Quella di cui i libri di Lorenzo Fornaca parlano, tanto per farti un esempio, innamorato com’è di quel lembo di Piemonte che si chiama Monferrato. Non ci sei mai stato a Camino, Fubine, Casale, Moncalvo, Cassine, Crea, Moleto? Vacci ne vale la pena. Non lo sapevi delle sue mirabili vicende? racchiuse fra Po e Tanaro, come scrive lo storico Aldo di Ricaldone nei suoi libri memorabili. Terra che ha difeso i suoi confini e conservato la sua indipendenza per otto secoli, prima di confluire nel regno d’Italia, unificato dai Savoia. Ma non farmi divagare. Dico solo che il lembo di terra affacciato su tre mari che noi disinvoltamente calpestiamo da svariati millenni e di cui inspiegabilmente NON andiamo fieri abbastanza, anzi, proprio per niente, considerandolo con trascuratezza, qualche attenzione in più lo meriterebbe, ma l’appartenere a questa terra sembra un dettaglio, un capriccio del destino, roba del genere. Dovresti spiegarmi perché un francese mette davanti a tutto la sua Francia e un Inglese la sua Inghilterra, non so i tedeschi, ma penso che anche loro, con qualche cautela, lo facciano. E così gli irlandesi eccetera, per non parlare degli americani. Si fa presto a dire: Italia, almeno per noi che ci siamo nati. Ma prova a dirlo a un islandese, a un eschimese o a un baltico da dove vieni. Ti chiederà subito qualche informazione in più (coronavirus a parte): da dove vieni? di che parte sei? sud, nord, centro. Si farà meraviglie, accennerà alla Ferrari, alla Bugatti! e alla Pagani (auto fatte a mano, per capirci) lo ha detto un amico di mio figlio che è andato a visitarla, ti chiederà dei mondiali di calcio vinti quando avevamo Pertini come presidente della Repubblica. Anche solo per sentito dire, vorrà sapere delle miniere di bellezze che la penisola racchiude, disponibili a essere amirate per tutti.

Ti dirà che è stato a Venezia, o a Roma, (coronavirus permettendo) eccetera o che ha lavorato come lavavetri a Torino o che aveva un banchetto di frutta a Padova. Il senegalese della reception del dentista mi ha chiesto, ad esempio, se conosco Vasari e Verrocchio, ne sapeva più lui di me! E il mio padrone di casa, un timido irlandese che adora il Belpaese stravede per Perugia e d’intorni dove un suo fortunato amico risiede. Non c’è da stupirsi, ma da prenderne atto, c’è da ricominciare ad amarla tutta, ma sul serio e quindi rispettarla perchè fragile, come una vecchia signora dal cospicuo passato, che si regge a malapena sulle gambe. E prendersene cura proteggendola, restaurandola, nel suo marmo che si corrode, nella pietra che si sfalda, nei suoi fiumi che con le piene diventano minacciosi e poi distruttivi. Ti ricordi di Firenze e dell’alluvione, immagino. E di tutte le altre alluvioni, anche metaforiche. Perché ne abbiamo solo una di Italia, precaria, dall’ossatura fragile, da ripensarla e da ripresentare al mondo in tutte le salse, e non solo attraverso il turismo d’ammasso che non le fa troppo bene (se non a ristoratori e alberghi oggi in totale crisi per via del virus che impazza e la avvilisce) e da augurarcela come non è mai stata e forse non sarà mai: unita davvero e amata e capace di attrarre lavoro e intelligenze dall’estero. Cercando di smentire Indro Montanelli, che, basandosi su dati verificati, ahimè!, dice che l’Italia non esiste, perchè gli italiani non han memoria della loro terra. E se provassimo a smentirlo? Occorre cambiare mentalità, guardare dentro casa e agire, farci forti del passato e progettare il futuro che per ora langue. Andare all’estero e fare confronti giova, magari aiuta, come è successo a me. C’è da pretendere da chi la amministra e governa una cosa sola, quella che possedeva l’imperatore svevo Federico II innamorato com’era dell’Italia che ce l’aveva nel cuore arrivando a sposare Bianca Lancia d’Agliano e a farci un figlio. Altre storie, nostre storie. Lui la amava l’Italia come l’amava suo figlio Manfredi che si è fatto scippare speranze e vita da santa madre Chiesa alla battaglia di Benevento. Queste cose stanno sui libri. Io non so se ti rendi conto, perché è difficile credere quanto siamo unici e timorosi e ignoranti di esserlo UNICI. Che ogni sua collina, castello, podere, tratto di fiume, costa, prato, ponte ogni sua chiesa e mura e torre e piazza e cubetto di porfido e lastra di pietra ci raccontano storie fuori dall’ordinario, che sono anche roba tua. Quando ti chiedo: ti ricordi dell’Italia, parlo anche a me, che ormai l’Italia la vedo col binocolo o per sentito dire, sottointendendo che ormai mi mancano condizioni di spirito ed economiche per percorrerla in lungo e in largo come una volta facevo in moto, in bici, in auto e a cavallo. Ti ricordi dell’Italia e delle sue diversità e unicità? Di Sezzadio, Camino, Casale Monferrato, di Alessandria e Asti e degli scrigni di bellezza del nostro Sud, e dei banchieri astigiani che prestavano soldi a destra e a manca e che tuttavia non sono riusciti a emergere come un’unica famiglia come hanno invece fatto gli Sforza e i Visconti.

Ti ricordi anche di Gradara dove Paolo e Francesca, secondo la leggenda, han fatto una brutta fine. Ci vorrebbe qualcuno che la amasse devvero l’Italia, che ne prendesse amorevolmente e saldamente la guida, e che ci insegnasse a volerle bene, figli di tante patrie-campanile, sotto uno stesso (diverso) cielo e distratti come siamo, in giro per il mondo a seminare nostalgia e a far confronti con la gente che ci ospita. La sua storia è stata anche parte della storia d’Europa, ed esempio totalizzante e indiscusso di bellezza per il mondo intero, scusa se è poco, poi ci siamo seduti, non ancora ben consapevoli della sua riunificazione siamo sopravvissuti a ben due guerricciole mondiali e poi dopo il progresso economico del dopoguerra ci troviamo incapaci di emergere definitivamente, come meritiamo. I re di Francia e d’Inghilterra avevano bisogno di noi, dei banchieri astigiani e dei banchieri fiorentini, al punto che Riccardo III, talmente il debito si era ingrossato, si rifiuta di restituirlo ai Bardi facendo fallire mezza Firenze. Ancora dietro le quinte dell’Europa, seppur divisi e poi a far da palcoscenico per tre secoli e mezzo a Francesi, Austriaci e Spagnoli che venivano a sbudellarsi a casa nostra, vedi gli assedi di Casale Monferrato e le mura spagnole a Milano e i vari re e imperatori stranieri che se la pappavano a spizzichi e bocconi. Ma dico, te la ricordi quella Italia, ovvero le tante Italie da cui siamo formati? Da non crederci, e liberi di credere a certe leggende (documentate).

I Saraceni sotto il letto li abbiamo mai avuti? Sì, no? La storia dice sì, che li abbiamo avuti anche noi, stavano a furfanteggiare in certe grotte dalle parti di Moleto, ma questa è, appunto, un’altra storia.







Bon, chiuso, stop. Non se ne parla più di figli, Non posso averne, del resto ho la mia età. Aldo è distrutto, a chi andranno le sue cose? Il titolo nobiliare, e i suoi studi! La nostra casa, le nostre idee, tutto il suo archivio di storico?! Abbiamo amici, d’accordo, possiamo guardarci intorno, un erede adottato? Ma mica è la stessa cosa, e poi la faccenda non mi piace. Gli amici sono amici e basta. Non c’è il figlio? Pazienza, è andata così, mica c’è da impazzire, invece Aldo non mangia e non dorme. Gli passerà, sta preparando altri libri, altri scritti. Intanto io non mi rassegno a fare la madre fallita e qui sono dietro casa mia, al Romito, in una bella giornata d’ottobre. La vita deve andare avanti! Con o senza figlio, anche se a pensarci mi viene un magone pazzesco, per me, ma soprattutto per Aldo.
Matilde si muoveva raramente, organizzò un lungo, e per lei faticoso viaggio, e venne a portarmi il quadro, che si vede di fianco, nella mia casa in Brianza, in provincia di Milano, dove allora abitavo. Insieme al quadro mi portò, però, anche una voluminosa cartella, di quelle grandi, da pittore, con dentro decine di fogli da disegno constudi vari e abbozzi di figure che riguardavano tutti Padre Pio. A quanto ho potuto capire in seguito, osservando quei disegni, in quel periodo, anni 1994-1995, Matilde Izzia deve avere dedicato molta attenzione al “frate con le stigmate”. In quei grandi fogli ci sono abbozzi per una specie di storia dei momenti emblematici della vita del santo: le estasi, le visioni, le stigmate, le guarigioni, Padre Pio che insegna, Padre Pio che soffre, Padre Pio che prega: scene che richiamano le storie popolari come venivano raccontate negli antichi ex voto. Matilde deve aver meditato a lungo sulla vita e sul messaggio di Padre Pio e deve essersi impegnata con passione per cercare modi significativi per raccontarlo con la sua arte. Non so se poi abbia realizzato i quadri abbozzati nei disegni, ma il suo progeera importante e grande. Di tutto questo avrei voluto parlare con Matilde, ma non ho potuto farlo perché, dopo quell’incontro, non l’ho più vista. Non so perché abbia voluto portarmi, insieme al quadro, tutti quei disegni riguardanti la sua ricerca pittorica su di lui. Forse voleva ringraziarmi perché, con i miei libri, avevo contribuito ad aumentare la sua conoscenza di Padre Pio. Può darsi, ma non lo so. E quando guardo il quadro che sta nel mio studio, mi sembra di vedere, accanto alla figura di Padre Pio, Matilde che, con un sorriso dolce ed enigmatico, mi scruta. In quel quadro, Matilde ha ritratto Padre Pio secondo un piano americano. Il religioso tiene le braccia aperte e mostra le stimmate delle sue mani dalle quali escono vistosi rivoli di sangue. È un quadro sereno e gioioso. Il colore dominante è il marrone chiaro del saio francescano, che si spande, come una luce soffusa e discrete, per tutta la tela, anche sul volto del personaggio, che è incorniciato dalla barba bianca e da corti capelli grigi. La testa del santo è appoggiata a una grande croce di luce, intorno alla quale danzano oggetti imprecisati, rotondi, di varie dimensioni, di color marrone chiaro, con al centro macchie bianche, che creano una atmosfera di festa e che potrebbero richiamare presenze soprannaturali, angeli, astri, pianeti e cose del genere. Il volto di Padre Pio è quasi sorridente. Ma di un sorriso che palesa anche un dolore acuto, espresso con la tipica contrazione facciale di chi ha nel corpo una piaga viva, aperta, martellante, e sta attento a non fare movimenti inopportuni per non accentuare lo spasimo, che però egli non odia, non rifiuta, anzi lo interiorizza, lo vive e vorrei dire lo ama. È un atteggiamento singolare e insieme emblematico. “Trasmette”, secondo me, in modo perfetto, lo stato d’animo del santo. Padre Pio è consapevole che quelle misteriose piaghe, con le quali convive giorno e notte, sono sì un martirio ininterrotto, ma sa che sono anche il mezzo con cui può testimoniare il suo amore per Dio e per il prossimo, come aveva fatto Gesù sulla croce. E poiché il suo amore per Dio e per il prossimo è grande, immenso, egli affronta quel dolore lancinante abbracciandolo, amandolo, diventando lui stesso “dolore sorridente”.
Tutta per me. Finalmente. La mostra di Moncalvo, fra amici, ed appassionati di pittura, fra gente che si ricordava di me e di Aldo, e dei momenti trascorsi insieme in un non lontano passato. Persone commosse che non vogliono dimenticare, che intendono tenere vivo il ricordo del Romito, delle mie tele, del lavoro di Aldo, della passione che lega noi e loro nel segno del Monferrato e delle sue bellezze. Una selezione delle mie tele: solo donne, questo era il tema, un excursus che ha suscitato consensi e ammirazione. La critica d’arte Emilia Ferri ha parlato con competenza e profondità di analisi, ha fatto raffronti, la mia pittura affiancata alle tele dei maestri che tanto ammiravo: Cezanne, Gauguin, Matisse. Ne sono onorata; forse l’inspiegabile
velo di silenzio e ombra che grava ancora sulla mia produzione artistica sta per essere sollevato. Lorenzo Fornaca, Gianfranco Cuttica di Revigliasco, Antonio Barbato e poi Maria Rita Mottola e il marito Giancarlo Boglietti di ALERAMO sono stati i promotori della mia esposizione. Tutti amici, vecchi e nuovi, tutti plaudenti nella città che tanto ho amato e goduto. La sala al Museo civico di Moncalvo era piena, e c’era gente in piedi. I fasti di Ginevra, quando esposi alla Galerie Motte suscitando l’entusiasmo del collezionista Oscar Ghez e della critica più qualificata sono lontani; ma ricominciare da casa mia è davvero un buon segno.


Ho dovuto conoscere Lorens, l’amico Lorenzo Fornaca, l’editore astigiano che ha pubblicato i libri di Aldo, tuo marito. E poi incontrare Gianfranco Cuttica di Revigliasco e suo figlio Cesare, nobili di nome e di fatto. Con loro abbiamo allestito la mostra al complesso monumentale di Bosco Marengo. E poi ancora l’amico Antonio Barbato, ammiratore sia di te che di Aldo. Anche se temeva l’irruenza del tuo Gin Gin credendolo un cane mordace. Li conoscevi tutti e tutti ti apprezzavano, lodando ospitalità e cordialità che sapevi offrire loro con spontaneità, da autentica gentildonna monferrina. Alla lunga lista di amici ora si aggiungono: Maria Rita Mottola, presidente di A.L.E.R.A.M.O. onlus e suo marito Giancarlo Boglietti. Senza il loro intervento la mostra di Moncalvo non ci sarebbe stata. Matisse italiana ti ha definito Roberto Coaloa, giornalista e storico, giovanissimo frequentatore del Romito, in un suo recente articolo apparso sul giornale LIBERO. Altri ancora ammiravano te ed Aldo come Pierangelo Torielli e Luigi Bavagnoli, speleologi, custodi di segreti tesori dei Saraceni, racchiusi nella valle del Guaraldi. Artefice riservata e assidua di un’arte raffinata e potente, ancora oggi tutta da scoprire, sei stata una grande artista misconosciuta, anche se oggi qualcuno comincia ad accorgersi e ad appezzare la tua pittura. Meglio tardi che mai. Che ne è stato delle nostre elucubrazioni sul mondo, l’arte, l’amore, la filosofia e sulla dignità perduta degli esseri? Mah!? nei più rinomati bar di Torino ti facevi tentare dai bignè alla crema e da certi babà al cioccolato. Davanti a quelle squisitezze non resistevi più di un minuto, golosa, e mentre mi chiedevi: -Secondo te mi faranno ingrassare?- Pensavi al regno delle ombre, agli spiriti, a certi fenomeni medianici di cui eri protagonista o spettatrice. E al mistero che crea la vita e la distrugge. Non finivi di chiederti: Perché? Ma è mai possibile tutto questo?!
Mario dice che ti guardano. Ma chi ti guarda? Gli ho chiesto un giorno. -Gli oggetti, l’armadio, la tazza, la tovaglia ti guardano.- Lui dice così, ma mi sembra esagerato. Che ti parlino quello sì, se no perché grandi pittori li avrebbero riprodotti? Ceste, gerle, pesci e uccelli morti, noci, meloni, ciotole e compagnia bella. Ti parlano, quello sì, Mario li chiama gli oggetti sensibili e arriva al punto di dire che ti osservano, che hanno un’anima e puoi arrivare anche a interloquire con loro. Aldo dice che il ragazzo ha le traveggole. Mario dice che una volta è uscito di casa fissando un baule e poi, al suo ritorno il baule pareva fosse contento di rivederlo. Lo guardo incredula. -Ma te se mica tutto a posto!- Che attribuisca loro un eccesso della sua ipersensibilità?! Può darsi o magari sono stramberie adolescenziali. A me piace pensare che gli oggetti assorbano e riflettano la nostra sensibilità, il nostro modo di vederli, e li definirei piuttosto poesie, poesie tradotte in immagine tanto è il loro potere di suggestionarci, facendoci soffermare su una mela, un grappolo d’uva, una tovaglia o una bottiglia dal lungo collo.