scrivevi a macchina?

Ticchetetac, faceva e poi dopo decenni di servizio il ticchettio si ridusse a poco più di un mormorio elettromeccanico contenuto e rassicurante: non faceva più Ticchetetac ma: sssrrrbim! la macchina elettrica ora va a capo da sola e corregge. Un po’ come dire: dalla legna da ardere al metano. Non comandi più un astina con un carattere scolpito in cima ma una sferetta metallica, una vibrante pallina tecnologica in grado di cambiare stile del carattere! Uno schianto di macchina, dalla imperscrutabile tecnologia, visto che le lettere, tutte le lettere dell’alfabeto sono scolpite in altorilievo su quella sferetta nervosa che preme sulla carta lettere e numeri. Ti ricordi quando hai scritto prima su una, poi sull’altra? Strumento indispensabile per ogni super segretaria di direzione e non. Ecco come ti condisco una delle invenzioni più straordinarie che il mondo abbia conosciuto.

Sei andato avanti per anni, e ti pareva che fosse il massimo della tecnologia per la scrittura. Senza neppur saper immaginare che genere di rivoluzione ti attendeva dietro l’angolo. Lettere e numeri di metallo che imprimevano sulla carta il loro significato, crampi alla mano addio! Un progresso reputato inarrestabile, del rivoluzionario avvento del computer nemmeno l’ombra. Manuale, meccanica, elettrica ed elettronica. Così ti ho descritto l’evoluzione del modus scrivendi. Ci pensava lei! La macchina da scrivere ticchetetac. Leggera portatile o mastodontica e inamovibile come un ammasso di pesante ferraglia. L’ultimo ritrovato, portatile e non, prodotto della tecnologia più moderna. Il mondo scriveva a macchina, proclami, editti, lettere di licenziamento e assunzione, romanzi, racconti brevi e necrologi, tesi di laurea e cronache “a caldo” di giornalisti, che sulle loro portatili redigevano cronache e reportage, magari appoggiando la prediletta Olivetti Lettera 22 sulle ginocchia come faceva Indro Montanelli.

Il succedaneo di carta e penna, anzi qualcosa che surclassava definitivamente l’antico modo di comunicare, durato migliaia di anni. Ti ricordi il giorno del tuo compleanno quando mamma e papà te l’hanno regalata? Ce l’aveva la vicina di casa, una siculo tunisina di belle maniere, appena approdata dal nord Africa che ti aveva detto infila il foglio se vuoi, ma il numero 9 non lo batte, è scassato il tasto. Grave mancanza della formidabile macchinetta sciorina lettere. Ti sei messo a tavolino e da allora devi ancora smettere di battere sui suoi tasti neri cerchiati di ferro. Così avresti desiderato, ma le cose non sono andate a quel modo, perché i tempi hanno imposto altre diavolerie. Io, che sono legato alla tradizione e a tutte le cose che ammuffiscono in soffitta, e che parlano a oltranza la lingua delle cose obsolete, scomode, trapassate e fuori del tempo, la ricordo con rimpianto, così personalizzata, e imperfetta, e ho fatto fatica ad adeguarmi, a parte i costi nel comprare nuovi aggeggi per la comunicazione. Carta e penna vi saluto! …e io pago.. Dicono che sei antiquato ma al computer non hai voluto piegarti per anni! Solo quando ti hanno obbligato hai ceduto. Il problema è che facevi difficoltà a trovare i nastri inchiostrati per scrivere e che la gente cominiava ad additarti per strada dicendo: Quello lì e un troglodita! Vuole continuare a lavorare con la macchina da scrivere! Onta e disonore, quasi mi cacciavano dalla redazione di un periodico di informazione tecnico industriale!

La macchina da scrivere, non pus ultra della tecnologia, ovvero il prolungamento del pensiero cullato dal famigliare, amichevole, rassicurante ticchettetac. Io ne ho avute cinque, di tutte le marche. Corona, Triumph, Olivetti, portatili e non, di metallo non scalfibile o dalla carenatura di plastica, mastodontiche creature inamovibili, così imponenti e impossibili da ignorare, macchine da scrivere da tavolo anche per comporre racconti e romanzi, e superpiatte “gazzelle” con cui stendere cronache marziane e lettere di dimissione. Poi ho dovuto cedere anch’io, nessuno accettava manoscritti e inediti redatti con la macchina da scrivere. Ti avrebbero guardato con orrore e derisione descrivendoti come marziano. Ti saresti tagliato fuori da solo facendoti bollare per antiquato, non mi viene un altro termine decisamente meno diplomatico. Ma questo da dove viene? Dal Carbonifero? Dalle caverne? Dal cembalo scrivano di Giuseppe Ravizza, che permetteva ai ciechi di scrivere, alle Remington e Olivetti,

conosciute e premiate per la loro affidabilità. Macchine iper robuste, affidabili e moderne per quei tempi di tumultuosa effervescenza creativa. Sempre più perfezionate e silenziose per redigere documenti velocemente e in modo standard. La fine di inchiostro e pennino coincide con l’invenzione nel 1802 di Agostino Fantoni. La macchina da scrivere conta comunque circa 52 padri inventori, un record che ci dice quale fosse il desiderio e la volontà di produrre velocemente documenti “perfetti”, immediatamente comprensibili da tutti e standard, lontani anni luce dai parti faticosi e laboriosi dello scrivere a mano. Mi viene quasi da sorridere se penso al giorno in cui qualche nuovo aggeggio potrà sostituire il nostro amato odiato computer, o forse non ce ne sarà più bisogno perché avremo perso ogni capacità, necessità e desiderio di esprimerci?! E basterà fissare un foglio di carta per vederlo riempirsi di caratteri e cifre. Trasmissione del pensiero? Solo bizzarre fantasie?! Ma se non ci saranno più pennini, carta, inchiostri, computer e obsolete tastiere, non ci sarà più niente di quel genere me lo dici con cosa e su cosa scriveranno i futuri Omero e gli Aleksei Nikolaevich Tolstoi di turno?

c’era l’Italia (3)

Quella di cui i libri di Lorenzo Fornaca parlano, tanto per farti un esempio, innamorato com’è di quel lembo di Piemonte che si chiama Monferrato. Non ci sei mai stato a Camino, Fubine, Casale, Moncalvo, Cassine, Crea, Moleto? Vacci ne vale la pena. Non lo sapevi delle sue mirabili vicende? racchiuse fra Po e Tanaro, come scrive lo storico Aldo di Ricaldone nei suoi libri memorabili. Terra che ha difeso i suoi confini e conservato la sua indipendenza per otto secoli, prima di confluire nel regno d’Italia, unificato dai Savoia. Ma non farmi divagare. Dico solo che il lembo di terra affacciato su tre mari che noi disinvoltamente calpestiamo da svariati millenni e di cui inspiegabilmente NON andiamo fieri abbastanza, anzi, proprio per niente, considerandolo con trascuratezza, qualche attenzione in più lo meriterebbe, ma l’appartenere a questa terra sembra un dettaglio, un capriccio del destino, roba del genere. Dovresti spiegarmi perché un francese mette davanti a tutto la sua Francia e un Inglese la sua Inghilterra, non so i tedeschi, ma penso che anche loro, con qualche cautela, lo facciano. E così gli irlandesi eccetera, per non parlare degli americani. Si fa presto a dire: Italia, almeno per noi che ci siamo nati. Ma prova a dirlo a un islandese, a un eschimese o a un baltico da dove vieni. Ti chiederà subito qualche informazione in più (coronavirus a parte): da dove vieni? di che parte sei? sud, nord, centro. Si farà meraviglie, accennerà alla Ferrari, alla Bugatti! e alla Pagani (auto fatte a mano, per capirci) lo ha detto un amico di mio figlio che è andato a visitarla, ti chiederà dei mondiali di calcio vinti quando avevamo Pertini come presidente della Repubblica. Anche solo per sentito dire, vorrà sapere delle miniere di bellezze che la penisola racchiude, disponibili a essere amirate per tutti.

Ti dirà che è stato a Venezia, o a Roma, (coronavirus permettendo) eccetera o che ha lavorato come lavavetri a Torino o che aveva un banchetto di frutta a Padova. Il senegalese della reception del dentista mi ha chiesto, ad esempio, se conosco Vasari e Verrocchio, ne sapeva più lui di me! E il mio padrone di casa, un timido irlandese che adora il Belpaese stravede per Perugia e d’intorni dove un suo fortunato amico risiede. Non c’è da stupirsi, ma da prenderne atto, c’è da ricominciare ad amarla tutta, ma sul serio e quindi rispettarla perchè fragile, come una vecchia signora dal cospicuo passato, che si regge a malapena sulle gambe. E prendersene cura proteggendola, restaurandola, nel suo marmo che si corrode, nella pietra che si sfalda, nei suoi fiumi che con le piene diventano minacciosi e poi distruttivi. Ti ricordi di Firenze e dell’alluvione, immagino. E di tutte le altre alluvioni, anche metaforiche. Perché ne abbiamo solo una di Italia, precaria, dall’ossatura fragile, da ripensarla e da ripresentare al mondo in tutte le salse, e non solo attraverso il turismo d’ammasso che non le fa troppo bene (se non a ristoratori e alberghi oggi in totale crisi per via del virus che impazza e la avvilisce) e da augurarcela come non è mai stata e forse non sarà mai: unita davvero e amata e capace di attrarre lavoro e intelligenze dall’estero. Cercando di smentire Indro Montanelli, che, basandosi su dati verificati, ahimè!, dice che l’Italia non esiste, perchè gli italiani non han memoria della loro terra. E se provassimo a smentirlo? Occorre cambiare mentalità, guardare dentro casa e agire, farci forti del passato e progettare il futuro che per ora langue. Andare all’estero e fare confronti giova, magari aiuta, come è successo a me. C’è da pretendere da chi la amministra e governa una cosa sola, quella che possedeva l’imperatore svevo Federico II innamorato com’era dell’Italia che ce l’aveva nel cuore arrivando a sposare Bianca Lancia d’Agliano e a farci un figlio. Altre storie, nostre storie. Lui la amava l’Italia come l’amava suo figlio Manfredi che si è fatto scippare speranze e vita da santa madre Chiesa alla battaglia di Benevento. Queste cose stanno sui libri. Io non so se ti rendi conto, perché è difficile credere quanto siamo unici e timorosi e ignoranti di esserlo UNICI. Che ogni sua collina, castello, podere, tratto di fiume, costa, prato, ponte ogni sua chiesa e mura e torre e piazza e cubetto di porfido e lastra di pietra ci raccontano storie fuori dall’ordinario, che sono anche roba tua. Quando ti chiedo: ti ricordi dell’Italia, parlo anche a me, che ormai l’Italia la vedo col binocolo o per sentito dire, sottointendendo che ormai mi mancano condizioni di spirito ed economiche per percorrerla in lungo e in largo come una volta facevo in moto, in bici, in auto e a cavallo. Ti ricordi dell’Italia e delle sue diversità e unicità? Di Sezzadio, Camino, Casale Monferrato, di Alessandria e Asti e degli scrigni di bellezza del nostro Sud, e dei banchieri astigiani che prestavano soldi a destra e a manca e che tuttavia non sono riusciti a emergere come un’unica famiglia come hanno invece fatto gli Sforza e i Visconti.

Ti ricordi anche di Gradara dove Paolo e Francesca, secondo la leggenda, han fatto una brutta fine. Ci vorrebbe qualcuno che la amasse devvero l’Italia, che ne prendesse amorevolmente e saldamente la guida, e che ci insegnasse a volerle bene, figli di tante patrie-campanile, sotto uno stesso (diverso) cielo e distratti come siamo, in giro per il mondo a seminare nostalgia e a far confronti con la gente che ci ospita. La sua storia è stata anche parte della storia d’Europa, ed esempio totalizzante e indiscusso di bellezza per il mondo intero, scusa se è poco, poi ci siamo seduti, non ancora ben consapevoli della sua riunificazione siamo sopravvissuti a ben due guerricciole mondiali e poi dopo il progresso economico del dopoguerra ci troviamo incapaci di emergere definitivamente, come meritiamo. I re di Francia e d’Inghilterra avevano bisogno di noi, dei banchieri astigiani e dei banchieri fiorentini, al punto che Riccardo III, talmente il debito si era ingrossato, si rifiuta di restituirlo ai Bardi facendo fallire mezza Firenze. Ancora dietro le quinte dell’Europa, seppur divisi e poi a far da palcoscenico per tre secoli e mezzo a Francesi, Austriaci e Spagnoli che venivano a sbudellarsi a casa nostra, vedi gli assedi di Casale Monferrato e le mura spagnole a Milano e i vari re e imperatori stranieri che se la pappavano a spizzichi e bocconi. Ma dico, te la ricordi quella Italia, ovvero le tante Italie da cui siamo formati? Da non crederci, e liberi di credere a certe leggende (documentate).

I Saraceni sotto il letto li abbiamo mai avuti? Sì, no? La storia dice sì, che li abbiamo avuti anche noi, stavano a furfanteggiare in certe grotte dalle parti di Moleto, ma questa è, appunto, un’altra storia.