A St Luke l’ammasso di cubi, cilindri, parallelepipedi, piramidi sghembe è avvilente, c’è anche il finto campanile che svetta a reggere una campana; il tutto ha la presunzione di ispirare al viandantenuova fede in Dio. Le costruzioni vorrebbero assomigliare a una chiesa. Puoi ingannarti, in effetti, perché quella è proprio una chiesa, non un fienile con annesso magazzino attrezzi. Dall’ammasso di mattoncini rossi non lanciano missili da un bel pezzo; la statua bronzea di un Cristo ben fatto, confinato sottouna tettoia, lo impedisce. Appeso alla croce per ipolsi e non per le mani, offre la sua silente desolazione come monito inascoltato. A Saint Luke cantano, suonano, dicono messa e mangiano torte al ribes. La lieta congrega si riunisce periodicamente e conta alcuni affezionati fedeli come Henrietta O’ Bimbo Harley Malone, con la gonna fiorata multicolore e sghemba, il cappellino anch’esso fiorato, come lei, e sghembo come lei. Henrietta va volentieri in chiesa a farsi benedire, a lodare Gesù e a sorbire tè e trangugiare fette di torta al mirtillo facendo poi la siesta per aiutare lo stomaco che borbotta e riflettere sulla Trinità.
Lorenzo Ferrara era solito vedere le comari intasare il cortiletto della chiesa alla domenica mattina. Alla domenica delle Palme ci stava il gigantesco pretonzolo della chiesa con la sottana fino ai piedi, rubizzo e volenteroso. Consegnava tre palme secche, dico tre, agli sparuti presenti che dovevano fare processione.
“Scrive Cassio Dione Cocceiano, Storia romana,62, 2: «Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Lechiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Indossava invariabilmente una collana d’oro euna tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da unospesso mantello fermato da una spilla. Mentreparlava, teneva stretta una lancia che contribuiva asuscitare terrore in chiunque la guardasse.»I Britanni non ci volevano a casa loro, occorredire come sono andate le cose, altrimenti non possiamo condannare nessuna invasione. Ma la protagonista della più sanguinosa rivolta contro gli invasori Romani pagò a caro prezzo le prime illusorievittorie. Gaio Svetonio Paolino nelle West Midland,sbaraglia infatti l’esausto esercito britannico, costretto a risalire un’altura per dare battaglia, convinto di poter sconfiggere le legioni romane e amen.I morti fra Romani e Iceni fecero rossa la terra dellaBritannia. Ai Brits non abbiamo lasciato come eredità“solo” l’onta della regina umiliata ma anche l’acquaputrida di Bath, con vasca e terme che la contengono, e anche il vallo di Adriano, argine contro i ringhiosi Scozzesi, oltre a mura ancora visibili e quelle smantellate qua e là, impiegate come materiali da costruzione, è successo anche a casa nostra, vano protestare.”
Ogni volta che i britannici trovano qualcosa nel sottosuolo, come monete, monili, esultano. Ma il loro è un atteggiamento ambivalente. Quasi come dicessero: “anche noi abbiamo il nostro passato”. Lascia stare che da noi si trovano staue di marmo e di bronzo intere mozzafiato e da loro “solo” monete, elmi e minutaglia archeologica. Ma è come se quei reperti non gli appartenessero, come se fossero di altri, che passavano da quelle parti. Difficile da spiegare, se non riandando alle loro vere radici che non sono romane ma celtiche; scrive nostra madama Wikipedia: “Le loro origini risalgono alla fusione di gruppi di popolazioni germaniche, migrate a partire dall’Alto Medioevo in Britannia: gli Anglosassoni (Angli, Juti e consistenti popolazioni di Sassoni) dalla Bassa Sassonia, dalla Frisia e dalla penisola jutlandica, e Norreni dalla Danimarca. Per finire l’argomento gli inglesi non vogliono sentirsi nemmeno un po’ romani, forse perché romanità fa rima con italianità? censurando ad esempio in toto la tradizione romana dei gladiatori al Colosseo, che hanno messo all’indice per troppa crudeltà, tutto qui.
Nel 1947 gli hanno meritatamente conferito, anche il premio Nobel per la Letteratura con questa motivazione: “for his comprehensive and artistically significant writings, in which human problems and conditions have been presented with a fearless love of truth and keen psychological insight“.
Ti ricordi dell’emozione che davano le sue pagine quando André Paul Guillaume Gide scriveva: Mucchi di grano, canterò le vostre lodi. Cereali; grano fulvo; ricchezza in attesa; inestimabile provvista. Si consumi pure il nostro pane! Granai, ho la vostra chiave. Mucchi di grano, voi pure siete là. Sarete tutti mangiati prima che la mia fame sia saziata?….chicchi di grano, conservo di voi una manciata, la semino nel mio fertile campo e poi, a proposito di latte e formaggio: ...Quiete; silenzio; sgocciolio senza fine dai graticci su cui si riducono i formaggi…l’odore del latte cagliato pareva più fresco e più scipito…di un’asprezza così discreta e slavata che non la si sentiva che in fondo alle narici e gia più gusto che profumo….La crema affiora lentamente; si gonfia e si increspa e il latticello se ne spoglia…
Non mi è mai piaciuto riportare gli scritti di altri autori, ma quanto srive Gide in Nutrimenti terrestri andrebbe detto e ripetuto e insegnato nelle scuole, adottando l’opera come testo obbligatorio, anche se i cattolici avrebbero da ridire. Le sue affermazioni su Dio fanno riflettere anche se non posseggono la virulenza iconoclasta di quelle di Nietzsche: –la-responsabilità dell’uomo aumenta col diminuire di quella di Dio…La crudeltà è il principale attributo di Dio….. Comandamenti di Dio, avete reso dolente la mia anima…Fino a che punto ridurrete i vostri confini? Insegnerete forse che sempre più numerose sono le cose proibite?…Comandamenti di Dio, avete reso la mia anima malata, Avete cinto di muri le sole acque per dissetarmi…
Gide è un autore che andrebbe riscoperto, non tanto perché abbia avuto il coraggio durante un viaggio in Tunisia, Algeria e Italia, di portare avanti la sua liberazione morale e sessuale (lo ha già osannato la critica) ma per la sua sincerità e il suo ascoltare l’ultima parte di mondo che parla ancora di semplicità, autenticità, di nutrimento rustico, di cibo intatto da millenni e di cui l’uomo di allora poteva ancora disporre, ma non quello di oggi. ...Ogni fecondazione s’accompagna a voluttà. Il frutto s’ammanta di sapore; e di piacere il perpetuarsi della vita. Polpa del frutto, prova sapida dell’amore…e, a proposito delle fonti: Vi sono fonti che zampillano dalle rocce; Ve ne sono che si vedono sgorgare di sotto ai ghiacciai; Ve ne sonono di così azzurre che paiono piu profonde. …Piccole fonti assai semplici, che languiscono fra i muschi e i giunchi…Vi sono straordinarie bellezze nelle sorgenti; …vi sono straordinarie delizie a berle: sono pallide come l’aria, incolori come se non fossero, e senza gusto….Le gioie più grandi dei miei sensi sono state seti appagate. Gide è uno dei miei autori preferiti, soprattutto in Nutrimenti terrestri, per vari motivi. Gide, senza comprenderlo, vede un mondo che ha i giorni contati, le sue illuminazioni, la comunione con paesaggi naturali genuini e incontaminati è commovente, corrispondono a liberazioni ma noi oggi possiamo solo verificare la perdita di quel mondo da lui percepito e goduto, di quelle fragranze che ormai ci paiono sepolte, distrutte, perdute. Il nostro nuovo mondo si è riempito di pattume sintetico, indistruttibile, mortifero per la stessa nostra vita. Oggi Gide non potrebbe più scrivere il suo capolavoro. Perché oggi Gide, tanto per dirne una, non potrebbe piu scrivere : Ho bevuto dell’acqua quasi disteso sulla sponda dei ruscelli in cui avrei voluto tuffarmi, Acque che mai non han visto la luce; Acque straordinariamnete trasparenti, e che avrei voluto azzurre, meglio verdi…O campi bagnati d’azzurro! O campi imbevuti di miele! Prova a pensarci, dove sono oggi quelle acque e la loro purezza? Dove quei sapori antichi, intatti da secoli?
Quello che Gide non conoscerà mai, è la turpe. sistematica devastazione del nostro suolo, delle fonti, della ancora intatta natura di cui lui può disporre e godere a sazietà. La rivoluzione industriale con le sue scorie e detriti bussa freneticamente alle porte e il suo pattume non cessa nemmeno oggi di essere prodotto e diffuso, tutt’altro, esso sta crescendo a livello esponenziale. Ora, non dico che non ci siano più oasi sulla faccia della terra, zone franche o desertiche, campi incolti perché inservibili o abbandonati, o aree montagnose non calcate dall’uomo, ma certo non più incontaminate, quello che vedrà e sublimeà a Gide nessun uomo dopo di lui potrà farlo, così naturalmente, semplicemente. Oggi gli sarebbe impossibile scrivere: Scorta inesauribile! Zampillare d’acque. Abbondanza d’acqua nel profondo delle sorgenti…i paesi aridi si faranno ameni e tutta l’amarezza del deserto fiorirà. Scaturiscono più sorgenti dalla terra di quanta sete abbiamo per berle...Quanto si sbagliava Gide! E a te bastano questi dati? Sono del 22 marzo 2016 (non ho motivo di credere che il rapporto dopo 8 anni sia meno desolante, anche se posso ovviamente sbagliarmi)- Dati più che allarmanti direttamente dal Ministero della Salute: in Italia esistono ben 44 aree inquinate oltre ogni limite di legge, in cui l’incidenza di tumori sta aumentando statisticamente a dismisura. Nelle zone maggiormente contaminate, le malattie tumorali sono aumentate anche del 90% in soli 10 anni. Amen.
Gli appassionati di Fantascienza già lo conoscono, Max Gobbonon ha bisogno di molte presentazioni, essendo da anni uno dei protagonisti del Fantastico italiano e autore di opere pubblicate da prestigiosi editori. Qualche dettaglio sulla sua attività comunque non guasta: tra i suoi interessi principali: la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema. È autore di diversi romanzi e di racconti fantastici come Garibaldi e i mostri meccanici e la Maschera nera, che rileggono in chiave “retrofuturista” la storia d’Italia. Nel 2010 esordisce con Protocollo Genesi edito da Aracne editrice presentato al XXIII Salone internazionale del libro di Torino. Nel 2012 è finalista a Giallolatino col suo racconto La palude dei caimani. Nel 2013 ha presentato al festival internazionale di fantascienza, Sticcon di Bellaria il suo Capitan Acciaio supereroe d’Italia edito da Psiche e Aurora editore, con prefazione di Gianfranco de Turris. Maggio 2014, sulla prestigiosa rivista “Robot” (Delos Books) appare il suo racconto a tema steampunk, L’incontro di Teano. Luglio 2014, sulle pagine di “IF – Insolito e Fantastico” rivista edita da Solfanelli compare il suo Aeronavi Italiche. Nel 2015 un suo romanzo L’Occhio di Krishna, Bietti Editore. Collabora con diverse riviste: “Skan Amazing Magazine”, “Politicamente.net”, “Letteratura Horror”, e col quotidiano on line “Barbadillo”. È curatore della sezione narrativa per la rivista “Antarès”.
DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. ospita un suo racconto. Nell’edizione primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, cattura l’attenzione. Tema principale dell’edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna esaustiva di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo,Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.
Il deserto si dispiegava all’infinito come una coltre d’oro sotto il sole cocente. L’auto impolverata si fermò con un sussulto accanto alla locanda calcinata dai dardi di luce. Padre e figlio scesero impolverati pure loro, il padre tossì. Tutti e due si sedettero a un tavolo sgangherato senza dire una parola. Faceva molto caldo e l’aria riarsa seccava la gola e impastava la bocca di sabbia.
Un cameriere con un grembiule sudicio e l’aria d’un gatto sornione si avvicinò e domandò:«Cerveza?» Il padre sorrise e fece cenno di sì con la testa riccioluta dai riflessi di cenere: «Dos Cervezas.» Il cameriere dall’aria sorniona sparì dietro una vecchia tenda di perline di legno ingiallite dal sole. Il figlio, poco più d’un ragazzo, si mise a fissare le montagne che davano a Ovest. «Quella è la Sierra Madre occidentale,» disse il padre indicando con un dito le cime bianche che riflettevano i raggi solari come piramidi di ghiaccio.
«Perché siamo venuti in questo deserto?» domandò il figlio senza staccare lo sguardo dai monti. «Bisogna attraversarlo se vogliamo arrivare a Veracruz prima di notte.» Il cameriere ricomparve con un vassoio di latta con sopra un paio di boccali di birra con due dita di schiuma. Mise sul tavolo i sottobicchieri di cartone e vi posò i bicchieri con la birra. La schiuma colò dalla cima dei bicchieri e bagnò i sottobicchieri. «Ah, ci voleva proprio!» esclamò sorbendo la birra il padre mentre il cameriere tornava nella locanda di mattoni giallastri e scrostati. «E’ buona,» osservò il ragazzo con la bocca sporca di schiuma. Se la ripulì con la manica della camicia con un gesto goffo. «Sì, è fredda al punto giusto, la birra deve esserlo, soprattutto nel deserto.» «E’ la prima volta che bevo birra,» disse il figlio guardando la schiuma densa e bianca come neve che ondeggiava. «Non me lo hai mai permesso.» «Be’, che vuoi è roba da uomini.» «Allora sono un uomo?» «Lo sei, quasi.» «Perché bevo birra?» «Perché ora lo puoi fare.» Il ragazzo meditò su quelle parole, si sentiva confuso. Tutto di quel lungo viaggio lo aveva frastornato. «Pa’, non sembra anche a te che abbia la forma d’un coniglio?» «Che cosa?» «Quella grossa nuvola laggiù,» e indicò un fronte nuvoloso che s’arrampicava sulle vette montuose.
Era una nube imponente arrossata come la fucina d’un fabbro dalla luce del tardo pomeriggio. Aveva proprio la forma d’un coniglio, o almeno così pareva. Il padre sogguardò distrattamente la nuvola, si grattò la barba di due giorni e sogghignò: «Mah, non saprei, a me sembra più un cane, però è la tua nuvola e se ci vedi un coniglio, allora è un coniglio.» «E’ la mia nuvola?» «Certo che lo è, se guardi bene ci vedrai scritto sopra il tuo nome.» Il ragazzo sorrise; ma poi tornò serio. Stava per aggiungere altro quando un rombo di tuono lo fece trasalire. Improvvisamente, proprio tra le orecchie del coniglio di vapore, saettò una scia di fuoco. «Che cos’è?» fece spalancando gli occhi. «Un razzo, direi,» rispose il padre aggrottando la fronte. «E’ il cargo del pomeriggio,» gracchiò con la sua voce nasale il cameriere ricomparendo da dietro la tenda. «Qui ne passano in continuazione. Oltre la Mesa, in direzione di Veracruz ci sono le piattaforme di lancio.» «Ne decollano molti?» domandò il figlio rimirando il cargo che scintillava ai raggi del sole come una punta di diamante che tagliava il cielo. «Ve l’ho detto señor, quei bolidi non la finiscono mai di decollare. Oggigiorno sembra che tutti muoiano dalla voglia d’andarsene sulla Luna,» rispose il cameriere e si ritirò nella locanda come una lumaca nel suo guscio. Il figlio fissò ancora per un poco il razzo finché questo divenne un punto indistinto nell’azzurro del cielo. Rimase solo una lunga scia biancastra a testimoniare il suo passaggio.
« Pa’,» chiese mandando giù un altro sorso di birra, «farà male?» Il padre fissò il tavolo e con una mano rigirò il suo bicchiere, disse: «Ma no, è una cosa da nulla, vedrai.» «Sì, ma che mi faranno?» «Non vuoi aiutare la tua famiglia?» grugnì l’uomo sollevando lo sguardo severo, «non ti piacerebbe far star bene i tuoi fratelli e le tue sorelline più piccole?» «Sì, certo…» balbettò il ragazzo. «Senti un po’ figliolo,» disse il genitore rabbonendosi. «Se fossi più giovane l’avrei fatta io questa cosa, ma lo sai, quelli della mia età non li vogliono. Sono troppo vecchio per certe faccende.» «Dici che dopo posso compramela una macchina?» domandò il ragazzo tornando improvvisamente allegro. «Sicuro, potrai comprati un sacco di cose.» «E i miei fratelli avranno abiti nuovi?» «Ci puoi scommettere.» «E andranno a scuola?» «Sì, se lo vorranno.» «E mangeremo tutti quegli hamburger con le cipolle, la salsa agrodolce, e poi anche il gelato alla fragola?» «Certamente e ci potrai mettere su in cima una montagna di panna fresca.» Il figlio non disse più niente, stava immaginandosi tutto quel gelato con la panna e via dicendo. Entrambi non parlarono per un bel po’. Un altro razzo prese il volo sfrecciando come un gigantesco fuoco d’artificio tra le nuvole.
Il coniglio s’era ormai dissolto assumendo contorni vaghi e indistinti. Pareva un’immensa massa di cotone sparsa sulle cime delle montagne. Il ragazzo si riparò gli occhi con il palmo d’una mano per vedere il razzo che s’innalzava fiero verso le stelle. «Dove sarà diretto?» chiese infine riabbassando lo sguardo. Il padre piegò le labbra con fare incerto. «Hai sentito anche tu quello che ha detto il cameriere: probabilmente andrà sulla Luna o su una sua stazione orbitale. Chi può dirlo?» «Forse non lo sa nessuno,» disse il figlio. «Sì, che lo sanno,» rispose il padre. «No, che non lo sanno, nessuno lo sa mai.» «Che vuoi dire?» «Io non so dove sto andando.» «A Veracruz, te l’ho detto, no?» «Non so dove sia.» «Presto lo scoprirai. E’ un gran bel posto, non sei curioso?» «Non sono sicuro di volerlo sapere.» Il padre annuì con la testa, aveva capito che era inutile insistere. «Riguardo quella faccenda,» disse poggiando le mani grosse e nodose sul tavolo, «se non vuoi, non è che devi farlo per forza.» «Sentirò male?» «No, te l’ho già detto, non ti farà male. Quando dormi non senti niente.» «Come fai a saperlo?» «Lo so e basta.»
Il figlio bevve un altro sorso di birra, quel sapore amarognolo non gli piaceva troppo, però era sempre una novità. Guardò la strada che s’allungava come un lungo serpente nel deserto messicano. A un certo punto, gli parve, che piegasse verso una collinetta riarsa. Pensò che forse il coniglio di prima ci si era nascosto dietro. I conigli alle volte lo fanno, si disse. «Credi che mi permetteranno di andare a caccia di conigli?» «Là non ci sono conigli,» rispose il padre un po’ seccato. «Metti che uno ce li porti?» «Allora, ma è solo un’ipotesi, li si potrebbe cacciare.» «Ne ero sicuro,» concluse il ragazzo tutto soddisfatto. «Allora si va?» Il padre sembrò non ascoltarlo. Per la prima volta da quando si erano fermati pareva dubbioso, esitante. Nella sua mente, forse, si agitavano strani pensieri. Improvvisamente aveva l’aria triste. Sollevò il mento ponendosi le mani sullo stomaco prominente. Con lo sguardo vagò su per le montagne che davano verso Veracruz, vaghi, indifferenti giganti di pietra, e sospirò. Il figlio si alzò dal tavolo, aveva finito la sua birra e adesso era ansioso di ripartire. «Pa’, che facciamo, andiamo?» «Ah sì, certo,» mormorò l’uomo riemergendo dai suoi pensieri con una strana luce negli occhi. «Però prima di rimetterci in viaggio dobbiamo assolutamente fare una cosa.» «Cosa, Pa’ ?» «Farci portare altre due birre gelate.»
Poco dopo, quando la macchina s’era già allontanata tra le sabbie roventi lasciandosi una densa cortina di polvere alle spalle, il cameriere sbucò fuori dalla locanda per recuperare i bicchieri. Sul tavolo notò un volantino pubblicitario lasciato dai due clienti. Lo prese in mano e vi lesse: La compagnia estrattiva lunare cerca nuovi minatori. Requisito di base: essersi sottoposti alla procedura chirurgica di riadattamento organico alle condizioni ambientali del satellite.
Vita sventurata quella di Poe, se si pensa che, a ventisette anni sposa la cugina tredicenne che muore a 25 anni. La morte della moglie Virginia Eliza Clemm lo angoscia mortalmente: “Ogni volta subii tutti gli strazi della sua morte e a ogni ritorno del male l’amavo sempre di più e mi afferravo alla sua vita con ostinazione sempre più disperata. Diventai pazzo con lunghi intervalli di orribile lucidità.” Così scrive da New York il 4 gennaio 1848 a George Eveleth chiedendo nelle tre righe finali della stessa lettera aiuto economico. Questo figlio della notte amava disperatamente la vita e fra le eccellenti manifestazioni della vita amava al sommo la creatura femminile e la sua Bellezza.
“Fra tutti gli argomenti melanconici, qual è, secondo il concetto universale dell’umanità, il più melanconico? -La Morte- fu l’ovvia risposta. E quando è più poetico questo argomento, fra tutti il più melanconico? Dopo quanto ho già abbondantemente spiegato, la risposta fu ovvia: Quando è più strettamente congiunto alla Bellezza, dunque la morte d’una bella donna è il tema più poetico del mondo e le labbra più adatte a tale argomento sono quelle di un amante orbato dell’amata”. Dalla FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE di E. A. Poe.
Scrivendo a H. D. Chapin – Fordham, 17 gennaio 1848: “Mio caro signore, qualche tempo fa la signora Shew mi fece capire che forse voi mi avreste aiutato nel tentativo di riprendere il mio posto nel mondo letterario; e ora questo aiuto mi arrischio a chiedervelo…La difficoltà per me sta nel pagamento anticipato della sala e io non ho denaro. Credo che il prezzo sia quindici dollari. Penso, senza essere troppo ottimisti, di poter contare su un pubblico di tre o quattrocento persone…Se avrete la gentilezza di concedermi l’aiuto che chiedo, vorrei prendere in affitto la sala … Ringraziandovi, credetemi il vostro Edgar A. Poe” La conferenza di Poe si tenne davanti a un pubblico esiguo, riunito nella biblioteca della Società Storica di Nuova York, giovedì 3 febbraio 1848 Scrivendo a Charles Astor Bristed chiede amicizia e ancora…danaro: – Fordham, 7 giugno 1848: “…La mia unica scusa è questa, che mi trovo condizioni disperate, in amarissima angoscia di mente e di corpo, e che mi sono guardato attorno invano, in cerca di un amico che possa e voglia soccorrermi…con pochissimo aiuto tutto andrebbe bene per me, ma non posso procurarmi nemmeno quel poco; lo sforzo per superare una difficoltà serve solo a sprofondarmi in un’altra. Mi perdonerete, dunque, se vi chiedo di prestarmi il denaro per andare a Richmond?…mia suocera vi spiegherà in quale condizione mi trovo.
Sinceramente vostro Edgar A.Poe”
Un mendicante patetico, ubriacone, spesso bugiardo, proprio lui, il grandissimo poeta visionario, invocato da Baudelaire, il finissimo psicologo, l’investigatore degli abissi dell’anima, per tutta la sua vita vide qualcun altro, assai inferiore al suo genio, arrivare prima di lui per rubargli l’ammirazione della folla e la riuscita nella vita. Dalla prefazione di Henry Furst dell’EPISTOLARIO: “…le brame appassionate della sua anima verso il bello e il vero lo resero assolutamente inadatto ai rozzi urti e alla feroce concorrenza del mercato letterario…le caverne dell’oceano, il disfacimento e il mistero che abitavano gli antichi castelli, il tuono del vento attraverso le navate della foresta, gli spiriti che cavalcavano l’uragano non visti da nessuno se non da lui e le profonde creazioni metafisiche che si libravano attraverso le camerate della sua anima, erano la sua unica ricchezza…nato sotto una cattiva stella, la sfortuna lo perseguitava anche morto. Ma la sua opera resisterà nei secoli finché durerà la civiltà nata dalla gloria che fu Grecia e la grandezza che fu Roma.
Vi dico quello che ho in parte appreso dai media occidentali e cinesi, quindi di pubblico dominio, in parte da alcune testimonianze raccolte in loco. Ma soprattutto in base a una vicenda che mi ha coinvolto e sulla quale posso solo avanzare ipotesi pur essendo stato il suo attore principale. Non mi riferisco a qualche “incidente” simile a quanto rivelato da Le Monde e dalla trasmissione Quotidien, ovvero che due miei ex colleghi e la moglie di uno di essi sono stati sospettati di alto tradimento, avendo trasmesso informazioni secretate a una potenza straniera. Una fonte giudiziaria vicina all’inchiesta avanza più di una ipotesi: la potenza straniera sarebbe la Cina. Un precedente che si è forse ripetuto anche se in circostanze e modalità diverse riguardandomi da vicino?
Mi chiamo Blaise Lagarde. Sono stato un agente speciale del DGSE, la Direction générale de la sécurité extérieure, servizio informazioni all’estero, dipendente dal Ministero della Difesa francese; ho avuto il compito di “documentare” quello che stava accadendo nel laboratorio di Wuhan e che mezzo mondo sospettava. L’ho fatto e con successo, ma le mie riprese fotografiche, che dovevano rimanere top secret, inspiegabilmente sono apparse su Twitter e con mio sommo stupore, su China Daily, riprese com’è ovvio, subito dai media occidentali. Anche se è trascorso molto tempo la mia posizione mi vieta di rivelare particolari; si correrebbe infatti il rischio di compromettere del tutto i rapporti diplomatici tra Francia e Cina, rimasti precari da allora. Su altri fatti che mi hanno successivamente coinvolto e che potrebbero contenere la risposta a tanti perché devo comunque osservare il massimo riserbo.
IL RACCONTO
I laboratori cinesi di Wuhan sono stati il frutto di una travagliata collaborazione franco-cinese nata dall’intesa del 2004 tra Chirac e Hu Jintao. Non è una novità. Ma una volta terminati i lavori, noi francesi siamo stati estromessi dall’attività e da qualsiasi controllo del laboratorio. Diversi in patria l’avevano predetto. Infatti le decine di ricercatori del mio Paese, previsti dall’accordo, non sono nemmeno mai partiti per la Cina e il laboratorio P4 di Wuhan ha iniziato a operare a sua discrezione e in totale autonomia, al di fuori di ogni controllo francese, capitolo previsto inizialmente dall’intesa, e, forse, senza rispettare le scrupolose norme del protocollo per la manipolazione di sostanze estremamente pericolose… “Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica”, ha riportato Le Figaro secondo fonti attendibili. “Le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure analoghe a quelle adottate nei sommergibili nucleari.” Il timore che il laboratorio di Wuhan potesse funzionare al di là di qualsiasi verifica o tutela del mio Paese c’era e così è stato.
“Il coronavirus è un virus manipolato sfuggito accidentalmente ai controlli da un laboratorio cinese di Wuhan, mentre era allo studio un vaccino per l’Aids. La fuga può essere avvenuta negli ultimi tre mesi del 2019.” Lo sosteneva un illustre scienziato, connazionale, Premio Nobel per la medicina. Secondo lo studioso, l’origine dell’epidemia è acclarata e non necessita di ulteriori indagini. In base alla sua opinione non si tratta di dolo, ma di negligenza. Qualcun altro, sull’opposto versante, sostiene tesi diametralmente opposte: “Covid-19 non è nato in Cina”. A dirlo è la direttrice del laboratorio stesso di Wuhan, Wang Yanyi, che respinge categoricamente ogni addebito negando che la struttura di ricerca abbia avuto una qualsiasi responsabilità nella diffusione dell’epidemia. Il China Daily, con mia enorme sorpresa, aveva pubblicato i miei scatti “rubati” dell’interno dell’Institute of Virology di Wuhan, scatenando una polemica colossale, offrendo il fianco a bordate di interrogativi. Nello specifico: immagini di una delle celle frigorifere aperte, contenenti 1500 ceppi di virus diversi, incluso il coronavirus. Che talpe francesi operassero nella redazione del China Daily lo suppongo soltanto. Paradossale che qualcosa di quel genere potesse accadere considerata la posta in gioco. Tuttavia potrebbe trattarsi di una “vendetta” postuma. Ma di chi? Dopo aver documentato ciò che avveniva nel laboratorio di Wuhan sono stato subito arrestato, anche questo è strano. Avevo ritratto la presunta “pistola fumante” ovvero: la porta aperta di una cella frigorifera coi suoi sigilli in evidenza, e poi un’operatrice che regge una serie di fialette contenenti agenti patogeni. Quello che segue è la cronaca fedele di ciò che ho vissuto allora, dopo l’arresto:
(AUSTRALIA OUT) Virologist, Associate Professor Stuart Turville, analyses the COVID-19 Omicron variant, at St Vincent’s Hospital’s Centre
More, ancora more! depositate in una scodella di latta e, nella seconda ciotola, dell’acqua. Era tutto ciò che giaceva sul pavimento della cella oltre a me, s’intende. Cibo bizzarro accompagnato da un po’ d’acqua. More! Da quanto tempo ero steso a terra in quello stato?! Mi pareva che fossero trascorsi anni. Come potevo saperlo?! No! mi dicevo, non devo commiserarmi, ma resistere! Dovevano avermi somministrato qualche sostanza stupefacente, avevo perso i sensi subito dopo l’arresto. Ero ancora assai confuso. Mentre l’allucinazione riemergente, impediva ogni ricognizione dell’ambiente e delle circostanze che mi avevano condotto lì, tuttavia, come un cane in procinto di annegare, annaspavo cercando di addentare qualcosa di solido, di aggrapparmi a brandelli di una realtà frantumata e incongrua, da cui fuggivo subito dopo per averne percepito l’insidia. Sperare significava affrettarmi in direzione della fine. Dovevo rinnegare la guerra di parole che agitava la mia mente, resistere alle allucinazioni come quella di avere braccia lunghe come funi. Non osservare, non credere…a nulla! Dormire di un sonno ristoratore! Da tre giorni era quello il desiderio insoddisfatto. Nient’altro nella stanza illuminata giorno e notte dai neon se non le due ciotole e una seggiola che la mia alterazione suggeriva essere d’ausilio per le sedute di tortura condotte dai musi gialli. Da tre giorni il silenzio, l’assenza di ogni manifestazione di vita, c’erano solo le more. Minacciose che mi lasciavano immaginare la mia morte, probabilmente per inedia; avendo smesso di indagare quella stanza che dipingevo ancora più atroce di quello che le letture giovanili di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft suggerivano, non potevo che attendere. Ero assalito, non da orde di topi famelici, né da cadaveri che mi trattenevano per la caviglia, appena fuoriusciti dalla loro tomba, no, niente di tutto questo. La mia era una tortura luminosa, se così posso dire, con amara allusione ai neon sovrastanti, un tormento per ora solo psicologico. Pensavo a certe terrificanti torture cinesi, come quella della goccia che cade sul cranio, sino a perforarlo, anche se io non ero bloccato e non v’era alcun aggeggio sospeso a suggerire l’eventualità. Minacciato da quel “cibo” bizzarro e invitante la cui apparenza innocente ora mi terrorizzava! e che sicuramente i Cinesi avevano provveduto ad avvelenare. Resistere! Alle more appena colte, resistere a una ghiottoneria per molti. Infine resistere a me stesso! E poi, come ho detto, c’era quella luce potente sempre accesa che mi frugava. Quanto tempo ci voleva prima d’impazzire? Le more potevo evitarle, la luce no.
Persi conoscenza. Erano quelli i momenti che i miei carcerieri attendevano per portare nuove more e acqua in cella. Da qualche parte dovevano esserci uno spioncino e un’apertura! ma dove? La mia missione equivaleva a una esercitazione nella mia carriera di agente speciale, troppo facile era stato! Dovevo cercare una prova e l’avevo trovata ma la sensazione di essere stato facilitato proprio dai cinesi ce l’avevo. Perché? Le immagini che avevo catturato prima di sparire dalla rete il giorno dopo, seppi che avevano fatto il giro del mondo. Esse illustravano chiaramente una deficienza nella procedura di manipolazione delle fiale contenenti patogeni, sollevando dubbi sul grado d’isolamento della cella frigorifera stessa. Chi aveva trafugato le mie foto? Io avevo lavorato secondo un piano prestabilito nei dettagli che prevedeva in anticipo la loro pubblicazione a mia insaputa? O che altro? E la talpa cinese a cui dovevo dire grazie che faccia aveva? Per scattare quelle foto c’era bisogno della loro collaborazione, o meglio “disattenzione”. Fai presto, faccio finta di non vederti! Su, spicciati! Svelto! anche se conoscevo a memoria la topografia dei laboratori e l’ubicazione delle celle frigo, contenenti le fiale. Un rovello inestricabile contro cui nulla poteva la mia ragione. Ero io a tremare in tutto il corpo o fosse invece la scodella dell’acqua che le mie labbra tentavano di avvicinare. La scodella tremava. Mentre avvertivo un formicolio al cuoio capelluto e alle caviglie. La porta! Dov’era finita la porta d’ingresso alla cella? O non c’era mai stata!? L’LSD, fa questi “scherzi”. Da dove entravano allora? nemmeno l’ombra di una fessura. Una camera isolata, probabilmente sotterranea, adibita a prigione, in barba al protocollo internazionale sul trattamento dei prigionieri. Mi trovavo in un recesso sotterraneo sigillato dal mistero e dal silenzio da cui non sarei potuto più uscire, uno spazio ellittico dentro cui anche un animo più saldo del mio avrebbe capitolato. Il silenzio sarebbe stato il compagno della mia pazzia. Per quelle maledette foto che avrebbero dovuto servire “solo” come arma di ricatto o di rivalsa, o per rinfocolare dubbi, accuse per la collaborazione franco-cinese andata in malora.
Nel mio corpo febbre e incubo facevano strazio, forse ero stato venduto, o tradito, A ondate i dubbi mi tormentavano, la mia missione aveva uno scopo a me sconosciuto, oppure che altro? Catturato dai cinesi che sapevano in anticipo delle foto? A chi giovava la loro pubblicazione? Era forse una vendetta degli stessi cinesi, e se sì, perché? Stavano complottando per mostrare al mondo le deficienze del laboratorio di Wuhan! Ipotesi che rimava con la follia. Voci…no, mi sbagliavo. Solo rumori prodotti dal silenzio. Così sarei impazzito! A quella galera sotterranea illuminata a giorno ero stato condotto in stato di incoscienza. Assopito, riaprivo gli occhi senza tuttavia riconoscere la veglia dal sogno. Eppure… AncoraRumori! Fatti da chi sta armeggiando sul mio capo con utensili da scasso. L’inedia cominciava a farmi perdere il senno. Eppure nell’angolo più lontano da me i rumori ora si ripetono, distinti. Un intero pannello della soffittatura il cui perimetro corrisponde a quello della grata di protezione dei neon ora si sta muovendo. La luce ne impediva la vista. Per questo non l’avevo scorto, celato dal controluce. Qualcuno cerca di entrare da lì, ma non ci giurerei. Solo quando scorgo due figure in tuta scendere la scala retrattile che avevano calato sobbalzo, senza riuscire ad alzarmi tanta era la mia debolezza. Mi portano via! Mi uccidono! è finita! rumino. Ebbi la sensazione che la scena avvenisse dentro di me, tra retina e cornea. Sagome oscure che risaltano contro un sipario appena sfiorato da luminescenza. Come chi di colpo passi dal sole all’oscurità trattenendo l’impressione della luce negli occhi. Son dentro di me son bvenuti a uccidermi. Mi sollevano di peso facendomi cenno di tacere. Francesi! Sono salvo.
Se avete letto sin qui avrete notato che la mia storia contiene certe stranezze. La mia camera è la numero 23, numero dispari che non mi piace, sono ricoverato all’ospedale “La Timone” di Marsiglia al reparto psichiatria. Ogni tanto vengono degli uomini, uno di loro è in divisa, mi guardano, senza parlare con me, solo coi dottori. Non riesco a capire dov’è la porta della camera per cui mi dispero non sapendo come uscire di qui. Il mio dottore dice che però sto migliorando e anche che ho una prodigiosa fantasia. Così ha detto: prodigiosa! Volevo dirgli che a me le more mi fanno venire la nausea. Ma non trovo mai l’occasione.
Può una storia apocrifa come quella che sto per raccontarvi essere considerata inverosimile e poi possibile? Temo di sì. Quanti simboli e riferimenti essa riesuma e promuove per indurvi a considerarla autentica! La mia narrazione parla di un orrore antico che erompe in luoghi disparati, a distanza di anni, incarnato in una figura attraente e malvagia. Eventi tenuti a bada dalla memoria, che vorrebbe, invano, sbiadirli, condensati in vicende raccapriccianti, Il cui riscontro si conferma ma confuso e incerto. Così accade che disperazione e disfatta ribadiscano il passato, preconizzino il futuro, additando debolezze e miti infranti, lasciando libero campo alla pena. Questa, fra tante, è la storia di un incubo. Non sono del resto gli incubi, detentori di primordiali saggezze più reali del vero? Non è forse nel cuore del buio che ci destiamo di soprassalto, angosciati, stretti alla gola da una mano malefica? è solo un sogno, è solo un sogno, ci affrettiamo a voler credere, stropicciando il cuscino. La mia storia è come uno di quei sogni, in cui i simboli appaiono, svaniscono come ombre cinesi. Una vita parallela, che ospita brani di noi, sedimentati come ciottoli di fiume, in cui dovremmo cercare oltre le apparenze. Invano. Perché proprio qui, passato, presente e futuro, spogliandosi di senso, diventano un tempo ellittico, inquinato dalla fantasia, come recita appunto la mia storia. Tra Monferrato, Londra, Kaffa sul Mar Nero, teatri di sconcertanti profezie, l’eco del crollo dell’Occidente, consecutivo a sovvertimenti inimmaginabili. La “collusione” delle mie visioni col nostro presente smarrisce. Il primo virus, infatti, non fu che un incidente, elaborato in laboratorio o meno non si sa, un fiammifero gettato nella polveriera del pianeta, già pronta al collasso per altri motivi. L’inizio della fine, incapaci di difesa contro la marea montante del “pericolo giallo”.
LA MORTE DAL CIELO
La Cina dopo aver fiaccato e poi smembrato intere economie “amministrava”, se così posso dire, i Paesi del sud Europa e gli Stati Uniti con pugno fermo, il suo controllo, dopo aver ridotto a “province” dell’impero Stati sovrani e imparato a “usare” il virus Covid 19 come arma, era incontrastabile. Numerosi i campi di rieducazione chiamati dai cinesi “centri di formazione professionale volontaria” che nel passato avevano “ospitato” nello Xinjiang centinaia di migliaia di Uiguri. In Italia i centri erano insediati a Mori, in Trentino. Nella Penisola i cinesi si erano attestati, senza quasi colpo ferire, lungo la costa tirrenica, “punendo” immediatamente ogni presunta velleità di ribellione, rara peraltro. Incuriositi da quel secondo leader bianco vestito, seduto su un gran trono come il loro ultimo imperatore, fra croci e incensi biascicando l’incomprensibile, gli concessero la libertà di languire in un convento-carcere. L’eredità di Pietro cessava con lui.
La più potente portaerei al mondo, la Shandong, fiore all’occhiello della Marina delle Forze Armate Popolari di Liberazione, con quasi duemila uomini, attraversato lo stretto di Gibilterra e messasi alla fonda al porto di La Spezia, era venuta a riscuotere i crediti della politica di egemonia cinese nel Mediterraneo. A contrastarla, ma solo simbolicamente, si erano levati in volo, senza precise indicazioni, due aerei da combattimento Rafale d’Assault dalla base aerea 701 di Salon-de-Provence. Teatrale avvertimento di un fittizio asse franco-tedesco prossimo a dissolversi. Poi presero a giungere notizie frammentarie su orrori di armi immonde usate dai “gialli” per tenere a bada i territori soggiogati. Cosa c’era di vero?
Ottiglio Monferrato, 6 maggio 20…, giorno che mai dimenticherò. Tutto il pomeriggio ero rimasto a bearmi davanti a un anfiteatro di verde di rara suggestione. Obelischi di campanili, anfratti impenetrabili, ombre di chiese, cascine sparse su fazzoletti di verde, ocra, viola e giallo. Il bel suol d’Aleramo, cantato da Rambaldo di Vaqueiras mostrava un arazzo mosso dai tenui vapori della foschia serotina. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, teatro di fantastiche letture, a due passi da lì infatti si aprivano le grotte dei Saraceni con le loro turbinose leggende. Oltre il dosso le rovine di una casa di tufo, tra le cui mura, adolescente, ero stato a lungo ospite felice. Quanti anni erano trascorsi da allora! Le prime ombre già abbrunavano alcuni sentieri e lo sterrato, passando davanti alla cava di tufo. Complice di grati ricordi la profondità dell’azzurro sbiadente. Alle mie spalle la deliziosa chiesetta romanica di Moleto. Infine il piazzale davanti al bar all’aperto posto su un pendio. Stavo per abbandonare quell’incanto quando un fatto singolare, che riconobbi decenni appresso profetico, catturò la mia attenzione. Un rumore dalle parti della cava, poi un clamore crescente, forse lo sferragliare di ruote sullo sterrato, irraggiungibile con lo sguardo, come di chi, si stesse avvicinando in tutta fretta.
Oh! Mah! Sulla stradina un tiro a quattro apparve! Trascinava a folle velocità una carrozza. Quattro cavalli lucidi e neri scalpitano e l’esperta mano del cocchiere li blocca appena in tempo prima di piombare nel dirupo. Sbalordito, fissavo la scena. L’attesa durò lunghi minuti durante i quali fui tentato di avvicinarmi alla carrozza, quando la portiera venne aperta dal cocchiere e una figura nascosta da un mantello con cappuccio, a nascondere i connotati, scese lentamente. S’incamminò senz’altro verso il parapetto prospiciente il belvedere, seguita dal cocchiere che già aveva tranquillizzato i quattro animali. Il suo braccio coperto fino alle dita dal mantello fece un gesto indicando una zona, mentre il cocchiere assentiva. Il mio stupore non mi impedì di rilevare dettagli, ma l’animo distillava angoscia. I cavalli impennacchiati di nero se ne stavano immobili come pietra, in attesa. Mi sforzavo invano di scoprire le fattezze della figura intabarrata. Poi sembrò che la sagoma volesse passarmi accanto di proposito, e a due metri ne adocchiai finalmente il volto. Il sangue raggelò all’istante.
Felice allora se, prima di quella vista, fossi stato accecato da spiedi roventi. Non so se femmina o maschio o quant’altro di diverso dai due generi, una bellezza sovrumana si celava sotto il mantello. Ma gli occhi! Oh gli occhi! Malvagi e perversi, gli occhi, infernali, crudeli e beffardi, maligni e atroci, suggerivano abominio e scelleratezza oltre l’immaginazione, essi mi colpirono come lame in pieno petto. Caddi all’indietro felice di morire all’istante per aver constatato che nature simili esistevano. Precipitai nel baratro che si apriva oltre il belvedere del bar. Non potrei giurarlo ma nel cadere mi parve di udire le note ossessive di una chitarra e una risata, sicuramente frutto del mio intendere sconvolto. Mi spiacque destarmi all’improvviso perché la visione di quel volto infernale rimase nella veglia a tormentarmi, mentre, agitato, sapevo che mi avrebbe accompagnato per la vita.
Londra, luglio 20… Stanco di aspettare invano postino e moglie col carrello della spesa uscii verso Sheperd Bush. Dai rari amici italiani nessuna notizia. Mi azzardai a salire sulla Circle line, poca gente con mascherine, visiere e tubi di disinfettante ai tornelli. La calca di un tempo un ricordo. Il periodico riapparire del morbo dopo anni dalla sua prima comparsa aveva stremato l’ottimismo dei metropolitani scompaginando economia e politica. La Gran Bretagna non apparteneva più agli Inglesi: un padrone poco visibile giunto da lontano reggeva la sua sorte. Il morbo dipingeva la città coi toni lividi dello scoramento. Dopo lunghe tregue che facevano ben sperare il male tornava a colpire, improvviso, come una maledizione biblica. A Ruislip in un ex parcheggio avevano appena “inaugurato” un cimitero per 1600 salme. Obitori e ospedali temporanei a forma di igloo, ovunque. Era la nuova Londra.
The famous London Underground logo advertises the Moorgate subway station. England.
Scesi a Moorgate come un tempo, per ammirare i fastosi edifici della City, caratteristici di un passato dissolto. Quel giorno una sorprendente novità: doppie transenne proprio all’inizio di Roman Wall verso le rovine di pietra del monastero-ricovero St Alphage. E a ogni dieci metri un agente armato. Davanti al vecchio pub Globe, sei blindati della polizia, due ambulanze e un camion tir candido senza insegne. Qualcosa di clamoroso doveva essere appena successo. Non un passante! Nell’aria una indistinta minaccia. Girai l’angolo verso i bastioni del Barbican, alle spalle l’incisione murale a rammentare lo scoppio della prima bomba tedesca nel 1940. Non più nazisti ora, ma cinesi a presidiare la città, celati da amministratori-paravento indigeni. Proprio allora mi vennero in mente le parole dell’ex direttore dell’FBI che decine di anni prima aveva detto: “La Cina tenterà di imporsi come unica superpotenza dettando il suo volere al mondo con ogni mezzo”. Parole profetiche? Mezzi che in modo sinistro dovevano manifestarsi anche quel giorno in tutta la loro allucinante perversione. Poco prima della loro rimozione, riuscii a osservarli, li stavano fotografando: detriti elettromeccanici sparsi davanti al pub Globe. Curioso e bizzarro. Pezzi di motori elettrici, con la matassa di filo di rame del rotore sbobinata, uno dei quali era finito su una siepe di bosso, pale di eliche mozzate, fusoliere contorte e poi cofani contenitori per il carico, sfasciati. Il tutto suggeriva lo scontro accidentale di due droni a bassa quota. Ma non era tutto e non il peggio. Con ogni mezzo, ripensai. Accanto ai resti dei droni una decina di sacchi candidi, alcuni dei quali lacerati, a rivelare nefandi contenuti. Oltre l’incrocio, celati da un secondo cordone di incappucciati in tuta, cadaveri. Le tute stavano “maneggiando” le ultime salme spingendole dentro il tir refrigerato. La ruota di una lettiga si sfilò e il pesante sacco scivolò a terra, rabbrividii al rumore sordo dell’impatto del cadavere col selciato. Il mio stomaco in rivolta, polmoni e orecchie, compresse, come capita in apnea. Immaginai il ghigno dei poveri cadaveri che si beffavano di noi, non ancora come loro. Mi figurai le misere salme che guardavano me senza vedermi, col giallo delle cornee, bovine, oscene. La memoria ora inorridisce. Dove? Chi? Quando? La galleria cieca, davanti a “Costa Café” sprangato da anni, lasciava intravvedere un varco. Vi entrai a fatica, oltrepassando una soglia non esclusivamente fisica. Subito avvertii un tempo alieno, anteriore, impadronirsi di me, avvolgendomi. Cosa ci faccio qua? Rabbrividii. Non ebbi tempo di riflettere che fui urtato con violenza: senza neppure accorgersi, un soldato con una gran fascina, di furia mi era venuto addosso. Strepiti, ordini e un lezzo bestiale. Correvano stravolti, dal deposito dei carri allo spiazzo dove fiamme crepitavano. Quelli di fuori lanciavano, questi bruciavano. Cadaveri dal cielo e nel rogo, catapultati dentro le mura di Kaffa. Tramortito dal peso dei secoli e dall’orrore, abbassai lo sguardo, appoggiandomi per non cadere al muro di “Costa Café”. Indietreggiai, varcando ancora la soglia. La visione svanì. Libero! Libero? Era stato, nel 1347, a Kaffa, colonia genovese sulle rive del Mar Nero. Mongoli, capeggiati da Khan Ganī Bek, lanciavano cadaveri infetti all’interno delle mura, prima di levare l’assedio. Sono stato là dentro, io,e poi ora a Moorgate pensavo. Morti attraverso tempo e spazio. Allora la peste, ora il virus mortale. L’arma perfezionata dalla tecnologia moderna, assai più efficace delle catapulte mongole, droni assassini che seminavano morte, allora come ora! Non sapevo se avessi potuto respirare.
Per non cadere sedetti su un gran lastrone di pietra. I cinesi tenevano in scacco il mondo con piogge di cadaveri, liberando all’occorrenza nuvole di zanzare infettate dal virus. Quel giorno ne avevo avuto diretto riscontro. Il vaccino made in China funzionava sin dall’inizio per loro e solo per loro. Sciami di droni pronti a colpire per soffocare qualsiasi tentativo di ribellione nelle regioni sotto il loro impero. Obitori e ospedali rifornivano abbondanza di “materiale”. Mi chiedevo dove fossero in realtà diretti quelli incidentati.
Telefonai a casa. “Ma dove sei? Ma sai che ore sono? Vieni a casa, è tardi. Vieni a casa ti dico!” “Come?” La linea disturbata cadde. Sarei arrivato col buio, non me la sentivo di riprendere il tube. Per la prima volta constatai l’agonia della città sconsacrata, la più ricca del mondo un tempo, ora dimentica dell’antica frenesia; dietro le imposte di negozi sprangati da cui era sparita la merce, il suo illustre scheletro resisteva, carcassa ancora fastosa. Il notiziario della BBC delle venti avrebbe riportato un incidente nei pressi di Moorgate. Due droni GA da 880 libbre, ovvero con capacità totale di carico di 440 chili appartenenti a uno stormo diretto a Manchester si erano scontrati. Non si registravano vittime. Dei sacchi, caduti coi droni nemmeno un accenno. Chi stavano andando a punire? mi chiesi. La censura impediva di sapere il resto ... Con ogni mezzo e a costo zero, riflettei.
Dall’Italia le notizie dell’amico astigiano, brutte; dicevano di certi balordi che avevano fatto scoppiare petardi davanti a un posto di blocco a Moncalvo, i cinesi avevano subito reagito, pensando che fosse una bomba. “Di notte ne hanno lanciati non so quanti dal cielo.” Davanti al municipio di Bosco Marengo e anche a Moncalvo, pareva. “Chi li va a raccogliere? Son tutti infetti i morti. Chi li va a benedire adesso? Qualcuno dice che ha visto una carrozza e dei cavalli neri correre verso Moleto….”… Quei cavalli neri? …. pensai, atterrito.
Non so cosa potessi pretendere dalla notte incipiente dopo i fatti di Moorgate e le notizie dall’Italia. Se non avessi tentato di distrarmi in qualche modo altri turbamenti avrebbero compromesso il mio già precario equilibrio. Così chiesi a mia moglie di uscire. “Ma non sei stanco?” “No”.
Vagammo senza meta dopo aver imboccato una laterale di Askew Road dove c’era l’insegna spenta di “Fish and Chips bar St. Elmo”. Sconvolto a dir poco. Non un’anima e subito, paurose, chiome mormoranti di alberi e muretti bassi che potevano occultare i volti dei cadaveri in agguato di Kaffa e Moorgate! La fantasia sovreccitata non mi risparmiava nulla. Non c’era tregua per me, ogni cosa, anche la più innocua, rimandava a quegli orrori. Seguivo taciturno le orme di mia moglie. Più intenso, ora, corroborato da un filo di ragione, il primo sgomento alternato alla pioggia di cadaveri su Moleto, Moncalvo e Bosco Marengo, secondo le notizie dell’amico astigiano, l’orrore mi scoppiava dentro.
Improvvisa e a tutto volume una musica che ben conoscevo, le cui note ossessive ora mi perseguitavano! È me che vogliono! mi hanno scoperto! ormai è chiaro! Questo pensai. Era il brano Asturias di Isaac Albéniz, famoso pezzo per chitarra. Tanto più sinistro in quanto amavo il suo ritmo incalzante, ma qui fuori posto e a quell’ora, e poi nessuna autoradio era nei pressi, di furia mi diressi verso casa. Braccato e delirante.
Svoltammo in Wormholt Road, mia moglie evitò di chiedermi cosa mi avesse preso, sapendo quanto sono bizzarro. Poi a casa disse: “Non ne ho più”. “Fa niente, ci vorrebbe mezzo litro di Valium, non camomilla” risposi. Che un nuovo incubo mi attendesse al varco appena addormentato? Dopo aver paventato il precipitare di eventi orrifici, aggrappato all’idea che tutto sarebbe svanito se solo avessi spalancato gli occhi, cado in un sonno penoso. Non devo attendere a lungo: L’invito online descrive l’evento come il rave party più fabulous della stagione. Rigorosamente vietato dalla legge e dal nuovo incalzare del virus; è ancora buio quando a Ravenscourt mi infilo nel tube deserto della District. Scendo a Tower Hill mentre un’alba livida annuncia basse nuvolaglie in transito. Non occorre cercare il luogo, piantato davanti al nuovo ciarpame edilizio simboleggiato dall’ogiva di cristallo del Gherkin, che una fiumana gozzovigliante si sta dirigendo verso un punto preciso. La massa urla, scalpita, impreca, premendo per infilarsi dentro le mura. Sgomento, mi accorgo che non riuscirei a risalirne il flusso, tanto è fitta. Sei Beefeater impacciati con le loro ridicole livree bordate d’oro e il cappello a catino, indirizzano gli scalmanati all’interno della Torre di Londra. Dal primo cortile nei cui pressi un tempo scivolavano nel Tamigi i resti dei condannati, le raffiche di una musica urtante, contro lo stomaco. La massa si arresta, ondeggia, riprende ebbra. Alcuni invitati, a torso nudo, con lo scalpo dei Mohicani azzurro e rosa scivolano a terra, fradici di droga e alcool, tre ragazze lucide di sudore si avvinghiano ai forsennati, ululando. La folla si scalmana. Le torce ai muri lasciano fitte zone di buio. In direzione di un secondo cortile, oltre il fossato, è già iniziato uno strano esodo. Alla spicciolata e poi sempre più folta una processione si trascina, mesta. Gli stessi che poco prima facevano baldoria, a capo chino ora barcollano. Senza capire li seguo. Inciampo, calpestando qualcosa di elastico che emette un rantolo! Aguzzo la vista e l’orrore mi infilza. Sto costeggiando una fila di cadaveri e di corpi esalanti l’ultimo respiro. Nuovi infettati dal virus! Fuggo verso il primo cortile, in tempo per scorgere il maestro di cerimonie ergersi sul palco dell’immondo conclave, è lui, è lei, la sagoma intabarrata di Moleto, vomitata dal basso inferno. Ora dirige la danza macabra alla Torre. Mi vede l’infame, fa cenno a tre Beefeater che ora calpestano vivi e morti per agguantarmi. Imbocco un varco che si rivelerà cieco. Con le spalle al muro, il loro ghigno, stanno per afferrarmi. Grido da far spavento. Non è la prima volta. “Ma cos’è? ma sei impazzito? ma cos’è stato?” “…Scusa, dormi, scusa” balbetto verso mia moglie tapina. Ci sono orrori indicibili capaci di estendere le loro propaggini alle ore diurne. Tre giorni appresso la mia angoscia distilla raccapriccio, poi orrore. Proprio davanti alla porta di casa la carrozza coi quattro neri cavalli, immobili come pietra, nessun altro in vista; è me che cerca, lo so, me che vuole, lo sento.
(…) “come tutti, combatto quotidianamente con la Realtà, che mi diventa sempre più insopportabile per come è stata resa artificiosamente complicata e totalmente inumana.” GdT
Un’opera singolare edita daSolfanelli: Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti,èalla seconda edizione riveduta e ampliata, e già si parla di una terza ristampa. Qualche motivo deve pur esserci. Il gran nocchiere, suo principale attore, scrutatore degli abissi del reale, attende. Oggi c’è bonaccia. Non è fisico il suo sguardo ma interiore. Sulla fiancata del suo naviglio sta incisa la frase del Principe Guglielmo d’Orange il Taciturno «Non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare.» L’opera: una sorta di canto corale di chi ha conosciuto da vicino il personaggio. Ma anche pretesto per trattare sotto varie angolazioni e raccogliere testimonianze sul Fantastico. Qui risiede la sua originalità. Il suo protagonista, diretto verso il mundus imaginalis, ha “interpretato leggende narrate da geroglifici fatali”, attraversato i territori dell’angoscia e del rifiuto di Lovecraft, le imaginifiche lande di Tolkien dove nascono e muoiono regni e sogni. Il suo equipaggio: quelli che hanno lavorato con lui e per lui confidando ora che il nocchiero, come Ulisse, Giasone navighi ancora. A molti di loro egli ha impartito severe lezioni di ars scribendi che coniugano rigore, ricerca, ostinazione nel voler dare il meglio, insegnando la scoperta di segrete cose, celate alla vista dei più. Paola De Giorgi non teme di definire Il taciturno nocchiere col suo sigaro spento incollato all’angolo della bocca: “il nostro stregone del XXI secolo. Uno dei pochi ancora rimasti di una generazione di stregoni che avevano l’arduo compito di effettuare la grande ricerca…Un maestro ha l’arduo compito di indicare la strada, senza mai sostituirsi ai propri allievi.” Dal vasto arazzo alle sue spalle traspare anche l’ucronica visione della storia. Egli ha indicato il legame tra mito, epica e letteratura fantastica, rilevando insospettabili legami fra mondi antichi e l’oggi, basta che leggi l’ultimo capitolo di suo pugno, dove il Mito cede il passo al Fantasy. Il nostro ha lavorato per decenni con lo spirito dell’alchimista, la precisione dello scienziato. A lui è toccato dirimere, collegare e proporre nuove letture del “reale”, insospettabilmente collegato col fantastico.
L’opera parla delle avventure dirette o riflesse che lo vedono coinvolto, ma non solo. Un romanzo? un saggio? un racconto? o una serie di testimonianze? Nulla di “solo” questo. Piuttosto un amarcord redatto da ex “alunni”, colleghi e amici. Il Viaggiatore Immobile si avvale di testimonianze autografe per descrivere un’avventura senza fine. Il nocchiere ha la smodata passione per la Fantascienza, onnivora medusa che si nutre di sogni e di reale. Gianfranco de Turris è definito da chi lo conosce bene: “mastro orologiaio, promotore, animatore culturale, ispiratore, mentore, benevolo demiurgo, critico letterario, intellettuale acuto e stregone…” per il momento basta. L’individuo non è incline al complimento. L’immobile viaggiatore GdT ha solcato mondi iperuranici, messo alla frusta e aiutato a dare il meglio di sé decine di masochisti aspiranti Lovecraft. Il “Diogene del fantastico” sta rimuginando se, per caso, avesse lasciato qualcosa di inesplorato che valga la pena di sondare.Marco Solfanelli, uno dei suoi editori preferiti ed amico afferma: “Ancora oggi, la nostra collaborazione prosegue. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è: Io con Gianfranco non ci discuto; faccio tutto quello che mi dice. La stima che provo nei suoi confronti mi fa accettare qualsiasi sua proposta editoriale, perché è per me garanzia di qualità…” GdT da decenni, è solito rilevare riscontri e legami, per scovare un indizio, il bandolo dell’intricata matassa che si chiama fantasy, termine così pregnante da scoraggiare la più caparbia volontà di interpretazione.
Il Viaggiatore Immobile è il diario di bordo di un’avventura ancora lontana dal concludersi, talvolta commovente, verso il “maestro, lo stregone, il mentore, infine il gentiluomo.” E intanto il Fantastico irrompe tra le pagine del volume, come mai prima lo abbiamo considerato. A descrivere Gianfranco de Turris ci pensa Errico Passaro: “(…) è il critico che questa Italia faziosa e provinciale non merita. Non è eccessivo definirlo il più grande di tutti i tempi, nel campo della critica fantastica…ovvero il più grande esperto del fantastico italiano.”
Nelle immagini: la copertina del libro, Gianfranco de Turris, un dipinto di Julius Evola.
Ti parlo di un falso. un grandissimio falso. Forse il più grande della nostra storia. Perché un falso? Se il suo autore fosse nato dopo l’età di Galileo e Nietzsche non l’avrebbe concepito. Ma sì, hai capito si tratta di Dante e di quella sua sua opera apocrifa all’eccesso che non posso aggettivare tanto è immensa. Non intendo aggiungere nulla a quanto già commentato, criticato, spaccato il suo verso in quattro e poi in otto. Non ne ho la capacità. La meritava, e la merita quella fama. E allora? Ti parlo di una esperienza personale che mi ha tenuto impegnato due anni, anche perché conosco quasi niente il latino e dovevo tornare più volte sul significato dei suoi versi, chiedendomi: ma chi me lo fa fare? A migliaia ci sono letture più scorrevoli e amene. Quella sua musica che inizia con i famosi versi che anche le scimmie del Borneo conoscono è impagabile. Se Dio avesse avuto bisogno di un testimone in terra, un uomo marketing dalle eccezionali qualità avrebbe scelto lui. Che crea un’allegoria di insuperata presa, ovvero apocrifa allo stato puro, per questo formidabile. Non deve offendersi il grandissimo Shakespeare perché lui parla solo di uomini e delle loro passioni e del potere, né deve prendersela a male il sommo Omero, che galleggia fra le nebbie del mito, lui trattava di una leggendaria storia intrisa di omeriche passioni, e cioé molto terrena; è Dante il più grande, scusa la faziosità, anche se non sono toscano, è lui che sovrasta tutti. (pochissimi peraltro). Lui che ci fa vedere l’invisibile, l’ineffabile, l’impossibile (?) sempre lui che ti fa avvertire l’approssimarsi dell’etterno valore.
Il Poeta
Presuntuoso all’inverosimile il nostro, volendo farci credere che Dio, su intercessione della Madonna, attraverso le richieste di Beatrice che mobilita anche Santa Lucia si rivelerà a lui in quel meraviglioso ultimo canto in forma di tre cerchi concentrici. Lui che viene interrogato da San Pietro e passa l’esame. Dante che parla con San Bernardo, il quale prega la Madonna per lui affinché Dio gli conceda la grazia di rivelarsi. Proprio lui, che si sente appartenere alla combriccola degli eletti, con cui parlerà di letterartura e filosofia. Sempre il Poeta che ama, riamato da una donna contigua a santi angeli e vicina alla Madonna. Non so se mi spiego. Mica possiamo farlo noi. Dante si autoelegge ad eletto. Un’opera “pubblicitaria”, cibo impagabile per i cattolici ortodossi, stesa da un visionario per eccellenza, che percorre la difficilissima salita alla somma luce, al Verbo e avanti di questo passo. Per appassionarti ai suoi versi devi spogliarti dell’abito razionale dell’uomo moderno. Non ci devi proprio pensare alla Fisica quantistica né allo spazio curvo né al dipinto del Cristo morto di Hans Holbein. Dio è luce ed esiste, come esiste l’aria. Punto.
I Cherubini
Ma non basta. Per leggerlo devi fare lo sforzo di diventare medievale, puoi aiutarti ascoltando le voci di Gasmann o Benigni ma è sul testo che devi faticare e appassionarti alle tristi vicende di un esule, consapevole del suo valore e bandito dalla sua terra ingrata. La sua immensa creatura apocrifa è un dono fatto all’intera umanità, che tu sia credente o no, poco importa. Dante ti fa scalare una montagna di cui non si vede la fine, solo lui la vede e teme di non riuscire. Dagli inferi alla luce assoluta che tutto monda e comprende. Perché insisto sul tasto dell’apocrifo? Perche l’illusione che Dante ci fa vivere è fallace. La natura eminentemente criminale tipica di noi umani elude ogni possibilità di riscatto, per lui no. Non voglio fare il catastrofista, ma guardati attorno e capirai. Ieri, oggi e…domani. Dante ci crede alla sua visione, ne è convinto, ci conforta, illudendoci che il sommo bene trionferà, affermando che non è nelmondo che mal vivela vera esistenza ma lassù, fra angeli e cherubilni, sempre se te lo meriti, ovvio. Dante pensa al riscatto morale, alla possibilità di redenzione, ligio al Verbo, alla Grazia, che faticosamente conquista, e che non ammette divagazioni, dubbi o altro. Dio esiste, punto e a capo. Sette secoli di umano, troppo umano, dopo di lui lo smentiscono.
Non so se hai mai letto ISOLE NELLA CORRENTE del grande Ernest, ultima sua opera prima del suicidio. Opera minore che parla di un pittore, dei suoi figli e delle relazioni fra lui e loro, di bevute stratosferiche seduti al bancone di un bar, di una battuta di pesca, probabilmente una delle migliori che siano mai state scritte, della morte tragica dei figli, e anche della caccia a una combriccola di soldati crucchi. Il racconto, come ti ho detto, non pè dei migliori, ne parlo tuttavia perché ti “costringe” a leggerlo fino alla fine, questa è la magia della scrittura di Hermingway. Sarà il mito che H. seppe nutrire o subire? Sarà il personaggio fragile e malato, a detta del suo amico Orson Welles, Hemingway: aspirante rodomonte dai piedi d’argilla. I personaggi ricorrenti a bevute dall’alto tenore alcolico per sopportare l’onere della loro esistenza, sono individui “provvisori” , spacconi, o aspiranti grandi artisti, percorrono esistenze senza sbocco né costrutto, Ma se vuoi sapere come si pesca e si perde un pesce gigantesco nell’oceano e i “fragli” rapporti fra padre e figli il libro fa per te. In molti personaggi avverti la loro inconfondibile natura americana, che è quasi un leit motiv, riscontrabile anche in altri autori, una navite, una fanciullezza dello spirito, il loro stupore davanti alla natura e al mondo in genere. Quello che mi preme sottolineare è che in un libro come questo, forse un po’ noioso, dove le vicende sono vissute da perdenti vive quella scrittura che ha reso grande lo scrittore americano. Quanto il mito di H. pesi sui suoi lavori influenzando i lettori è evidente. Lo sai scritto da lui, per cui predisponi la tua attenzione. Tanto basta a seguirlo fino alla fine, che in questo caso non prevede un finale eclatante, né eroico, né tantomerno da vincente.
Hai letto H. e tanto deve bastare. Per dirla come il mito del personaggio sopravanzi o confonda il vero valore della sua opera. Il suo “marchio” comunque lo avverti, fatto di disperazione, depressione, e fallimento esistenziale sottotraccia,. Se malato, come davvero lo è stato, un grandissimo malato, un fragile logorroico, reduce dalla vita come molti dei suoi personaggi, nato con la penna in mano, e morto con la penna in mano. Uno che aveva conosciuto e ammirato non poco Gabriele D’annunzio e i suoi Arditi, per poi rimangiarsi l’ammirazione scrivendo a Chicago nel 1922 a proposito del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” . Effettivamente di noi gli Americani capiscono pochino.