due più numerose cioè alla Rom e alla Sinti, userò abitualmente quello di zingari per abbracciarli tutti 

Questo intervento, sollecitato da amici non intende assolutamente affrontare l’argomento in maniera esaustiva ma semplicemente sottolineare la necessità di un approccio diverso a questo mondo composto prevalentemente da nomadi e vittima, come altri, della disinformazione e della mal informazione. Tutto ciò perché il cancro del pregiudizio e il bisogno dello scoop sono diventati più forti della verità e dello stesso Evangelo. Negli ultimi tempi, esattamente da un anno a questa parte, i mass media nostrani hanno dato il là ad una scientifica campagna di (dis)informazione tendente a dimostrare, sulla mera e approssimativa base di fatti di cronaca nera, che i rom sarebbero una razza delinquenziale, predisposta geneticamente al crimine e alla destabilizzazione sociale.

Gli zingari come razza non solo inferiore, subumana, ma dannosa, e come tale da cancellare. Attraverso sgomberi, punizioni esemplari, e, magari, veri e propri pogrom imperniati sulla voluttà della cancellazione dell’altro, del diverso, dell’asociale. Tutto ciò, com’è pacifico, in barba ai principi più elementari del diritto tra cui per l’appunto l’obbligo, culturale e giuridico, di distinguere, sempre, tra persone e gruppi, tra singoli colpevoli e intere comunità, tra individui su cui eventualmente grava il peso della responsabilità penale personale ed etnie e nazionalità discriminate in blocco. Se si offusca, come sta accadendo, questa basilare distinzione i gruppi umani colpiti in quanto tali diventano colpevoli per il semplice fatto di esistere, la loro stessa presenza appare come un ingombro da rimuovere e da estirpare, un virus da sconfiggere anche con la mobilitazione purificatrice di chi si sente minacciato e circondato da una forza oscura e inquietante. Allora è necessaria una campagna di controinformazione con tutti i mezzi possibili per aiutare a leggere il fenomeno con maggior obiettività. Ma per fare ciò occorre un approccio non solo serio ma scientifico e cordiale a questo mondo culturale dai tratti complessi. Ecco allora alcune informazioni alternative e positive raccolte dalla Caritas Italiana e da altre Associazioni al servizio dei nomadi.
Sono percepibili segni interessanti di evoluzione positiva nel modo tradizionale di vivere e pensare degli Zingari, come il crescente desiderio di istruirsi e ottenere una formazione professionale, la maggiore consapevolezza sociale e politica, che si esprime nella formazione di associazioni e anche di partiti politici, la partecipazione nelle amministrazioni locali e nazionali in alcuni Paesi, l’accresciuta presenza della donna nella vita sociale e civile, l’aumentato numero di vocazioni al diaconato permanente, al presbiterato e alla vita religiosa, ecc.

Gran parte degli Zingari, sono oggi sedentari o semi-sedentari. Nel corso del XX secolo si è ancora accentuata la tendenza alla sedentarizzazione e in varie regioni ciò ha facilitato la scolarizzazione dei bambini e il conseguente incremento della popolazione zingara alfabetizzata. Il maggior contatto con il mondo dei gağé, (non zingari) che ne è così derivato, ha inoltre contribuito ad una progressiva appropriazione dei nuovi mezzi tecnici della società contemporanea. Di conseguenza, il passaggio dal carro tradizionale alla roulotte trainata da un’automobile ha paradossalmente incrementato il fenomeno della semi-sedentarizzazione.

La macchina permette di percorrere liberamente lunghe distanze nel corso di una stessa giornata, senza che moglie e figli debbano necessariamente accompagnare il capofamiglia o gli uomini che esercitano la propria attività professionale. Una sosta prolungata permette inoltre ai figli di frequentare con regolarità la scuola, nelle famiglie in cui i genitori hanno compreso l’evolversi del mondo e sofferto dell’inferiorità di essere analfabeti. Pensiamo al trasporto motorizzato, alla Televisione e perfino alla comunicazione telematica, all’informatica, ecc.
In alcuni Paesi si assiste pure all’incorporazione abbastanza generalizzata degli Zingari nel lavoro finora esclusivo dei gağé, specialmente in campo artistico. Sono diventati inoltre più frequenti i matrimoni fra Zingari e gağé, e anche nell’ambito della promozione della donna si registra un significativo cambiamento, pur restando ancora molto da fare sulla via dell’uguale dignità con l’uomo.
Forse non tutti sanno che il martire spagnolo, il Beato  Zeffirino Giménez Malla, è il primo Zingaro nella storia della Chiesa ad essere stato elevato agli onori degli altari. Non tutti sanno che alle etnie degli zingari appartengono Sacerdoti, Diaconi e Religiosi. Attualmente, conferma padre Luigi Peraboni, sacerdote barnabita 75enne che da 36 anni si dedica all’evangelizzazione dei nomadi, le vocazioni che escono dall’etnia rom/sinti sono circa 130: 70 preti e 60 suore. È totalmente ignorato il fatto che nei Balcani sotto i regimi comunisti i nomadi hanno frequentato le scuole e settant’anni dopo la guerra ci sono intellettuali che elaborano una nuova cultura dell’incontro, un “potere zingaro” a fronte di un popolo perseguitato e differenziato al suo interno. Sono assolutamente veri questi dati forniti dall’assessore all’istruzione del comune di Padova, che cioè oltre l’85% degli iscritti sinti e rom ha concluso l’anno scolastico 2008/2009 con l’ammissione alla classe successiva. Se si guarda all’anno precedente, la percentuale di successo era ferma a 74,26%. Contro tutti i luoghi comuni non è di secondaria importanza ricordare che i gruppi zigani non richiedono innanzitutto la fornitura di beni e servizi ma in primo luogo il riconoscimento e il sostegno alle loro capacità individuali e collettive. Gli zingari non possono essere assistiti, segregati e infantilizzati ma devono essere riconosciuti come individui competenti e, in quanto tali, interlocutori autorevoli con cui discutere finalità e mezzi da attuare e valutare. Pochi sono a conoscenza del fatto la famiglia rom Korakahne (bosniaca) di Zlatan Ibrahimovic, è utile ribadirlo,è riuscita ad arrivare agevolmente in Svezia, democrazia molto più solida della nostra, e grazie alla diversa situazione politico-sociale-culturale è diventato uno dei più celebri calciatori del mondo. Ad onor di cronaca altri celebri calciatori sono di etnia rom e sinti tra i quali spicca senz’altro Andrea Pirlo (sinto italiano), capitano della nazionale campione del Mondo (!!!). Questi esempi dimostrano abbondantemente come a condizioni politiche e sociali favorevoli corrispondono risultati più che lusinghieri dal punto di vista dell’inserimento sociale e dello sviluppo culturale. Don Federico Schiavon che vive in un campo nomadi a Udine afferma: « Facile, ad esempio, accusare gli zingari di rubare. Ma perché non dire anche che la loro voglia di trovare un lavoro viene continuamente frustrata dal pregiudizio? Qui a Udine basta che al Collocamento vedano che il richiedente risiede in via Monte Sei Busi e l’impiego te lo scordi. Facile denunciare le zingare che praticano l’accattonaggio, peraltro reato abrogato dalla nostra legislazione. Ma loro, in questo modo, sono apprezzate per essere capaci di contribuire al bilancio familiare. Spero che non si voglia scacciare i mendicanti dai sagrati delle chiese: danno un volto alla povertà e alla carità. San Francesco non creò forse un ordine dei mendicanti?».
Poche settimane fa ha, lo stesso don Federico, ha presentato i risultati di una ricerca realizzata per la Fondazione Migrantes dall’Università di Verona sugli stereotipi legati ai rom. In essa si dimostra che la loro nomea di rapitori di bambini è del tutto infondata. Per farlo si è avvalso della collaborazione delle Procure italiane. Risultato? Non ci sono mai state condanne di zingari per questo reato. «Casomai sono loro che potrebbero pensare agli italiani come rapitori di bambini, dato l’alto numero di sentenze dei Tribunali dei minori che tolgono la patria potestà alle famiglie zingare con motivazioni discutibili». Basta guardare le cose da un altro punto di vista: quello degli zingari.

 

Una via di salvezza

Resta quindi da compiere un grande lavoro di apertura e di informazione, per strappare dagli animi la diffidenza, sostenuta da una letteratura acritica e tristemente diffusa nella società, che alimenta l’atteggiamento di rifiuto. Se per l’uomo laicus e politicus è un dovere di onestà tener conto di quanto andiamo dicendo per non perpetuare ingiustizie, per il credente oltre a quanto affermato qui vale la parola di Cristo e della Chiesa che non solo esige il rispetto della persona ma una scelta in favore di chi è svantaggiato e pesantemente discriminato. Nel necessario approccio pastorale al mondo zingaro il cristiano adulto spinto dall’amore per ogni figlio di Dio dovrà armarsi, di pazienza onde perseverare in una lotta che può suscitare ostacoli e inimicizie di ogni genere. Il credente dovrà come Cristo camminare con decisione ostinata verso Gerusalemme che significa essere preparati a subire persecuzione e rifiuto. È prezioso quanto suggeriscono documenti sulla pastorale degli zingari: La specificità della cultura zingara, in effetti, è tale da non rendere a loro consona un’evangelizzazione semplicemente dall’esterno, facilmente giudicata come un’invadenza. Sulla scia della vera cattolicità, la Chiesa deve diventare, in un certo senso, essa stessa zingara fra gli Zingari, affinché essi possano partecipare pienamente alla vita della Chiesa. Ciò porta a prospettare un atteggiamento pastorale improntato alla condivisione e all’amicizia, per cui risulta importante per gli Operatori pastorali specifici immergersi nella loro forma di vita e condividerne la condizione, almeno per un certo tempo. Per essi vale dunque in modo del tutto speciale ciò che la Chiesa esige da quanti sono impegnati nei territori missionari, vale a dire che «debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono e improntare le relazioni con essi a un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» (AG 11).

Sulla grande Africa

Quanta Africa c’è nel mal d’Africa?

di Paolo Novaresio

Delirio di onnipotenza? Una versione sentimentale del gusto dell’orrido? Una malattia letteraria dell’animo? Forse. Il mal d’Africa può essere questo e tante altre cose, coincidenti od opposte: ognuno ne cura una versione strettamente personale. Certo è che la realtà africana non è sequenziale. L’Africa è fuzzy. Se assorbita lentamente la vita africana induce nel viaggiatore una sorta di Stupore, inteso nel senso classico del termine (dal latino stupere=sbalordire, o provare sensazione di grande maraviglia o di sorpresa nel vedere o udire cose strane). L’Africa è surreale, soprattutto nei particolari. I rapporti di spazio e tempo, causa ed effetto tra gli eventi, le azioni e i luoghi, sono alterati. Nella mente del viaggiatore si crea una sorta di endo-ambiente ostile alle leggi fondamentali della logica, che governano la vita quotidiana nel mondo occidentale. Il soggetto affetto da Mal d’Africa è un anti-aristotelico viscerale. Non a caso chi risiede nel continente a lungo si africanizza, diventa fatalista e di solito non è più in grado di adattarsi alla vita in Occidente: in questo caso il processo è irreversibile, la malattia si cronicizza, diventa incurabile. È la scoperta che la vita ci vive, che nulla possiamo contro il fluire inesorabile degli eventi. L’accettazione di un’attesa passiva delle cose (quelle importanti almeno, morte compresa). In fondo è anche la variante minimalista di uno Stato di Grazia, però di natura estremamente terrena, addirittura fisica. Non a caso per l’Asia si parla di misticismo, mai di malattia: l’orientalismo presume un processo di immedesimazione culturale, non si subisce ma si costruisce, anche a tavolino. Il misticismo è esangue, volontario, si prefigge di essere avulso dalla vita quotidiana. Al contrario, chi ha il Mal d’Africa è immerso nel quotidiano fino al collo, impantanato nella vita carognosa e impura. L’incomprensione tra viaggiatori d’Africa e d’Oriente è profonda anche per questo motivo.

L’estasi africana si riduce all’ebbrezza della sopravvivenza

I veri malati di Africa sono ignoranti incalliti, o appunto Stupiti: ovviamente negano di esserlo, si rifiutano di spiegare le proprie azioni, le domande li infastidiscono. Come tutte le patologie mentali il Mal d’Africa è una strada a senso unico ed è totalizzante. Il problema è qualitativo: non si può avere un po’ di morbillo. Si ha il morbillo oppure no. Se in forma più o meno grave, questa è un’altra storia. Ugualmente, per la legge degli opposti, in ogni più blando sintomo del Mal d’Africa c’é tutta l’Africa. Si potrebbero porre altre domande: il Mal d’Africa riguarda solo gli occidentali? Gli Africani hanno (e sanno) di avere il Mal d’Africa? Oppure ne sono portatori sani? A voi la risposta: potrebbe essere l’inizio di un saggio infinito, che si costruisce incessantemente pezzo dopo pezzo, viaggio dopo viaggio.

Quaderni d’Africa

di Paolo Novaresio

CANTO PER L’AFRICA

1.

È l’alba. Le piccole orme della volpe pallida spiccano nitide sulla sabbia gialla. È venuta nell’ora più buia della notte, ha bevuto l’acqua e mangiato le noci di cola, poi si è trattenuta a lungo all’interno del riquadro sacro, spostando gli stecchi di divinazione sistemati dall’indovino. Per suo volere, dalla polvere prenderanno forma i disegni divini, così svelati agli uomini. Fu Volpe a fecondare per la prima volta la Madre Terra, sola e senza il conforto vitale della parola, dando forma e contenuto al vuoto immobile in cui giaceva il mondo. La domanda è stata posta nel modo giusto, il responso è stato chiaro: col consenso degli antenati presto cadrà la pioggia e l’acqua riempirà i canali di irrigazione fra i campi di miglio e cipolle, salvando il raccolto. Il vecchio indovino Dogon scruta l’orizzonte polveroso verso il Sud, oltre la grande piana di sabbia ed erba gialla. Le nuvole nere, cariche di pioggia, verranno di laggiù, annunciate da un odore pungente di terra e alghe. Il sole si alza lentamente nel cielo lattiginoso. Le prime luci proiettano sulle rocce l’ombra dei tetti appuntiti dei granai in terra cruda. Anche le voci dei bambini sembrano zampilli d’acqua fresca stamattina, tra le case del  villaggio di Irelì, Falaise di Bandiagara, Mali.

2.

Fa troppo freddo, stamattina è un giorno crudele. Per tutta la settimana il termometro è sceso sotto lo zero, ogni giorno. Le Colline dell’Acqua Bianca sono coperte di brina e sopra la città incombe una nube di fumo denso e nero: laggiù, fra le distese senza fine di baracche di legno e lamiera, si brucia di tutto per scaldarsi, anche i copertoni. Questo inverno sembra non finire mai, se non si ha una casa. Sylvia una casa ce l’ha, o almeno una parte: manca il tetto. Ci sono voluti due anni di attesa, fasci di documenti in tre lingue diverse, code interminabili: poi, improvvisamente, l’assegnazione. Ma dei soldi stanziati dal governo non restava più nulla: spariti nelle tasche di qualche funzionario disonesto. Niente soldi, niente lamiera ondulata, niente tetto. Equazione elementare, sorry. Solo quattro muri di cemento grezzo e, sulla testa, il cielo. Un uomo in giacca e cravatta, dietro il vetro di un ufficio polveroso, le ha detto che deve attendere ancora, ma è questione di poco.  Quanto?  pensa Sylvia  Quanti giorni, o mesi, o forse anni? E con uno stipendio da donna delle pulizie, ottocento rand al mese per tre giorni alla settimana di lavoro garantito, due figli e un marito disoccupato, riuscirò a pagare l’affitto? I cumuli di detriti minerari, colline squadrate di polvere giallo limone, sembrano blocchi di ghiaccio. Il taxi collettivo abbandona il confine di Soweto per inoltrarsi fra i viali alberati dei sobborghi residenziali di  Johannesburg, Gauteng, Sud Africa.novaresione 1

3.

I leopardi stanno in cima alle colline, ma ne sono rimasti pochi per fortuna. Con la guerra sono arrivati i kalashnikov dall’Angola, un fucile per due vacche, e gli Himba ne hanno approfittato per far fuori i predatori. A dire il vero, oltre alle loro mandrie, nella boscaglia è rimasto ben poco su quattro gambe. La guerra è finita da un pezzo ormai, e i due bambini ne hanno solo sentito parlare dai genitori. Quattro anni uno e sette anni l’altra: sono stati lasciati qui, presso la sorgente, a sorvegliare gli agnelli. Il posto più vicino con una parvenza di civiltà è ad Epupa Falls, quattro ore di cammino tra pietraie insensate. Non ci sono capanne, né ripari provvisori, né ombra degna di questo nome: appesi ad un alberello senza foglie alcuni vasi per la mungitura, una cetra, un coltellaccio nel fodero di legno, una zangola e pochi altri utensili. I pastorelli dormono con gli animali, all’aperto, su due stuoie di pelle di capra. La bambina non sorride mai, parla sottovoce e si muove con passi di danza. E’ bellissima. Guarda con indifferenza i miei scarponi da montagna, grossi e pesanti. Camminare è un’arte di leggerezza quaggiù, nella valle del Kunene, Kaokoveld, Namibia.

4.

William Lepukei è uomo di due mondi. E’ un Turkana ma capisce i wazungu, i bianchi, e da anni lavora con loro, accompagnandoli lungo i sentieri impervi del deserto di lava e assistendoli nelle loro occupazioni. Alcuni cercano gli animali-pietre, i fossili di cui la zona è ricchissima, altri vengono a censire gli uccelli migratori  che fanno sosta sul lago, altri ancora semplicemente a fare i turisti. C’è chi ha i soldi e chi no, Lepukei ha imparato anche questo durante gli anni: i wazungu non sono tutti uguali. Gli anni passano, Lepukei ha le tempie grigie e sempre lo stesso problema: come sbarcare il lunario. Oggi, per esempio, non sa cosa mangerà. Solamente pensare al pesce, l’unico cibo sempre disponibile, gli dà la nausea: vorrebbe della carne, ma al solito ha le tasche vuote quanto lo stomaco. I bei tempi dei grandi safari a piedi sembrano essere tramontati; il Grande Progetto annunciato, che dovrebbe cambiare la sua vita e portare nuova linfa a tutta la regione, non arriva mai. I soldi degli aiuti per l’Africa sono bloccati in Europa da anni, nessuno sa perché. E’ un mondo di iene e nessuno meglio di Lepukei sa cosa ciò significhi. Le cose sono peggiorate, tutto costa ogni giorno di più, tirare avanti è sempre più difficile nella maledetta Loyangallani, sponda orientale del lago Turkana, Kenya.

5.

Un piede davanti all’altro, quarto della fila. Sessanta dromedari, sei uomini, tre tonnellate e mezzo di sale in pani a forma di cono. Assenza totale di paesaggio, niente a cui lo sguardo esausto possa aggrapparsi. Alla sete non bisogna pensare. E’ il lavoro dei Tuareg, la carovana. Il sole scompare, ingoiato dall’ orizzonte piatto. Calano le ombre della sera. Oltre il cerchio di luce del fuoco, nel buio nulla, danzano i djenoun, gli spiriti del deserto, burloni e maligni. Suo padre ci credeva e li temeva. Lui, Mamoudane, non ne é più sicuro: la terra scricchiola e si muove la notte, questo è vero, e all’orecchio non si può mentire. Ma saranno davvero i djenoun? Suo figlio, che ha studiato e lavora alle miniere di uranio di Arlit, gli ha spiegato che quei rumori sono provocati dalla differenza di temperatura tra il giorno e la notte. La terra si contorce, allora, come fosse viva. E non è la stessa cosa? Sia quel che sia, conclude Mamoudane, non ci sono buone ragioni per lasciare il campo e addentrarsi nel vuoto minerale dell’Adrar Bous, deserto del Tenerè, Niger occidentale.

di Paolo Novaresio

L’uomo con la valigia