il Vate infuocava i suoi fedelissimi?

Alberto Moravia lo detestava, anche per il numero inarrivabile di conquiste femminili e perché forse vedeva nell’oggetto del suo scherno quello che lui non avrebbe mai potuto essere. Mentre la moglie Elsa Morante diceva esplicitamente che Carducci era un idiota, Pascoli un cretino e D’Annunzio un emerito imbecille; Pasolini, che era loro amico, ne parlava pochissimo e male. Avrai così capito che sto parlando del Vate, dell’ultimo grande italiano, del mito ultimo d’Italia. Con la sua scomparsa si seppellisce un’epoca, va in pensione l’Italia eroica, combattente della Grande Guerra coi suoi cinquecentosessantamila morti italiani. Non ci sarebbe stato più spazio in futuro per uno come lui e per quelli che lo osannavano.
Prima di abbandonare l’Italia ho fatto visita al Vittoriale, doveroso omaggio al Vate: mausoleo, clausura, dimora traboccante cimeli, D’annunzio sembrava che fosse appena uscito da una delle sue stanze. Così diceva: “Io dono il Vittoriale agli Italiani, considerandolo un testamento d’anima e di pietra…” Con lui sparisce l’esteta, il retore, sparisce il soldato (autentico) anche se il barone Julius Evola, che peraltro aveva apprezzato i suoi scritti, lo definiva “teatrante”. Puoi detestare la sua figura di avvoltoio vecchio e calvo, come lo descriveva, pur ammirandolo, Ernest Hemingway, e quella spasmodica ricerca del bello e inimitabile, puoi scegliere alcuni suoi versi e stamparteli in mente, di eccezionale bellezza quelli di Alcyone, e amare quella prosa sonora che pare abbia influenzato la scrittura di Hemingway. Con D’Annunzio muore colui che sfidava la morte, cercandola sul campo di battaglia, come momento estetico inimitabile, senza tuttavia riuscire trovarla. Nel volumetto pubblicato da IDROVOLANTE EDIZIONI ITALIA O MORTE c’è tutto l’ardore e l’ardire del poeta che si fa uomo d’arme, del tribuno che lamenta l’Italia eroica tradita da una vergognosa pace mutilata. Ignorare D’annunzio, figura apprezzata e studiata a livello internazionale, è impresa senza senso e parlare di lui oggi è come aggiungere gocce a una mare di scritti, articoli, analisi, tesi, critiche e infine riscoperte. Dal volume di ITALIA O MORTE cito alcuni passi significativi:

A pag. 18: Non si tratta di avanzare verso il benessere ma verso la grandezza. Anche la fame e la discordia possono essere artefici della grandezza futura.
A pag. 28: Che valore hanno i segreti dei trattati laboriosi – espedienti della fede fiacca e della paura intempestiva- al paragone delle diritte volontà eroiche?
A pag. 38: Io e i miei compagni non vorremmo più essere Italiani di un’Italia rammollita dai fomenti transatlantici del dottor Wilson e amputata dalla chirurgia transalpina del dottor Clemenceau.
A pag. 58: Non vedo potenze contro di noi, nel senso dello spirito, nella specie dell’eterno. Non vedo se non grossi e piccoli mercanti , grossi e piccoli usurieri, grossi e piccoli falsari.
A pag. 92: Per lui (Natale Palli) come per ogni spirito eroico “il sogno è fratello dell’atto e anche la morte non è se non un atto creatore, il più misterioso e virtuoso degli atti creatori
A pag. 145: La Grande Guerra aveva sprigionato dall’uomo tutte le essenze sublimi; aveva abolito i limiti noti del coraggio e del patimento;…Veramente la bellezza eroica precipitava e traboccava sul mondo come un torrente di maggio…
IDROVOLANTE EDIZIONI ITALIA O MORTE

“Osare l’inosabile, questo il mio scoglio” uno dei suoi motti, non più oggi, non è più nostro quel primato di allora, quello nuovo sta altrove, appartiene ad altri popoli, ma è anodino e di natura molto diversa dal precedente italiano.

Quello che forse D’Annunzio non poteva intendere è che un popolo d’eroi non può che vivere sulla punta delle fiamme di un incendio, di un tumulto del sangue, ma che le fiamme poi, volenti o nolenti, si spengono per lasciare posto alla “normalità” che non è mai epica o eroica per costituzione, lasciando macerie fumanti e infine fredde e immemori, come quelle tipiche dei nostri giorni. Sta a te, a me, “almeno” non dimenticare quello che siamo stati e chi ci rappresentava facendosi interprete del nostro essere latente più profondo, questo fino a poco tempo fa. E, ci tengo a sottolinearlo, vorrei che la sua figura e le sue opere fossero patrimonio comune di tutti noi, al di là di ogni credo, orientamento o appartenenza politica.

I prossimi post saranno dedicati alla sua figura, che riserva inesauribili “sorprese”.


il Barone non voleva essere chiamato “Maestro”?

Alla voce Mao Tse Tung il dizionario di Filosofia della Rizzoli del 1977, revisione e bibliografie di Emanuele Ronchetti dell’università di Milano, redattore capo Italo Sordi si legge: Rivoluzionario, pensatore e uomo politico cinese, figlio di contadini, eccetera…ma la parola criminale non compare, possibile che quelli della Rizzoli ignorassero le sue nefandezze a carico del suo popolo? Ovviamente il dizionario riporta i nomi di Marx, Lenin, Sartre, Marcuse e anche Nietzsche, dedicando loro ampio spazio. Il libro di Jung Chang e Jon Halliday MAO the unknown story sostiene che a carico del dittatore cinese ci sono, malcontati, circa settanta milioni di morti. Ovvero un criminale sfuggito al giudizio della storia. Rammento ancora, sbarbatello, i cortei per le vie di Milano e Torino che gridavano: Boia Johnson! (non che questi fosse un’anima candida) e Viva Mao! E altri studenti che avevano rifiutato un incontro con Alberto Moravia sbattendogli in faccia la porta e dicendo: “Mao sì, Moravia no.” La RIZZOLI mi dovrebbe spiegare perché non ho trovato sul suo dizionario le voci che cercavo: Evola, Tradizione e Rivolta contro il mondo moderno, la sua opera più complessa ed esaustiva. Forse perché il Barone Julius Evola era colluso col Fascismo anche se critico non poco nei confronti di Mussolini e perché teneva contatti col Nazismo, da cui peraltro veniva spiato, perché individuo sospetto. Chi teme ancora questo personaggio? Gigante del pensiero europeo, filosofo controcorrente del Novecento. Perché Mao sì e lui no?
Dopo questo lungo preambolo introduttivo ecco un libro appena pubblicato da IDROVOLANTE EDIZIONI. Curato da Gianfranco De Turris IL RITORNO DEL BARONE IMMAGINARIO, una raccolta di diciassette racconti ispirati a questo, per certi versi, enigmatico personaggio, che ha subito e tuttora subisce l’ostracismo di critici e storici italici. Racconti che hanno Evola, il Barone ritornato alla ribalta, per protagonista.

Un puzzle di brevi narrazioni fantastiche e realistiche, tutte interessanti, basate su personaggi, fatti e luoghi reali, che concretizzano una idea di Gianfranco De Turris, curatore del volume, il quale nell’introduzione del libro scrive: “Julius Evola resta in fondo l’unico e forse ultimo tabù della cultura italiana del secondo Dopoguerra. Questo libro che segue il primo è un po’ la risposta per dimostrare che Evola è una personalità/personaggio tale da superare tanti ostracismi al punto da indurre una quarantina di scrittori a porlo al centro di altrettante storie…io credo che il Barone, quello in carne ed ossa ci avrebbe celiato su dopo averlo letto.” Le opere di Evola sono conosciute all’estero e la loro diffusione è crescente, ma l’Italia lo elimina dall’elenco dei grandi protagonisti del pensiero occidentale. Il volume publicato, da IDROVOLANTE EDIZIONI è un omaggio dovuto e sentito all’uomo ironico e autoironico che ha sempre rifiutato l’etichetta di Maestro o di Guru. Nelle foto il suo ritratto durante la Prima Guerra mondiale e un suo dipinto dadaista. Il volume pubblicato da IDROVOLANTE EDIZIONI va così incontro a un’esigenza, una curiosità di sapere, alla volontà di non dimenticare l’uomo e la sua opera ancora avvolte nel limbo di un incomprensibile ostracismo, dettati probabilmente da trascuratezza e timore. Ma occorre non mitizzare Evola, non lo avrebbe gradito.

Che il filosofo, storico esoterista e pittore Dada risulti oggi un antidoto è evidente, le sue analisi e tesi appaiono, dopo decenni, lucide e profetiche; a chi si rifiuta di studiarlo o anche solo di prenderlo in considerazione bastano evidentemente lo sfascio, l’oblio di grandezze trascorse, l’approssimazione infine, caratteristiche del nostro essere moderni. Ma i balbettii di chi cerca e non trova nessun appiglio nell’odierno, ovvero le stimmate del sordo e del cieco, non possono costituirsi valori di riferimento in alcun modo. Il Nichilismo di Nietzsche del resto ha fatto il suo tempo da un pezzo. Delle innumerevoli frasi che emergono dall’opera di Evola, superato l’imbarazzo della scelta, ne scelgo alcune tratte da RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO: “L’uomo tradizionale sapeva della realtà di un ordine dell’essere molto più vasto di quello a cui oggi corrisponde di massima la parola “reale”. Oggi come realtà, in fondo, non si concepisce nulla più che vada oltre il mondo dei corpi nello spazio e nel tempo. …Le basi della gerarchia e della civiltà tradizionale, in tutto e per tutto sono state distrutte dalla trionfante civiltà “umana” dei moderni…”

scriveva e moriva Yukio Mishima?

Personaggi estremi e fuori dall’ordinario ce ne sono sempre stati, con la la loro figura e le loro opere si impongono, in questo caso anche brutalmente, all’attenzione producendo riflessioni e considerazioni; è il caso di Yukio Mishima, e la sua LA DIFESA DELLA CULTURA. edito da IDROVOLANTE , Personaggio estremo che offre spunto per considerare e verificare al di là, se possibile, di ideologie o posizioni preconcette, la nostra storia. Personaggio controverso, strenuo difensore del’unicità del Giappone e dei suoi valori tradizionali. ovvero del Giappone imperialista della seconda guerra mondiale. Il suo pensiero rimane in bilico fra spada e crisantemo, fra vita e morte di cui subiva il fascino prepotente, fra brutalità ed eleganza, fra Oriente ed Occidente. Ossessionato dall’dea di perfezione anche estetica, affascinato dal San Sebastiano di Guido Reni e dalla statua dell’amante dell’imperatore Adriano, Antinoo. Mishima mette a nudo incontestabilmente l’animo del Giappone, del tramonto del dio imperatore, e dell’onore nipponico che non conosce compromessi. Per questo ricorrerà a quel suicidio teatrale che ancora oggi fa discutere e in un certo modo infastidisce i Giapponesi odierni alle prese col loro scomodo passato . Il suo suicidio è un atto politico, una manifestazione di non resa, l’estrema protesta contro il nuovo Giappone asservito alla volontà dei vincitori. Un atto estremo il cui significato assurge a simbolo, a rivolta, a denuncia. Mishima che vestiva abiti italiani di gran classe, fumava sigari cubani e aveva una particolare ammirazione per Marlon Brando e per scrittori come Gide e Hemingway (dalla densa introduzione di Daniele Dell’Orco) rimane per certi versi un enigma anche se il suo estremo gesto di protesta si ripropone chiaro nel suo significato nel tempo a decenni di distanza. Né le parole del primo ministro di allora che disse alla notizia del suicidio spettacolare di Mishima: “Doveva essere fuori di testa.” sminuiscono il suo clamoroso dirompente gesto. Fuori di testa non lo era, a meno di considerare fuori di testa le centinaia di giapponesi suicidi per aver perso la guerra. Con Mishima muore un samurai (l’ultimo?) che tentò invano di perseguire un’armonia tra la penna e la spada.

Su una sua affermazione di certo non concordo: “L’idea di una cultura universale, o di una cultura del genere umano , è già di per sé assai discutibile per la sua astrattezza…(pag 47 del libro.) Mishima non può impedirmi di amare anche la particolarissima concezione dell’arte del suo Paese, e tentare di farla mia, così come del resto accadrebbe per i Bronzi del Benin o l’arte rupestre di Altamira. Interessante quanto leggo a pag. 48: …è sbagliato limitarsi a mettere in luce la dimensione statica della cultura giapponese ignorandone quella dinamica. Essa possiede una tradizione peculiare che trasforma gli stessi modelli di azione in opere d’arte. Caratteristico del Giappone è che le arti marziali appartengano al medesimo genere artistico della cerimonia del tè e della disposizione dei fiori, una tipologia di opere che in breve volgere di tempo nascono, rimangono in vita e poi scompaiono… Per alcuni aspetti mi rammenta D’Annunzio e il suo tentativo (riuscito) di fare della sua vita un’opera d’arte.

Mishima si congeda tragicamente dal suo amato Giappone con un crisantemo di sangue, il suo sangue, che brilla ancora sulla sua katana. Il suo martirio che rimanda a quello di San Sebastiano denuncia una dicotomia insanabile fra (l’ex) anima giapponese imperialista e l’animo attuale narcotizzato e obbediente a dinamiche storico politiche che il Paese deve subire. Se sei a Londra, agli ultimi piani del British museum, ma devi attendere che riapra dopo il virus, ci troverari il padiglione del Giappone con varie testimonianze e reperti, fino al recente passato, appena accennato, della sua volontà di potenza, (come non riandare a Nietzsche?) egemonia, volontà che hanno condotto il Paese ad eroismi indicibili ma anche a nefandi crimini, come come quello di Nanchino. In ogni caso LA DIFESA DELLA CULTURA è un libro, a distanza di decenni, ancora oggi di una attualità sconcertante.