lavoravi il ferro?

Dopo mezzo secolo ho capito. Dovevo farlo e imparare. L’imberbe allievo entrava in una buia spelonca rischiarata dal bagliore di diverse fucine. Faceva parte del mio apprendistato scolastico. Là ho imparato a lavorare il ferro. Tenace e nobile. Il materiale che ha scandito le nostre epoche, che ha costruito la nostra civiltà. Non sono parole tanto per dire, solo adesso capisco l’importanza di quel difficile apprendistato. Il legno lo plasmavo a piacimento, il ferro no. Non si lasciava addomesticare facilmente. Dovevi dimostrare la tua tenacia, di essere più forte di lui. Solo allora cedeva sull’incudine. Rosseggiava, sprizzava scintille, biancheggiava infine, allora facevi calare la mazza. A diciassette anni estraevo la barra cilindrica per foggiarlo a parallelepipedo e poi a ottaedro per poi appiattirlo e ottenere una barra piatta. Un duro lavoro a cui mi dedicavo con accanimento e piacere. Non sono afflitto da nostalgiche reminiscenze scolastiche. Se te non l’hai fatto ti sei perso un’esperienza importante. Non parlo del fabbro, quello è un mestiere vero. Perché ti parlo di quella lontana esperienza? perché la mia conoscenza tecnologica si è fermata lì. Alla mazza che batte il ferro sull’incudine. Pensi che esageri? No. Tutto il resto, ovvero il corredo iper hi tech, indispensabile alla vita odierna non lo conosco e mi riferisco agli strumenti che ti permettono di esprimerti, e comunicare, di prenotare un viaggio, o una visita dal medico, ovvero di sopravvivere. Quelli non li conosco proprio. Mi sono fermato alla mail, che tutt’oggi considero il più clamoroso e avanzato sistema di comunicazione mai inventato, e anche al blog con cui puoi esprimerti a piacere anche se gli “eroici” blogger difficilemente sapranno il motivo di quell’agognato MI PIACE che spesso compare in calce ai loro post. Ho soppresso in me l’essere tecnologico high tech. Che sia alieno lo dice anche il figlio. Non posseggo Iphone, I pad, non ho cellulari se non un vecchio Nokia usato in tutto tre volte per dire sono decollato e sono atterrato sulla tratta Milano Londra. Vado a piedi o prendo il bus. Ho sentito parlare di Instagram, Tik Tok, Twitter, Tinder, What’s up, Face book, ma mi tengo alla larga., non saprei che farmene. Sarei per il ritorno al baratto ma non ho attualmente capre né sale o conchiglie. Il computer con cui lavoro è lento come un asino sfiatato e a volte mi pianta in asso. Quando si tratterrà di trasferirsi su altri pianeti io dirò grazie, mi basta questo. Il rifiuto dell’high tech è totale e meriterebbe un discorso più vasto, me ne assumo ogni conseguenza. Da solo uno come me non riuscirebbe a vivere in una foresta come Londra. In capanne o in costruzioni di assi di legno o argilla sì, forse sta lì il mio futuro. Quarant’anni fa mi scaldavo davanti a un camino e a una stufa a legna, vedevo con sospetto il termosifone. Anche l’evoluzione del telefono mi ha spiazzato.

Non so se sono in tanti quelli come me. Se sì, dovremmo riunirci, coltivare un orto, mungere capre, fare legna e piantare insalate con la luna calante. Siamo superstiti. E i video su you tube, allora?! Devo cedere alla loro suggestione, lo ammetto. Portentosa quell’invenzione, essenziale per sopravvivere in caso di tracollo tecnologico. Alcuni video ad esempio, ti insegnano ad accendere il fuoco, a costruire un riparo, un’ascia, un trapano, un arpione. Cose che reputo essenziali. E tu no?

tenevano bottega sulla tua via?

F come ferro. ferramenta, fabbro, ferraiolo, fabbro ferraio, fucina. Dicesi fabbro: Questo termine designa, da solo, in italiano l’artefice del ferro o “fabbro ferraio”, ma in latino, da cui la voce deriva, faber è seguito di solito da un epiteto che designa sia la materia lavorata (faber aerarius; argentarius; eborarius; ferrarius;… scrive nostra sorella Treccani. Ma quelli che tenevano bottega nei paesi e facevano, da veri maestri artigiani, gran lavori in ferro battuto non ci sono più. Spariti dall’orizzonte, surclassati dalla macchina che produce lavori tutti uguali, tutti perfetti, tutti anonimi. Ringhiere, cancelli, treppiedi, mensole, grate, scale e quant’altro in ferro, non recano più l’impronta artigiana, ma la matrice industriale. Taluni riemergono, oggi, un po’ qua, un po’ là, riesumando e portando avanti una perizia che data secoli, una passione antica legata a belle immagini e al mito di Vulcano.

Il ferro ha un fascino unico, per lavorarlo occorre tenacia, esperienza e fantasia oltre alla forza necessaria per modellarlo. Io l’ho sempre amato, e ho imparato a maneggiarlo quando ero poco più di uno sbarbatello, in quelle grandi scuole di avviamento professionale, alunno apprendista all’istituto che sfornava tecnici per l’industria degli anni Sessanta. Quelli che vivono ancora nella mia memoria non erano veri fabbri ma serramentisti perché già negli anni Cinquanta i fabbri erano pochi e in via di sparizione. C’erano le macchine a sostituirli. Li rammento tagliare, segare, saldare con le bombole di ossigeno e acetilene barre, tondini, profilati, lamiera. Sarei stato ore a vederli all’opera e non erano nemmeno dei veri fabbri.

L’antro dei nipoti di Vulcano con il camino e il fuoco bianco e giallo che costringeva il ferro a materia lavorabile arroventata non c’era più da un pezzo. Senza il fabbro non aprivi porte e finestre, rimanevi senza tavolo e sedie, te ne stavi fuori casa, come un allocco, perché avevi appena perso le chiavi e quindi c’era la serratura da cambiare se volevi entrare in casa. i pensavano loro a darti una mano. Erano, o sono ancora oggi, ma in misura e di tenore assai diverso e meno significativo di un tempo gli artigiani del ferro. Ti ricordi che c’erano i fratelli Renna nella tua via? Stavano in via degli Artisti che è una parallela di corso San Maurizio, a Torino. Nella casa di fianco alla tua; dalla loro bottega spoglia usciva l’odore delle barre e lamiera di ferro, della mola smeriglio che sprizzava scintille mentre mordeva il metallo, del liquido refrigerante che sembrava latte mentre i denti della sega circolare tagliavano a misura, e i trucioli che si attorcigliavano, non sembravano ferro ma argento, e poi l’odore dolciastro mentre saldavano con gli elettrodi o col cannello a ossiacetilene, portando a misura barre di ferro e profilati per fabbricare telai di finestre e ringhiere di balconi. Il ferro battuto avevano smesso di trattarlo da tempo, conservavano comunque un poderoso incudine per i lavori correnti, che avevano portato dal loro paese: eredità del loro padre che lui sì, in meridione, ancora aveva lavorato il ferro a mano. Loro no, erano già fabbri moderni, e della lavorazione artigianale paterna avevano conservato il ricordo e quel massiccio incudine. I loro lavori erano sicuramente meno artistici di un tempo; a fabbri moderni in quel periodo nessuno chiedeva di cimentarsi con lavori in ferro battuto. Ti ricordi quando te ne stavi a lungo, davanti alla loro vetrina, affascinato ad ammirarli, al lavoro, loro sapevano trattarlo il ferro, con gli spessi guanti di cuoio, costringendolo a saldarsi con altro ferro in determinati punti, mentre la fiamma ossidrica arroventava la zona che poi rosseggiava, come se il metallo si stesse a poco a poco calmando. Ben poco era rimasto delle vecchie lavorazioni, ma quel poco ancora ti attirava.

E oggi? I fratelli Renna hanno chiuso bottega, han fatto i soldi e costruito una meritata posizione, sono tornati al loro paese d’origine. Immigrati come noi, avevano capito di cosa c’era bisogno allora nelle case. Oggi se hai quelle necessità puoi provare su internet, puoi cercarne uno on line, la ferramenta c’è ancora, ma vende solo prodotti, chi lavora il ferro te lo devi cercare, e spiegargli cosa vuoi. Auguri.

Se vuoi leggere qualcosa che ho scritto io