Padre della patria e (anche) negriero? Eroe per molti, negriero senza scrupoli per altri. Guerrigliero al servizio di una nobile causa (quella italiana era soltanto l’ultima in ordine di tempo) o profittatore pagato dagli Inglesi e dalla Massoneria in funzione anticlericale. Detto per inciso agli Inglesi interessavano le miniere siciliane e auspicavano un’Italia un po’ più unita di quello che era per contenere le mire francesi. (l’Inghilterra in queste faccende la sa lunga).
Definiva il papa Pio IX un metro cubo di letame. Perché portava i capelli lunghi? Perché dicono che una ragazza gli avesse rovinato un orecchio durante un tentativo di violenza. Vero? Falso? E il massacro di Bronte? Cos’era successo? Mentre i colpevoli se la davano a gambe vennero uccisi contadini innocenti e il matto del paese dopo un frettoloso processo voluto dal suo luogotenente, Nino Bixio. È tutt’ora avvolta nel mito e nella leggenda la figura di Giuseppe Garibaldi, uno degli artefici indiscussi della riunificazione dell’Italia. Eroe dei due mondi, osannato corsaro in Sudamerica, difensore degli oppressi, guerrigliero, rivoluzionario e massone di rango. Una figura complessa, mitizzata dai libri di storia che necessitano di figure a tutto tondo.
Una figura al cui valore indiscusso andrebbero tuttavia aggiunte alcune postille, non per sminuirne la valenza storico politica, ma per onorare l’obiettività dei fatti, al di fuori delle consacrazioni di rito. La necessità di creare figure di specchiato e immacolato valore è una pratica ricorrente della storiografia ufficiale. Ma l’obiettività storica è una virtù spesso disattesa. Non si tratta di denigrare chi fino a poco tempo fa è stato messo sugli altari, contestandone ruolo e funzione, sarebbe questa un’operazione fine a sé stessa o, peggio ancora, al servizio di animose contro tesi storiche dalle dubbie finalità. Sono i documenti, la cronaca registrata dei fatti che devono trionfare ovvero l’obiettività storica anche se scomoda.
C’è chi lo denigra apertamente e chi si limita a consacrarne la figura e l’innegabile protagonismo. Del resto, a stringere la mano al Re Vittorio Emanuele II a Teano, c’era lui, il grande Giuseppe, come a sancire a futura memoria una consacrazione di inequivocabile rilievo politico, un gesto che non può essere scalfito tanto facilmente. Ma anche in questo caso bisognertebbe leggere il contesto in cui avvioene l’incontro. Il contributo di Maurizio Degl’Innocenti, autore di un libro dedicato proprio a Garibaldi è notevole: Al di là del mistero che certamente avvolge il percorso che porta alla santità o all’oblio, c’è la presenza di un uomo dalle doti rare, protagonista di fatti ed eventi eccezionali, dal coraggio inossidabile, che ha affrontato con slancio, privazioni, dolore e dal grande fascino. In questo complesso percorso della nascita dei miti, realtà, cronaca e deformazione dei fatti si intrecciano, e attori e spettatori, come nel teatro, sono reciprocamente attivi. Se tu ne sai qualcosa in più sull’argomento fammelo sapere.
LA NASCITA D I UNA BANDIERA ORGOGLIO TRICOLORE Avvincente più di un romanzo, drammatica e ricca di colpi di scena come la trama di un film. La storia della nascita della bandiera italiana riserva sorprese a non finire. Attraverso documenti inediti, Ito de Rolandis ne tratteggia in modo coinvolgente le origini. I libri di Lorenzo Fornaca, l’amico editore scomparso recentemente, non passano inosservati. Ma ce ne sono alcuni che superano il segno risvegliando interessi nutriti solo dopo aver abbandonato i banchi di scuola, interessi che credevo sopiti e che invece vanno ben oltre una gratificante lettura.
È il caso di ORGOGLIO TRICOLORE di Ito De Rolandis. Cronaca, indagine, affresco storico, spy story: un melange appassionato e appassionante con un protagonista desueto: la nostra bandiera e la sua origine. Ito de Rolandis scava nelle vicende talvolta oscure, spesso tragiche, e tutte di grande rilievo storico e narrativo. Lo fa attraverso un racconto serrato, narrando l’atroce agonia di un suo lontano parente, quell’appassionato e romantico Giovan Battista De Rolandis nato a Castell’Alfero, nell’astigiano, cui rendiamo oggi onore. Incredibili figure a tutto tondo balzano dalle pagine, che si leggono tutte d’un fiato nell’insolita redazione a due colonne del libro. Personaggi come i due martiri, antesignani degli eroi del Risorgimento italiano, che nel lontano 1796, in quel di Bologna rispolverano qualche sciabola arrugginita e preparano munizioni raschiando il salnitro dai muri per confezionare qualche decina di munizioni, per l’assalto al palazzo pontificio. Ma quanti erano i rivoltosi? Dieci? Cento? Mille? I bolognesi pronti ad abbattere o a correggere l’infame potere papale quanti erano? Sei, forse cinque, in tutto, secondo le testimonianze di un oste. Ma quei pochi diventarono, dopo la tragica fine dei due ragazzi e con l’appoggio dell’emissario di Napoleone Bonaparte, centinaia, migliaia, un’intera città che prende coscienza e si ribella, e così poco alla volta accade per l’intera penisola.
E tutto era partito da Giò De Rolandis, discendente da una nobile casata astigiana e da Luigi Zamboni figlio di un commerciante di stoffe bolognese, un seminarista e un borghese, dunque. Bravi ragazzi, focosi, romantici, appassionati rivoluzionari e infine eroi martiri. Il cui unico peccato accertato era quello di essere stati sprovveduti. Nessuno aveva infatti detto loro che una sollevazione di popolo non si effettua con tre sciabole, due forconi e tre archibugi asmatici. Il libro ci racconta a quali torture furono sottoposti i prigionieri nelle segrete del carcere bolognese, a quali ignominiose ingiurie si ricorreva per ordine di un autentico satana al servizio del papa Pio VI. Figura mortifera come quella luciferina di Angelo Filippo Pistrucci, Uditore del Santo Uffizio, persecutore dei due ragazzi, che solo a vederlo ritratto ti si raggela il sangue, o come quella dell’avvocato Antonio Aldini, strenuo difensore dei due prigionieri, divenuto poi primo ministro di Napoleone. E ancora: i panni dell’abate Bauset con cui entrò in contatto Giò de Rolandis chi celavano? E chi era davvero Antoine Christophe Saliceti, la cui tattica nell’operare è inserita nei più moderni trattati di spionaggio internazionale? Forse si trattava dello stesso abate Bauset? Ito de Rolandis centellina saggiamente le notizie componendo un avvincente intreccio di avvenimenti storicamente verificabili. Citando documenti spesso segreti e cronache del tempo. Ma oltre alla storia del tragico destino che aveva ghermito i due giovani eroi e alle tormentate vicissitudini all’origine del nostro vessillo nazionale, Ito de Rolandis ci parla di messaggi cifrati, delle condizioni di vita nella gaudente Bologna di fine ‘700, smentendo chi la voleva vedere solo gaudente.
Della scuola della Tortura fondata a Bologna dall’Inquisizione all’inizio del 1600, situata presso la torre degli Asinelli, di Castell’Alfero patria di Giò e dei suoi dintorni. E poi testimonianze dirette, documenti mai divulgati prima, e incredibili personaggi che paiono fasulli se non fossero davvero esistiti. Tutto qua? Niente affatto, Ito de Rolandis ci fa avvertire l’immanenza della bufera che si stava per abbattere sull’Italia, quell’uragano politico militare, amministrativo, che avrebbe sconvolto l’assetto politico della penisola, mandando in frantumi i decrepiti equilibri politici e territoriali. Lo spirito della rivoluzione francese stava infatti per varcare le Alpi illuminando le pulsioni confuse che animavano un numero crescente di italiani. giovane generale, smanioso di vittorie stava per avventurarsi sulle nostre regioni. Il suo nome? Napoleone Bonaparte. Ito de Rolandis, anche di questa vicenda ci racconta antefatti e particolari sconosciuti, che vanno a intrecciarsi con la tragica vicenda dei due giovani eroi. Domanda: Perché libri di questo genere non sono adottati nelle nostre scuole medie come ausilio didattico? Non sarebbe il caso di cominciare a insegnare la storia così come si è davvero svolta? Cosa dobbiamo nascondere? Quella che sembra una minestra scondita e, ai più, indigesta (vedi la nostra storia raccontata dai sussidiari) diverrebbe un avvincente racconto, suffragato da fatti realmente accaduti e da personaggi davvero esistiti. Signor Ministro dell’Istruzione Le consigliamo questa lettura! Scriveva l’editore Lorenzo Fornaca: “Contattammo Ito De Rolandis, nipote diretto del martire, scrittore, saggista, storico, sicuri che nessun altro conoscesse la materia meglio di lui, grazie anche ai molti documenti giacenti in casa sua. In virtù della sua intensa attività giornalistica e radio televisiva, De Rolandis avrebbe saputo esporre episodi, date, fatti in modo narrativo accattivante, così come era già riuscito in tanti suoi libri di successo, tra gli altri “Maria Josè” “Enrico Berlinguer” “Giovanni XXIII” “Nel Nome di Asti” “Torino Dopoguerra” “Cara e Vecchia Torino” ed i diversi saggi sulla “Sindone”. Il nostro scopo è stato quello di comporre un’opera in grado di entrare in tutte le case, con un testo facile, un periodare semplice, piacevole nella lettura, e gradevole nell’iconografia. È emerso un libro impegnativo poiché ha per oggetto il simbolo massimo della nostra Nazione, quel Tricolore che ci esalta nei momenti di intensa commozione, ci fa fremere negli incontri sportivi quando scendono in campo i nostri campioni, e sia oggi, come ieri e come sarà domani, è emblema di inossidabile unità della nostra lunga Italia, capace di rinsaldare ovunque lo spirito di noi tutti, e di farci sentire fieri di essere italiani…” Un po’ di sana retorica non guasta. Grazie Lorens, anche se non potrai più leggere questo post.
A Napoli sono state scoperte per caso, nei sotterranei del Maschio Angioino, ben 400 opere antiche, che vanno dal Quattrocento al Novecento: forse sono state abbandonate lì dopo il terremoto del 1980.
A Napoli, nei sotterranei del Maschio Angioino (Castel Nuovo), è stato trovato un prezioso tesoro di tantissime opere d’arte (addirittura “innumerevoli” secondo la giunta comunale, circa 400 secondo quanto riporta la stampa locale), di varie epoche, dal Quattrocento al Novecento: c’è anche una grande Madonna del Rosario con santi domenicani di Luca Giordano (di 4 metri per 2,64), e poi opere di artisti come Francesco De Mura, Paolo De Matteis, Giuseppe Bonito, Onofrio Avellino, Jacopo Cestaro e altri importanti pittori e scultori del territorio. La scoperta è avvenuta in modo del tutto fortuito: le opere sono infatti “riemerse” il 1° dicembre scorso, quando gli addetti del Comune di Napoli si sono recati nelle sale che custodivano le opere per verificare, a seguito di una forte ondata di maltempo che si era abbattuta sulla città nelle ore precedenti, se ci fossero stati degli allagamenti nei locali. I tecnici hanno scoperto le opere, abbandonate a loro stesse, alcune delle quali deteriorate a causa dell’umidità dei locali: sono presumibilmente lì da decenni.
La notizia si è diffusa perché il 23 aprile la giunta di Napoli si è riunita proprio per discutere di questo caso. “Il Comune di Napoli”, si legge nella delibera di giunta, “detiene un patrimonio ragguardevole di beni mobili di valore artistico, databili dall’antichità greco-romana (Collezione Santangelo presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli) fino ai giorni nostri, costituitosi attraverso acquisti, donazioni e a seguito della Legge Regionale n. 65 dell’11 novembre 1980 con la quale sono passati alla competenza giuridica dell’Amministrazione Comunale gli edifici ecclesiastici cittadini appartenenti ai cosiddetti ’enti soppressi’, ovvero gli IPAB, gli Istituti per l’Assistenza e la Beneficenza (quali la Real Casa dell’Annunziata, l’Albergo dei Poveri, l’Istituto per l’Istruzione e l’Educazione Femminile Sant’Eligio, ecc.), unitamente alla loro ingente consistenza patrimoniale di opere d’arte (dipinti, sculture, argenti, arredi ecc.)”.
L’ipotesi è che si tratti proprio di opere degli IPAB che furono ricoverate nel Maschio Angioino dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, che danneggiò anche diversi edifici a Napoli. Tra questi, anche gli edifici degli Istituti per l’Assistenza e la Beneficenza, che ospitavano numerose opere d’arte: così, per salvarle, furono dislocate su diverse sedi (alcune andarono a Palazzo Reale, altre ancora a Capodimonte e in diversi altri depositi temporanei). Alcune finirono al Maschio Angioino e adesso dunque si pensa che le opere appena ritrovate siano proprio quelle trasferite dopo il sisma dell’Irpinia. Le opere sono state esaminate durante un sopralluogo con il sindaco, Luigi de Magistris, e con il soprintendente di Napoli, Luigi La Rocca.
Dato lo stato in cui si trovano queste opere, si legge nella delibera, “sono necessari improcrastinabili interventi di manutenzione e restauro dei beni artistici, in particolare dei dipinti, beni più soggetti al deterioramento, per garantirne la salvaguardia e una successiva fruizione museale, arricchendo le collezioni del Museo Civico di Castel Nuovo, ampliandone l’offerta culturale e facendo scoprire alla cittadinanza, ai visitatori, agli studiosi del settore un patrimonio artistico per troppi decenni negletto e negato”. Il Comune avrebbe già proposto un progetto in tre fasi: la messa in sicurezza sino alla velinatura delle opere con la redazione di schede conservative (50.000 euro), il restauro conservativo della Madonna del Rosario di Luca Giordano e un’altra opera di grandi dimensioni da selezionare tra quelle di maggior pregio e musealizzazione delle stesse opere (50.000 euro), il restauro di altri quadri di valore e pregio come quelli di De Mura, De Matteis, Cestaro Bonito, Giacinto Diano, Agostino Beltrano (150.000 euro). Il progetto è dunque quello di fare in modo che il pubblico possa di nuovo tornare a vedere le opere.
Sulla vicenda è intervenuta anche Margherita Del Sesto, deputata campana del MoVimento 5 Stelle in commissione Cultura, che intende portare il caso in Parlamento. “È strano”, afferma “che la notizia abbia trovato diffusione solo poche ore fa, in seguito alla pubblicazione di una delibera della Giunta comunale contenente informazioni sommarie sulla scoperta. A breve depositerò un’interrogazione al ministro Franceschini per fare luce sulla vicenda. Se dopo il terremoto del 1980, quando si presume che quelle opere d’arte siano state prelevate da molti edifici ex IPAB (Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza), non è stato redatto nessun inventario c’è il rischio che possano essersi verificati furti o dispersioni. È importante e urgente fare chiarezza su eventuali responsabilità e mettere in campo interventi tempestivi: quel patrimonio di grande valore va subito messo in sicurezza, salvaguardato e restaurato, nell’ottica di un’auspicata esposizione al pubblico”.
Ecco il mio desolato commento: è come scoprire che in cantina tua nonna aveva dimenticato lingotti d’oro, lì confinati durante una emergenza. O che nel tuo garage avevi una Bugatti insieme al tesoro dei Saraceni di Moleto Monferrato. Mah, a me viene tanta di quella tristezza e poi rabbia, che non immagini. Tutto questo accade …ancora, da noi, in modo insultante per il nostro passato e la nostra negletta cultura italica. Un altro “scandalo” passato quasi sotto silenzio, segnalato da FINESTRE SULL’ARTE
La notizia l’ho ricavata da un ritaglio di giornale ingiallito, probabilmente del 1984; l’articolo è di Franceso La Valle e il giornale è IL GAZZETTINO. Se fai qualche ricerca scopri quello che ho scovato io e che merita nuova attenzione. Ve la riporto come l’ho letta, evitando di commentare. Americani Sul Grappa – Documenti E Fotografie Inediti Della Croce Rossa Americana in Italia Nel 1918GIOVANNI CECCHIN Published by Asolo 1984.
Ancora un libro, memorie, due personaggi stratosferici, così lontani eppure così intimamente legati nell’ammirazione che uno provava per l’altro, non so se ricambiata, e poi nella disillusione per un sogno andato in frantumi. Ernest Hemingway e Gabriele D’annunzio. Ovvero la strana coppia. Scrive lo scrittore americano: “mentre fumavo, vagavo col pensiero al grande amatore che, esaurito l’amore per la donna, stava ora spremendo sul suo infuocato cranio le ultime gocce di amor patrio. Com’egli avesse messo da parte i decreti delle nazioni per fare il filibustiere. Questo eroe ormai vicino al disarmo. Un amante che era solo fallito in una ricerca, quella della morte in battaglia. Avrebbe egli incontrato la morte che cercava o sarebbe stato di nuovo beffato?
Pensavo all’ultima volta che l’avevo visto quando scese dalla carlinga dopo il raid della Serenissima su Vienna. Come, con quel suo aspetto di vecchio avvoltoio calvo, egli s’era sfilato il pugnale con l’impugnatura d’avorio che portava alla cintura sopra il maglione di aviatore e disse al pilota: “Tu hai perseguito il tuo obiettivo, io no!”, e s’incamminò via. Mentre pensavo a questo D’Annunzio e guardavo dalla battagliola, mi sentii premere contro le costole la punta di un pugnale e una voce mi sibilò “Che fiamme?” “Fiamme nere” ansimai contro il parapetto.” Benissimo Scribe Frog Eyes (scribacchino occhi di rana). Finalmente si salpa, mi disse in inglese “Voltati…Grifone sta pilotando fuori il piroscafo…stai andando a Fiume Scribe. abbiamo requisito la nave stanotte. “Diavolo d’un Picks! Ora siamo lontani dal Grappa!” dissi. ….” Ora tutti gli Arditi sono laggiù col Gabriele. Bisogna stare nel gruppo. Questa sì che è vita.” firmato Ernest Hemingway.
Nell’articolo ci leggi anche: A Chicago Hemingway nel 1922 scriveva del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” e l’articolo di Francesco La Valle conclude: In un personaggio della complessità di Hemingway, l’dentificazione ambivalente con D’Annunzio è sempre stata presente. Nel 1922 scriveva di lui nel contesto della famosa intervista a Mussolini: “D’Annunzio,… il vecchio calvo, forse un po’ matto, ma del tutto sincero e divinamente coraggioso fanfarone”E ancora nel 1950 in DI LA’ DAL FIUME E FRA GLI ALBERI: “il grande meraviglioso autore de IL NOTTURNO”. E fu proprio dal D’Annunzio musico della parola, oltre che “eroe” che Hemingway fu profondamente influenzato: dalla “magia” di una prosa fonica e ritmica, di semplicità e complessità evocative della musica. Tutte cose da approfondire, non ti pare?
Lasciami solo aggiungere una considerazione a margine, che ha il sapore dell’ovvio. Poteva forse continuare all’infinito quell’epoca di eroi, l’esaltazione del sangue bramoso di gloria e della mente che agognava nuove mete, emergenti come un fiume in piena nelle pagine del IL LIBRO ASCETICO DELLA GIOVINE ITALIA e nei discorsi esaltati con cui il Vate arringava i suoi legionari? Poteva andare oltre quell’avventura dello spirito, del sangue e delle armi, eredità ardenti ma scomode della prima guerra mondiale? Non poteva, è la risposta, infatti già si stava preparando il tempo nuovo, quello della normalità, della mediocrità dei nuovi soggetti politico sociali europei, anche se sarebbe occorsa una nuova guerra. L’eroismo, l’esaltazione, come l’amore e l’ardimento sono fratelli della giovinezza, quella che il vecchio avvoltoio calvo e un po’ matto, secondo Hemingway, ma sincero, non si rassegnava ad aver perduto; la normalità per lui era morte, ma non quella cercata in battaglia, bensì quella che esige oblio, silenzio, tacita rassegnazione, asservimento a nuove regole di vita per preparare una terra senza eroi, né proclami.
Di tutto quanto il mondo, che è sotto la volta del cielo, la parte più bella è l’Italia, e giustamente le si riconosce il primato della terra. Essa è la regina e la seconda madre del mondo, per virtù dei suoi uomini e delle sue donne, per i suoi duci e i suoi soldati, per gli schiavi, per l’eccellenza nelle arti, per la nobiltà degli ingegni; e anche per la situazione, per il clima salubre e temperato, e per essere il luogo di facile accesso a tutti i popoli a causa delle sue spiagge portuose e dei venti che vi spirano benigni; essa infatti è in tale posizione che avanza verso una parte utilissima in mezzo tra l’Oriente e l’Occidente. L’acqua vi è abbondante, i boschi salubri, i monti bene articolati, innocui gli animali selvatici, fertile il suolo, ubertosi i prati. In nessun luogo si trova così eccellente tutto cio che e necessario alla vita: biade, vino, olio, lana, lino, vesti, giovenchi. traduzione di U.E.Paolo da Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXXVII.
Simone Cosimi il 14 novembre 2019 scrive: Undicesimi al mondo per decessi precoci dovuti al Pm2.5, 46500 casi nel 2016. La questione ambientale, tra inquinamento e all’erta maltempo ci uccide. Sempre sull’onda del riscaldamento globale e del cambiamento climatico di cui l’emergenza a Venezia ci sta fornendo una drammatica dimostrazione, arriva ora uno studio continuativo pubblicato su The Lancet secondo il quale l’Italia fa registrare un altro record negativo europeo, sulla scia di alcuni allarmanti rapporti usciti già negli scorsi anni: siamo il primo paese in Europa, e undicesimo nel mondo, per morti premature da esposizione alle polveri sottili Pm2.5. Lo scorso marzo l’Organizzazione mondiale per la sanità aveva spiegato che l’aria inquinata uccide ogni anno 80mila persone solo in Italia, collocandoci addirittura un po’ più in alto nella triste classifica, intorno al nono posto, forse perché teneva in considerazione anche altri tipi di gas nocivi come Pm10, biossido di azoto e ozono.
18 maggio 2017 In arrivo una nuova tegola per l’Italia sul tema della gestione dei rifiuti. La Commissione europea ha deciso ieri di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la mancata bonifica o chiusura di 44 discariche che costituiscono un grave rischio per la salute umana e l’ambiente.
Malgrado i precedenti ammonimenti della Commissione, l’Italia ha omesso di adottare misure per bonificare o chiudere 44 discariche non conformi (23 in Basilicata, 11 in Abruzzo, 2 in Campania, 3 in Friuli Venezia Giulia, 5 in Puglia), come prescritto dall’articolo 14 della direttiva relativa alle discariche di rifiuti (direttiva 1999/31/CE del Consiglio). Come altri Stati membri, l’Italia era tenuta a bonificare entro il 16 luglio 2009 le discariche che avevano ottenuto un’autorizzazione o che erano già in funzione prima del 16 luglio 2001 (“discariche esistenti”), adeguandole alle norme di sicurezza stabilite in tale direttiva oppure a chiuderle.
7 marzo 2019 La Commissione europea ha deciso oggi di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’UE in due cause distinte riguardanti la legislazione ambientale. La prima causa riguarda l’inquinamento atmosferico e la mancata protezione dei cittadini dagli effetti del biossido di azoto (NO2). La Commissione invita l’Italia a rispettare i valori limite convenuti sulla qualità dell’aria e ad adottare misure adeguate per ridurre i livelli di inquinamento in dieci agglomerati in cui risiedono circa 7 milioni di persone. I valori limite di NO2 stabiliti dalla legislazione dell’UE in materia di qualità dell’aria ambiente (direttiva 2008/50/CE) avrebbero dovuto essere rispettati già nel 2010.
Sai che non mi viene voglia di aggiungere una parola allo scempio. Penso che le immagini bastino e le sanzioni che fioccano sul capo dell’Italia per non aver rispettato le direttive CEE parlino da sole. Plinio? E che si ricorda di lui? Facile che abbia preso un granchio. Comunque piazza San Marco, la Mole Antonelliana e il Colosseo ci sono ancora…per ora. Il Corronavirus impazza e relega tutto: spazzatura, giardini e bellezze al fondo della scala degli interessi.
Quella di cui i libri di Lorenzo Fornaca parlano, tanto per farti un esempio, innamorato com’è di quel lembo di Piemonte che si chiama Monferrato. Non ci sei mai stato a Camino, Fubine, Casale, Moncalvo, Cassine, Crea, Moleto? Vacci ne vale la pena. Non lo sapevi delle sue mirabili vicende? racchiuse fra Po e Tanaro, come scrive lo storico Aldo di Ricaldone nei suoi libri memorabili. Terra che ha difeso i suoi confini e conservato la sua indipendenza per otto secoli, prima di confluire nel regno d’Italia, unificato dai Savoia. Ma non farmi divagare. Dico solo che il lembo di terra affacciato su tre mari che noi disinvoltamente calpestiamo da svariati millenni e di cui inspiegabilmente NON andiamo fieri abbastanza, anzi, proprio per niente, considerandolo con trascuratezza, qualche attenzione in più lo meriterebbe, ma l’appartenere a questa terra sembra un dettaglio, un capriccio del destino, roba del genere. Dovresti spiegarmi perché un francese mette davanti a tutto la sua Francia e un Inglese la sua Inghilterra, non so i tedeschi, ma penso che anche loro, con qualche cautela, lo facciano. E così gli irlandesi eccetera, per non parlare degli americani. Si fa presto a dire: Italia, almeno per noi che ci siamo nati. Ma prova a dirlo a un islandese, a un eschimese o a un baltico da dove vieni. Ti chiederà subito qualche informazione in più (coronavirus a parte): da dove vieni? di che parte sei? sud, nord, centro. Si farà meraviglie, accennerà alla Ferrari, alla Bugatti! e alla Pagani (auto fatte a mano, per capirci) lo ha detto un amico di mio figlio che è andato a visitarla, ti chiederà dei mondiali di calcio vinti quando avevamo Pertini come presidente della Repubblica. Anche solo per sentito dire, vorrà sapere delle miniere di bellezze che la penisola racchiude, disponibili a essere amirate per tutti.
Ti dirà che è stato a Venezia, o a Roma, (coronavirus permettendo) eccetera o che ha lavorato come lavavetri a Torino o che aveva un banchetto di frutta a Padova. Il senegalese della reception del dentista mi ha chiesto, ad esempio, se conosco Vasari e Verrocchio, ne sapeva più lui di me! E il mio padrone di casa, un timido irlandese che adora il Belpaese stravede per Perugia e d’intorni dove un suo fortunato amico risiede. Non c’è da stupirsi, ma da prenderne atto, c’è da ricominciare ad amarla tutta, ma sul serio e quindi rispettarla perchè fragile, come una vecchia signora dal cospicuo passato, che si regge a malapena sulle gambe. E prendersene cura proteggendola, restaurandola, nel suo marmo che si corrode, nella pietra che si sfalda, nei suoi fiumi che con le piene diventano minacciosi e poi distruttivi. Ti ricordi di Firenze e dell’alluvione, immagino. E di tutte le altre alluvioni, anche metaforiche. Perché ne abbiamo solo una di Italia, precaria, dall’ossatura fragile, da ripensarla e da ripresentare al mondo in tutte le salse, e non solo attraverso il turismo d’ammasso che non le fa troppo bene (se non a ristoratori e alberghi oggi in totale crisi per via del virus che impazza e la avvilisce) e da augurarcela come non è mai stata e forse non sarà mai: unita davvero e amata e capace di attrarre lavoro e intelligenze dall’estero. Cercando di smentire Indro Montanelli, che, basandosi su dati verificati, ahimè!, dice che l’Italia non esiste, perchè gli italiani non han memoria della loro terra. E se provassimo a smentirlo? Occorre cambiare mentalità, guardare dentro casa e agire, farci forti del passato e progettare il futuro che per ora langue. Andare all’estero e fare confronti giova, magari aiuta, come è successo a me. C’è da pretendere da chi la amministra e governa una cosa sola, quella che possedeva l’imperatore svevo Federico II innamorato com’era dell’Italia che ce l’aveva nel cuore arrivando a sposare Bianca Lancia d’Agliano e a farci un figlio. Altre storie, nostre storie. Lui la amava l’Italia come l’amava suo figlio Manfredi che si è fatto scippare speranze e vita da santa madre Chiesa alla battaglia di Benevento. Queste cose stanno sui libri. Io non so se ti rendi conto, perché è difficile credere quanto siamo unici e timorosi e ignoranti di esserlo UNICI. Che ogni sua collina, castello, podere, tratto di fiume, costa, prato, ponte ogni sua chiesa e mura e torre e piazza e cubetto di porfido e lastra di pietra ci raccontano storie fuori dall’ordinario, che sono anche roba tua. Quando ti chiedo: ti ricordi dell’Italia, parlo anche a me, che ormai l’Italia la vedo col binocolo o per sentito dire, sottointendendo che ormai mi mancano condizioni di spirito ed economiche per percorrerla in lungo e in largo come una volta facevo in moto, in bici, in auto e a cavallo. Ti ricordi dell’Italia e delle sue diversità e unicità? Di Sezzadio, Camino, Casale Monferrato, di Alessandria e Asti e degli scrigni di bellezza del nostro Sud, e dei banchieri astigiani che prestavano soldi a destra e a manca e che tuttavia non sono riusciti a emergere come un’unica famiglia come hanno invece fatto gli Sforza e i Visconti.
Ti ricordi anche di Gradara dove Paolo e Francesca, secondo la leggenda, han fatto una brutta fine. Ci vorrebbe qualcuno che la amasse devvero l’Italia, che ne prendesse amorevolmente e saldamente la guida, e che ci insegnasse a volerle bene, figli di tante patrie-campanile, sotto uno stesso (diverso) cielo e distratti come siamo, in giro per il mondo a seminare nostalgia e a far confronti con la gente che ci ospita. La sua storia è stata anche parte della storia d’Europa, ed esempio totalizzante e indiscusso di bellezza per il mondo intero, scusa se è poco, poi ci siamo seduti, non ancora ben consapevoli della sua riunificazione siamo sopravvissuti a ben due guerricciole mondiali e poi dopo il progresso economico del dopoguerra ci troviamo incapaci di emergere definitivamente, come meritiamo. I re di Francia e d’Inghilterra avevano bisogno di noi, dei banchieri astigiani e dei banchieri fiorentini, al punto che Riccardo III, talmente il debito si era ingrossato, si rifiuta di restituirlo ai Bardi facendo fallire mezza Firenze. Ancora dietro le quinte dell’Europa, seppur divisi e poi a far da palcoscenico per tre secoli e mezzo a Francesi, Austriaci e Spagnoli che venivano a sbudellarsi a casa nostra, vedi gli assedi di Casale Monferrato e le mura spagnole a Milano e i vari re e imperatori stranieri che se la pappavano a spizzichi e bocconi. Ma dico, te la ricordi quella Italia, ovvero le tante Italie da cui siamo formati? Da non crederci, e liberi di credere a certe leggende (documentate).
I Saraceni sotto il letto li abbiamo mai avuti? Sì, no? La storia dice sì, che li abbiamo avuti anche noi, stavano a furfanteggiare in certe grotte dalle parti di Moleto, ma questa è, appunto, un’altra storia.
Quel pezzo d’Italia che si chiama Liguria, ad esempio, che per i Liguri è tutta l’Italia, avendo problemi di intesa anche coi confinanti riservati Piemontesi, tanto per citarne un pezzo, perché per i Liguri ce n’è una sola di Italia, la loro, (e non solo per loro) appunto quella fetta di terra che si affaccia sul mare omonimo, ma non sono i soli a nutrire sentimenti regional nazionalistici. E non puoi dargli torto e biasimare il risentimento di una regione dal forte passato e orgoglio politico militare e dalla esclusiva connotazione identitaria, diciamo che la maggioranza delle regioni in questo senso è assimilabile alla Liguria, avara delle sue tradizioni ai cui abitanti danno fastidio le torme di turisti che affollano ogni anno le sue spiagge e che, pare lo facciano ancora, affittano le loro abitazioni, per avere qualche soldo in più, condividendole con i detestati invasori nordisti. Dite che non è cosi? Ne ho le prove. A Varazze io ci andavo in vacanza proprio in quel modo. Si nasce, vive e muore da Liguri, ma io mi sento ligure come loro, come faccio a dirglielo agli spezzini, savonesi e genovesi che la loro terra appartiene anche a me? Magari si incazzano se glielo dico.
Quando ascolto la tristissima, accoratissima e bellissima canzone cantata da Bruno Lauzi sull’emigrante genovese che comincia con Mi se ghe pensu.… mi identifico col protagonista e mi commuovo come una bertuccia, anche se di ligure non ho proprio niente, sebbene per anni sia stato in vacanza sul mar Ligure. Mi commuovo lo stesso perché anche dal Veneto e dal meridione salpavamo per l’altrove, cercando fortuna e lavoro. Una mia zia, infatti, si chiamava Argentina e i suoi cugini hanno colonizzato quella terra omonima, si fa per dire, proprio come i Liguri, i Veneti, Piemontesi, e i terroni, eccetera. Ma non divaghiamo. Il prezzo della riunificazione italica lo abbiamo pagato tutti e lo stiamo ancora pagando, sentendoci defraudati, disillusi e traditi gli uni dagli altri, e facendo confronti fra prima e dopo. Non è forse così ? Ovvero le regioni col loro potente irrinunciabile passato hanno dovuto delegare e affidarsi a un potere unico che stenta a meritare fiducia e consenso. Lampante. Le aspettative disilluse e le sorti delle tante Italie prima della riunificazione non corrispondono al tran tran attuale, sta sotto gli occhi di tutti, innegabile; come potrebbe l’Italia di oggi rinnovare i fasti di una repubblica di Genova, o la grandezza di Venezia e del Regno Lombardo Veneto quando battibeccava coi Turchi, e delle repubbliche marinare oppure lo splendore del regno delle due Sicilie, visto che Napoli nel Settecento era considerata una capitale della cultura e dello stile di livello europeo (vai a leggere per favore quello che scrive il portale del Sud: (Napoli era la seconda città d’Europa (dopo Parigi) e la quinta nel modo, più grande di New York! e di Tokio. Era soprattutto la splendida capitale barocca, amica delle arti, dei commerci, delle scienze, straripante di turisti e viaggiatori…) e produceva statue da mozzarti il fiato come quelle del Corradini.
Ti ricordi della Siena di Gianna Nannini? La sua Italia e Siena, quando parla della sua città le si illuminano gli occhi. Ma lei cosa ne sa di Sezzadio, Cassine, di Fubine, e di Crea o di Asti e Cuneo. Come fai a dire Italia, voglio dire? Tante Italie, come quelle esplorate dal lodevole Alberto Angela, (ma perché non lo mettiamo a capo dei Beni culturali Alberto Angela e con pieni poteri di intervento?) Nel suo infaticabile lavoro di presentazione e promozione dell’italico suolo egli ci dà risposte ghiotte e davvero interessanti che dovrebbero catalizzare il nostro interesse. Le sue trasmissioni fanno il tutto esaurito, ma l’interesse si trasformerà in noi in voglia di amare e fare qualcosa per l’Italia? Che non sono (solo) quattro stupefacenti ruderi disseminati qua e là. E intanto l’Italia muore, inarrestabile la sua fine, a partire dalle sue coste, a partire da quelle di Rosignano Sovay, ad esempio, dove un mare morto assomiglia a un mare vivo dei tropici, ma cosi non è. Ti ricordi dell’Italia? Di quale Italia? dirai te. Non so nemmeno più io su quale soffermarmi. Quella degli Etruschi, dei Sabini, dei coloni greci, dei sette re di Roma, o quella imperiale di Augusto o ancora quella antecedente, di fieri popoli incoercibili che la popolavano prima che la forza dei Romani riuscisse a fatica a prendere il sopravvento e li costringesse insieme, ma insieme non ci siamo mai stati, ….già allora c’erano problemi di comprensione. Quale Italia ti chiedo se ricordi, quella splendida che l’Europa tanto ci invidiava? Quella che nutriva il mondo intero con l’ineffabile creazione di Michelangelo, Leonardo, Crivelli, Botticelli, Mantegna e Brunelleschi? O quella successiva alla calata del bruttarello e timido re di Francia Carlo VIII in cerca di gloria e di recupero del suo regno di Napoli? Così ben documentata da Silvio Biancardi nel suo libro La chimera di Carlo VIII, o quella dei torinesi, pugnaci e tosti che tramavano per riunificarla sotto l’egida del Cavour e della mai amata dinastia dei Savoia. Ma come fa un ferrarese ad amare un Savoia, me lo spieghi? Lui ha ancora in testa la corte degli Estensi e il bollito alla piemontese mal si conciglia con la salama da sugo di Formignana e il pasticcio di maccheroni di Ferrara, arcinoti nel mondo. E a un borbonico come fanno a piacergli i Savoia? A chi lo diceva a un palermitano che non c’era più il suo Ferdinando ma un Vittorio Emanuele re d’Italia, o’ usurpatore, ovvero il nuovo padrone del vapore. Quando penso all’Italia mi gira la testa e penso anche a mia nonna che aveva fatto dodici figli spazzati via per metà da malattia e spaventi, allacampagna di Gualdo, Formignana, Tresigallo, affondata nella pianura padana che sono in pochi a conoscere, tranne Ferrara e Bologna si capisce. Ma se ti ricordi di qualche Italia in particolare, che alla fine son tutte particolari, dimmelo, a me la memoria comincia a far difetto.
No, non questa Italia, ma l’altra, quella dei secoli andati, invidiata e amata da schiere di odierni ammiratori, alias turisti con macchina fotografica annessa, coronavirus permettendo, che la percorrono da nord a sud senza tuttavia immaginare lontanamente il come sia stata fatta e il perché, limitandosi ad ammirare le tante bellezze che stanno fotografando. Né gli si potrebbe fare loro una colpa. Ammiratori che, per una ragione o per l’altra, ci invidiano, al di là di ogni retorica e patriottismo. Allora ti ripeto la domanda, te la ricordi l’Italia? Anticipandoti io la risposta. No, non te la ricordi, e sai perché?
Perché l’Italia non esiste e non è mai esistita se non nei sogni e nella volontà di formidabili attori ormai estinti e protagonisti che l’hanno voluta, amata, concepita fino a morirne, che hanno combattuto e perso la vita per “lei”; riunita nel suolo, nella politica, nella storia, nell’arte, nell’unicità delle sue genti. Ma che hanno, ahimé per loro, fallito, perché l’Italia non ha coscienza di essere sé stessa. Non starebbe languendo sul panorama internazionale, e… fermiamoci qui. Un’Italia unita e artefice del suo presente futuro non c’è mai stata, ma solo, se mai, nelle intenzioni di pochi, non certo per volontà di popolo. Il 2 agosto 1847 Metternich scrisse, in una nota inviata al conte Dietrichstein, l’ormai arcinota e controversa frase «L’Italia è un’espressione geografica» (La frase esatta recita invece: «La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore storico politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari cercano di imprimerle.» Se lo dice Metternich, c’è da crederci….Tanta acqua è passata sotto i ponti dalla riunificazione ad oggi ma la cosa rimane immutata. Ci sono volute due guerre mondiali agli Italiani per farli sentire “nazione italiana” e poi? Tutto come prima. Tutti per proprio conto. E qual’è il prima? Il regionalismo, il campanilismo, la tradizione delle tante Italie, il dialetto che divide come in nessun altro luogo al mondo. Quando affermo che non c’è mai stata l’Italia pensata e voluta molti secoli prima, prima del conte Camillo Benso conte di Cavour e di Garibaldi che di rivoluzioni se ne intendeva e di Mazzini che di repubbliche se ne intendeva mi viene in testa quello che diceva l’esimio Indro Montanelli, che, anche se aveva sposato una dodicenne africana durante l’occupazione italiana in nord Africa, molto di buono e interessante ha comunque scritto e detto sull’Italia e gli italiani. Diceva che gli Italiani non hanno memoria, non sanno, non ricordano, si eclissano all’estero, facendo perdere le tracce della loro radici (non lo dico soltanto io) ….Come fai a fare l’Italia unita, chiedo io, prendendo a cannonate la regina Maria Sofia Wittelbach, che aveva avuto la brillante idea di sposare Franceschiello chiamato da suo padre Ciccillo o’ Lasagna. La donna non fugge, è verace,
bella e coraggiosa nel contrastare i Savoia che la vogliono morta e ancora prima l’hanno diffamata. Le cannonate le sparava dalle navi Cialdini contro la fortezza di Gaeta, e contro la regina, per ordine dei Savoia che volevano “cancellare” l’altra dinastia regia italica, che avrebbe dato fastidio e cioè quella dei Borbone. Al sud non sono pochi quelli che considerano ancora i nordisti Savoia degli usurpatori. Io ne conosco un paio. Anche così abbiamo fatto l’Italia, non certo coi referendum democrtaici di adesso e ancora: anche coi soldi della massoneria inglese che aveva foraggiato Garibaldi e le sue camice rosse per i suoi molteplici interessi. Ma che c’entra l’Inghilterra? C’entra, quella c’entra dappertutto, se c’è da trarre profitto da situazioni internazionali fluide, come era a quei tempi quella dell’Italia in formazione. Visto che spingeva per un’Italia unita per dar fastidio a Francia e Austria. Ma non voglio far troppa storia, non sono uno storico, ma un italiano in esilio. Sì , in esilio, perché dall’Italia ci si allontana principalmente per un motivo: per tentare di fare soldi o perché si va a fare gli esuli (come Ugo Foscolo) della cui grandezza di poeta non posso certo partecipare. E dunque te la ricordi l’Italia? Non puoi ricordarla mentre sta franando e cancellando la sua memoria e le sue tradizioni. Sai perche non c’è l’Italia? Per la sua storia degli ultimi tre secoli. Perché uno di Codigoro non riesce a pensarla come uno di Catanzaro. Perché trovami due italiani che la pensano allo stesso modo, due dico, non tre. Individualisti, eccetera, ma non solo. Tornando a Montanelli avrebbe detto, intervistato da Elkann, che gli Italiani non hano memoria, all’estero perdono la loro identità, si amalgamano, confondendosi con l’ambiente, si annacquano e poi spariscono, assorbiti dalla cultura locale, strano, a me non succede. Io, che italiano sono fino al midollo, dico che italiani ci si sente e questo significa che io mi sento calabrese e siciliano e ligure, anche se ho radici in Emilia e Veneto, e dei torinesi ho il rigore sul lavoro. Vai a rileggere quello che fa dire Giuseppe Tomasi di Lampedusa al principe di Salina nel Gattopardo, ovvero in quel capolavoro dove si respira la “grande elegia della morte”. Avevo un compagno alle scuole medie, un bel ragazzo, nero di capelli come un corvo, il cui padre faceva il falegname, tenendo bottega sul Po, a Torino, onestissimo, laboriosissimo e calabrese fino alle midolla, ovvero estraneo ai polentoni Torinesi di allora che non sopportavano i terroni, venuti a piantare il basilico nella vasca dei bagni e a puzzare di fritto. Noi, eravamo più tollerati perché non puzzavamo di fritto essendo appunto veneti ed emiliani (ovvero terroni del nord) cioè non classificabili, ma sempre terroni del nord eravamo e quindi da guardare con sospetto e tenere sotto osservazione. Ti ricordi dell’Italia? Poi ti dirò di quale Italia sto parlando. Sempre se ti interessa saperlo.
Non dirmi che non te ne sei accorto! Come: di cosa? Del fatto che si sia estinta, e che se vuoi rintracciarla ancora devi aprire le pagine di un libro gigantesco che si chiama Passato e andare indietro di mezzo secolo o poco più. La puoi trovare ancora, per esempio, andando nei musei, in una galleria di quadri o di sculture, in qualche cinema d’essai (ma ne esistono ancora?) o in una biblioteca, oppure a teatro, a goderti Lo Schiaccianoci o qualche vibrante concerto di musica classica. Oppure col naso in su visiti le città italiane, che si chiamano, indovinate un po’? Città d’arte, per l’appunto. Lì ancora gli esempi abbondano. Fanno testo essendo bene comune e condiviso. Luoghi dislocati ovunque, come piovesse, nell’italica penisola e un po’ meno in altri luoghi, sparsi per il mondo. Vuoi che tiri un sasso in piccionaia? Tanto la piccionaia è deserta da anni. L’arte è morta, come del resto è accaduto al Dio cristiano (così dicono molti esperti). Per cui ti chiedo: Ti ricordi dell’arte? Scomodando Wikipedia veniamo a sapere che: L’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi. Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Nel suo significato più sublime l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità e dell’animo umano.
Non ci piove, non fa una grinza. E allora beccati questa a proposito dell’interiorità e dell’animo umano: Sai quanto vale l’orinatoio di Du Champ? Te lo dico io. Ho sbirciato su Wikipedia che scrive: Il prezzo più alto attualmente raggiunto da una replica, edizione o lavoro contenente tracce dell’opera originale, è quello di una delle otto copie che Duchamp fece realizzare nel 1964. Il suo prezzo è pari a 1,7 milioni di dollari, e venne acquistata tramite Sotheby’s nel 1999. Hai capito bene: un pisciatoio, ovvero l’arte è morta, perché in una pisciata non ci può essere ispirazione, ma solo sollievo di sgravarti la vescica, o in un barattolo il prodotto di una (vera?) defecazione, pare infatti che dentro le scatolette numerate ed etichettate di Piero Manzoni ci sia gesso e non cacca di artista. Il contenuto di dubbia origine messo in barattoli di latta dall’artista e conservati nei più importanti musei del mondo assume il suo significato preciso fatto di polemica e critica. Pare che Manzoni avesse voluto polemizzare (giustamente) contro il mondo del mercato dell’arte mettendo in scatola della cacca o del gesso. Pero adesso la cacca rimane, boh! Al posto di Madonne, angeli, guerrieri, nature morte, paesaggi e sbalordenti ritratti di insigni maestri c’è urina e feci e il taglio sulla tela di Fontana, Chiaro il concetto? Ovvero la morte dell’arte, uccisa da chi dell’arte se ne intende, ossia dal mercato, ma non solo da quello, ovvio. Ti risparmio l’evoluzione della definizione di arte nei millenni. Essa ha subito varie modifiche, ampliamenti e correzioni. Giordano Bruno, condannato a morte sul rogo, uno dei primi pensatori a prefigurare idee moderne, disse che: “… la creazione è infinita, non c’è un centro e non ci sono limiti – né Dio né l’uomo – tutto è movimento, dinamismo. Per Giordano Bruno, “esistono tante arti, quanti artisti, introducendo il concetto di originalità dell’artista. L’arte non ha regole, non si apprende, ma viene dall’ispirazione”. Pía Figueroa Co-Direttrice di Pressenza, umanista di lunga data, autrice di numerose monografie e libri. (così lei scrive, tradotta da Annalisa Pensiero ) dice che: Oggi, nel bel mezzo di una grande destrutturazione globale, in un momento in cui impera la coscienza disillusa, dove gli esseri umani non vedono un futuro chiaro, dove crescono l’isolamento e la violenza, gli artisti devono proporci di fare una scelta chiara a favore della vita e di una cultura ispirata da e per il futuro. Torniamo a noi: alla base dell’arte, di qualsiasi arte, c’è l’ispirazione; un impiegato, un postino, un taxista non hanno bisogno di essere ispirati, fanno il loro lavoro e basta, con o senza partecipazione, dipende. Correggimi se sbaglio. Ma un artista no, ha bisogno dell’ispirazione, del, come si diceva una volta, fuoco sacro, che, se canalizzato e reindirizzato, crea l’opera d’arte. Per farlo ha bisogno del combustibile, e cioè dell’ispirazione: Secondo il pensiero greco, un poeta era ispirato quando cadeva in estasi e veniva trasportato al di fuori della sua mente, a contatto con i pensieri di Dio. Le divinità che concedevano l’ispirazione erano le Muse, guidate da Apollo. Per i poeti italiani del Dolce stil novo le Muse ispiratrici erano invece le proprie dame, donne trasfigurate in creature angeliche, simbolo di un ideale irraggiungibile per quanto riguarda l’Occidente. L’artista nella sua ispirazione più genuina si sente in dovere di esprimere una sintesi (poetica, in senso lato) della realtà in cui gli tocca vivere, usando il linguaggio della metafora, dell’allegoria o del simbolo. L’ispirazione, quando possiede sufficiente carica affettiva, quando ribolle, quando si sperimenta come un turbamento interiore che si sforza di manifestarsi attraverso la parola, la forma o il colore, i suoni armonici, il corpo, ecc. spiega un particolare stato di coscienza che puó invadere il sogno, l´insogno e la veglia. Così si vive l’esperienza artistica, come un invito ad esprimere un sentimento profondo, accompagnato da un forte impulso a voler essere liberi di creare, di sentirsi trasformati. dice ancora Pía Figueroa. Di cultura e informazione su arte e ispirazione e pensiero creativo, te ne puoi fare quanta ne vuoi. Io dico che l’arte può essere anche protesta, o denuncia, come Guernica e certi murales dimostrano o come quella di Jean-Michel Basquiat, che sconcerta ma coinvolge, oppure le ossessioni psico oniriche di Francis di Bacon che personalmente non ardirei di mettere in soggiorno. O, come diceva Picasso: L’ispirazione esiste, ma deve trovarti già al lavoro. Quello che sostengo io, è che l’arte non è più merce facilmente riscontrabile al giorno d’oggi. Non escono più dalle botteghe del Verrocchio: Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, Francesco Botticini, …L’Arte non informa più un’intera epoca dell’uomo come ha fatto da noi per il Rinascimento e senza riferirsi a quelle vette probabilmente irripetibili, non è più pane quotidiano condiviso, per constatarlo devi andare nei cimiteri, (reali, come quello di Milano e Genova o di Londra e metaforici che, sempre se nessuno si offende, visto che anch’io sono italiano, sono costituiti dall’intera nostra penisola.) Ovvero tracce, reperti, tutta la nostra bellezza che il mondo ci invidia, ma noi lo sappiamo che ci invidiano? Frutto di una ispirazione morta e sepolta, di un segno creativo inimitabile che prima parlava esclusivamente del sacro e poi dell’uomo nuovo e anche del ricco commerciante delle Fiandre che si autoeleogiava nei suoi ritratti, poi di papi, dogi, re e regine e…, beh lo sai anche te che la lista risulta interminabile, e poi non ha parlato più di nulla l’arte, auto dissoltasi, prova a pensarci. Cosa vai a vedere a Pisa? a Firenze a Urbino e a Siena o a Venezia e a Napoli e Palermo, vai a vedere la colonna spezzata, il marmo corroso, le mura cadenti, il bello, il mito, la grandezza estinta seppur tenuta in vita, ovvero il passato, piazze, chiese, fontane, ponti e statue, a valanga, la bellezza pura o riflessa che si disfa e che tu restauri ma che si disfa ancora, le perfette proporzioni, il genio reinterpretato, in tutte le declinazioni possibili. Ovvero casa nostra, dove abbiamo vissuto per millenni. Si tratta di un dato di fatto, riscontrabile e sotto gli occhi di tutti. Ma facci caso, vai a vedere il Passato, qualcosa che è stato fino a poco tempo fa, e che ci ha resi grandi e unici al mondo.
E che non è più. Come vedi non ho messo immagini, non sapevo cosa e perché metterle. Anzi, no, ci ho ripensato. Una immagine la voglio mettere. Un’ “opera” e il suo artefice che non ha bisogno di presentazioni, mettendo egli la parola FINE al valore e al significato dell’arte.
Come ti dicevo: di poesia c’è bisogno come il pane. Perché? Ti chiederai. Comincio il post facendoti una domanda. Ma davvero ti senti superiore e diverso e migliore perche tu sei vestito e lui invece non lo era? Sto parlando del troglodita del Paleolitico che ha istoriato con scene di caccia pareti e soffitti delle grotte di Altamira in Spagna. Ti senti superiore a lui? Io no e non faccio l’originale o il bizzarro a oltranza. Tutt’altro. Sono serissimo. Pare che fossero in molti nel corso di migliaia di anni ad aver graffittato gli interni delle grotte! Sai cosa c’ è lì dentro? Il nostro futuro c’è. E la bellezza pura, ovvero la Poesia. Non si direbbe in una grotta. Vero? Chi l’avrebbe mai detto, proprio là dentro, al buio! Da migliaia di anni attende. Le nostre origini ci sono, sui soffitti della grotta, dalle quali non possiamo né dobbiamo derogare, c’è il futuro di poeti, artisti, e pittori e graffittari. Il tuo futuro. Ovvero il pezzo migliore della nostra anima e del nostro intelletto e dell’intelligenza creativa.
Tutto registratro in una grotta. Un condensato di energia, di rappresentazione, di volontà di trasmettere una emozione, il troglodita privo di computer voleva lasciare qualcosa di suo, evidentemente, una scena, episodi di vita, e l’ispirazione, ovvero poesia allo stato puro. Per visitare quei luoghi oggi devi fare una coda di tre anni, se bastano. Sai di cosa parlo? di roba che e stata prodotta nella notte dei tempi. E cioe dai 25.000 ai 35.000 anni fa, questo dicono i test di laboratorio. Anni in cui la nonna di tua bisnonna non era ancora nata. E nella notte dei tempi uno sconosciuto seminudo prende carboncino, ematite e ocra per tracciare e colorare capolavori d’arte che probabilmente hanno ispirato lo stesso Picasso, il quale pare, anche se non è confermato, abbia detto al termine di una visita alle grotte, : “Dopo Altamira, tutto è decadenza.” Sottoscriviamo il suo parere all’istante, prendendolo alla lettera. Arte, Poesia, appunto, allo stato puro, già allora, da leggersicome esigenza insopprimibile, esclusivamente umana. Ma dimmi una cosa: chi glielo faceva fare al troglodita di turno sobbarcarsi quelle fatiche? Magari era affetto da artrite deformante o da torcicollo. Mica c’era il supermercato sottocasa e il cibo se lo doveva procurare, cacciando e rischiando la ghirba. Per cosa si metteva a graffiare muri? che ai tempi non c’erano nemmeno inviti e cocktail di presentazione ne’ musei, o critici specializzati, e nemmeno le fagocitanti leggi di mercato dell’arte. Per danaro? Ma se dovevano ancora inventarlo il denaro! Per chi istoriava l’energumeno con scene di caccia i muri di casa sua? Semplice: per se stesso, prima di tutto e poi per te e per me. Le grotte sono state definite Cappella Sistina della Preistoria e mi fermo qua. Gli slogan roboanti sono il prodotto dell’evo moderno, del resto. Di slogan viviamo, surrogati sintetici che vorrebbero sostituirsi all’oggetto, in questo caso di bellezza e suggestione inarrivabili. E oggi? Oggi no, non prendiamo più in mano ematite carboncino e ocra, per strada non ci sono. Allora io ti dico che se vuoi contrastare con successo i malanni che comporta vivere all’ammasso, intruppati nelle nostre megalopoli, fintamente protetti da occhi che ti scrutano, spiano e registrano chi sei e cosa fai e come ti muovi per condizionarti meglio in un secondo tempo, devi guardarti intorno e riflettere. Per contrastare efficacemente nevrosi, ansia e depressione e il timor panico di esistere, e combattere contro l’irraggiungibile chimera della modernità a ogni costo, che ti costringe ad adottare un sistema di vita contro natura, devi fare una scelta. E scendere nelle grotte di Altamira o in altre assai più antiche nel Borneo, ma pare che sia maledettamente scomodo raggiungere le Sulawezi, proprio per compensare i frustranti riti collettivi imposti dalla modernità che di umano hanno solo l’etichetta, devi scegliere insomma. Opponendo la tua forza a quella del sistema, al vivere secondo schemi, ritmi e abitudini studiati e progettati da altri per il benessere conclamato e la ricchezza esorbitante di pochi.
Devi prendere carboncino e ocra e metterti all’opera. (Trattasi di metafora, ma nemmeno poi tanto). Tu, da solo o in gruppo. E scendere nel profondo. Disegnare, scrivere, dipingere, scolpire, insomma creare, come han fatto i nostri antichi parenti, frugando dentro e fuori te stesso. Cercando e illustrando secondo Poesia. E sai perché ? Perché di poesia c’è bisogno come il pane, come ce n’era bisogno allora, 25.000 e 50.000 anni fa. C’è necessità che tu ti liberi, che tu esprima te stesso, facendo della tua Poesia un motivo per vivere, (l’unico? Non lo so) un mezzo fondamentale di espressione, del salutare liberarsi del tuo istinto creativo. Son retorico? Nemmeno un po’. Guardati attorno. Smetti un attimo di stare incollato a testa china all’iPhone, al tablet, allo schermo del computer. Diventi gobbo e ti viene il pollicione. Smetti, fruga, sogna e crea. Il troglodita attende che tu raccolga il testimone. In fondo sono passati solo trentamila anni. Ce l’hai anche tu, ne sono certo, si chiama vecchio progetto, si chiama sogno nel cassetto, e ambizione di fare al di là di schemi imposti, abitudini, nefaste utopie di progresso ed editori che fanno i bottegai (anche se non c’entra molto in questo contesto). Prova, per te stesso innanzi tutto, prova come ha fatto il troglodita, che non aveva nemmeno a disposizione la vicina della porta accanto alla quale chiedere: Ti piace? L’ho fatto io. Chiamala per nome, un dolce nome ma potente come la vita stessa: si chiama Poesia. Vedo che mi manca lo spazio, al prossimo post la dimostrazione di quanta ragione io abbia, con i fatti.