la pittura “psicologica” di Marianne

Ci mancava proprio l’invito, gradito e inaspettato, della Canopy Gallery a Bloomsbury. Sono atteso per un breakfast-incontro con Marianne Thoermer, l’autrice. Non posso mancare e sono già in ritardo. Vado a vedere che aria tira. Nell’occasione tiro fuori dall’armadio la cravatta superstite.
Nessun appunto all’opera onesta e genuina di Marianne, che illustra alle signore presenti la genesi delle sue tele. I coltelli potrebbero suggerire violenza ma impugnati ed esibiti da mani forti e nodose da contadino, creano una sospensione, inducono a riflettere, quasi estraneee alla loro funzione, le lame non suggeriscono pericolo, anzi, fermezza e sicurezza.

Marianne qui predilige la dimensione domestica, fatta di piatti, bicchieri e stoviglie, oggetti amici e quieti, compagni di mensa e di riposo post prandiale. “La pittura è sempre stata la mia prima lingua, poiché ho ricevuto una formazione classica e attraverso di essa sono stata introdotta all’arte fin dalla tenera età.” Dice. “Per me è il modo più intuitivo e naturale di navigare nel mondo. Lavorare con altri mezzi nel corso degli anni mi ha permesso di sviluppare un senso più ampio di materialità e un approccio più materico e sensoriale, che ora ho riportato in pittura.” Aggiunge Marianne. All’inizio, sentivo che ai miei dipinti mancava la presenza necessaria per commuovere veramente, quindi ho esplorato modi di lavorare più tattili. Con la conoscenza che ho ereditato da altri media, le opere hanno acquisito sostanza, urgenza e una presenza in grado di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Riscoprire questa urgenza è stato sia un ritorno alle mie radici sia un modo per andare avanti con una pratica più profonda.

Non ho una tecnica pittorica predefinita che si adatti a tutte le immagini: varia davvero da lavoro a lavoro. Alcuni dipinti vengono costruiti lentamente nel tempo, strato dopo strato, consentendo all’immagine di trovare gradualmente il suo posto attraverso questo processo costante. Altri, come la serie Dirty Dishes, iniziano diversamente: applico un primo strato di vernice, lo lascio asciugare e poi lo carteggio nuovamente per creare una prima texture, quasi come se stabilissi il nucleo della memoria del dipinto. Una volta rivelata la superficie, applico strati di vernice più spessi e poi li pulisco rapidamente utilizzando panni, polpastrelli o cotton fioc. Diventa un processo che spinge l’immagine in avanti e poi la cesella nuovamente indietro.  

The Periphery, Il titolo della mostra a Canopy Collections, riflette il mio interesse per i confini: spaziali, sociali e psicologici. Questi dipinti sono il frutto maturato durante il mio congedo di maternità, un periodo di quiete e di attenta osservazione, quando la mia attenzione si è rivolta a ciò che mi circondava: i gesti trascurati, le tranquille scene domestiche e i piccoli dettagli che spesso passano inosservati. Attraverso Periphery, esploro cosa significa abitare o osservare dall’esterno, dove dentro e fuori, luce e ombra, presenza e assenza diventano fluidi. È una prospettiva che incoraggia un modo di guardare più lento e attento e rivela la profondità e la complessità dell’ordinario. Il dipinto  “The Arrangement”, ad esempio, si basa su una fotografia d’archivio scattata nell’asilo nido della prigione di Askham Grange, nello Yorkshire. 

Una immagine di un libro che mi ha colpito. Si vedono le figure che apparecchiano tranquillamente i tavoli, ma le ombre sulle pareti danno il senso di qualcosa di più profondo, una sorta di tensione psicologica emerge. Poi ho scoperto che era stata scattata ad Askham Grange, prigione femminile aperta con un asilo nido. La foto mostra il personale che prepara i tavoli per i bambini, e il posto in realtà gode di una delle migliori valutazioni: non è affatto triste. È così apprezzato il luogo che anche il personale ci manda i propri figli. Una figura nella fotografia proietta un’ombra su un’altra e, in un certo senso, mi ha ricordato come un neonato proietta un’ombra su di te. Quando servi qualcuno nella tua professione, stai anche servendo tuo figlio in un modo diverso.
Ho scelto questa immagine quando ero all’inizio della mia esperienza di maternità. Non che la maternità sia come la prigionia, ma ci sono dei parallelismi: un senso di restrizione, di negoziazione del proprio posto in un nuovo ruolo.” 

Nel dipinto, che attira subito l’attenzione,  si cela l’origine di una vaga inquietudine. Una insidia incognita sembrano suggerire le ombre, come a turbare la quieta attività domestica delle inservienti. Vediamo e “sentiamo” così i rumori discreti di chi apparecchia le tavolate, ma l’ombra ci mette all’erta.
Strana pittura quella di Marianne, frutto di ispirazione psicologica, e che non si limita alla sfera visiva, ma che coinvolge altri sensi, come l’udito, nel percepire il crepitio della foresta che brucia e il tintinnio delle posate nell’acquaio.
Ovvero una fisicità pittorica che suggerisce suoni. Pentole, bicchieri e stoviglie non rimangono oggetti muti ma soggetti plastici e sonori, mentre silenzio e compostezza accompagnano la visione in primo piano dei coltelli, affidati a mani sicure, come per smorzare la loro pericolosità. C’è più psicologia di quanto non sembri nei dipinti di Marianne. 

Marianne Thoermer è laureata alla Royal Academy of Arts, Londra, nel 2018. Il suo lavoro è ospitato in collezioni pubbliche e private internazionali, tra cui la Collezione Goetz, Monaco di Baviera; Collezione Haus N, Kiel e Atene. Ha esposto alla Royal Academy of Arts, Londra; Galleria Frestonian, Londra; TJ Boulting, Londra; Museo Rijswijk, Paesi Bassi.

Perfetta la conduzione dell’incontro in galleria, e nessuno si è abbuffato al buffet. Presente all’incontro Barney Cokeliss, scrittore/regista pluripremiato, il cui lavoro è stato selezionato da festival tra cui Sundance, TIFF e Venezia.

Canopy Gallery 3 Bloomsbury Place, WC1A 2QA Londra

L’arte di Acaye a New York

Per apprezzare le creazioni di Acaye Kerunen Elizabeth, in esposizione all’institute of Fine Arts di New York 1246 Days Around the Sun, occorre scomodare, seppur metaforicamente, la Fisica Quantistica con le sue interpretazioni stupefacenti e recondite del mondo, e questo descrive la complessitá della sua arte, solo in apparenza semplice. Indispensabile poi accantonare la concezione di Friedrich Nietzsche sull’arte, il quale nel suo Origine della Tragedia scrisse al proposito: “[…scopo supremo e attivitá metafisica specifica della vita umana è l’arte, “….e anche: “l’uomo vede ora soltanto l’orrore dell’essere o la sua assurditá. Nel supremo pericolo che corre la volontá si avvicina come maga salvatrice e sanatrice l’arte, essa sola puó cangiare di corso a quei pensieri di disgusto suscitati dall’orrore e dall’assurditá dell’esistenza…e mutarli in rappresentazioni che rendono tollerabile la vita…]
Nulla di tutto questo nell’arte di Acaye Kerunen, che è anche esplosione di colore, geometrie e di forme, e incredibile vivacitá di tessuti. Serbatoio di “conoscenza nascosta della terra e delle ecologie”.

Non si attagliano alle sue opere le analisi di Nietzsche e neppure i significati delle ipnotiche maschere rituali africane fanno qui testo; per comprendere le sue creazioni occorre un’ampia e profonda destrutturazione e rivisitazione del concetto di arte: il mondo rappresentato da Acaye Kerunen e quello occidentale, con le sue osmosi ontologiche, i ripensamenti radicali sui fini ultimi dell’uomo, le stratificazioni concettuali sull’umano e, tanto per citare, l’eterna simbologia del conflitto Dioniso Apollo, non sono evidentemente conciliabili, salvo prova contraria. Per analizzare le opere della creatrice multimediale ugandese, è indispensabile contestualizzarle considerando, ad esempio, i materiali usati, il luogo di produzione, il significato che l’artista ha inteso attribuire loro, e la Tradizione. La loro rustica semplicitá inganna. Sono fatte di fibre vegetali ossia destinate al dissolvimento e giá questo fa pensare, l’oggetto simbolo-significante non è destinato all’eterno, come si vorrebbe nelle nostre statue classiche, ma al quotidiano. Non si proiettano nel dopo, non tramandono ideali di purezza apollinea, ma vivono il presente nella tradizione e lo simboleggiano. La loro semplicitá “domestica” promuove riflessioni che coinvolgono il sociale, la denuncia, l’ecologia, la Tradizione, e, direttamente, la filosofia di vita.

Recita il comunicato relativo alla mostra: “Le opere di Kerunen sono composte da piante provenienti dagli ecosistemi delle zone umide di Nalubaale (Lago Vittoria) e dalla regione dei Grandi Laghi dell’Africa orientale. Quattro di queste opere di grandi dimensioni saranno esposte, sospese negli interni Beaux-Arts della Marica Vilcek Great Hall. Per realizzare queste opere, Kerunen si avvale della collaborazione, della competenza e dell’abilità artistica della tessitura femminile per trasformare materiali organici in un nuovo linguaggio scultoreo. La sua pratica coinvolge sia le strutture matematiche del pattern e dell’architettura, sia i cicli temporali di crescita, raccolto, creazione ed esposizione. L’arte di Kerunen si colloca all’interno di tradizioni che mettono in risalto il “lavoro femminile” come luogo di importante trasmissione intergenerazionale. La sua pratica affonda le sue radici nel cucito, nell’annodatura, nella tessitura e nell’intreccio a mano di fibre naturali. Tali abilità sono state a lungo svalutate sotto il patriarcato, ma sono in realtà un sofisticato linguaggio di sequenze matematiche, reso visibile nei frattali intrecciati che attraversano le superfici delle sue sculture.
Fra le opere in mostra:

Tong Lengu (Uova di Bellezza) (2024), Pok Lengu (Involucri di Bellezza) (2024), Poluutingu (I cieli l’hanno sollevata) (2023) e Nyingati (La moglie di qualcuno) (2023) – sono intitolate in alur, una lingua parlata principalmente nell’Uganda nordoccidentale. Insieme, articolano ciò che l’artista definisce la “conoscenza nascosta della terra e delle ecologie”, smantellando creativamente i sistemi coloniali basati sul maschilismo. Mettendo in primo piano diverse eredità, Kerunen rivendica l’artigianato come atto di resistenza. La pratica dell’artista incentra l’ambiente sia come fonte di materiale artistico che come deposito collettivo di saggezza. Il suo utilizzo di obuso (rafia), byayi (fibra di banana), mutuba (la cui corteccia produce l’olubugo, noto anche come tessuto di corteccia) ed ensansa (foglie di palma), tra gli altri tessuti vegetali, è influenzato dalla disponibilità di risorse e dai ritmi mutevoli delle stagioni.
Le sue collaborazioni in tutta l’Africa orientale sono plasmate dalle ecologie locali: cosa cresce e dove, quando può essere raccolto e chi lo trasforma in forma. L’attenzione di Kerunen all’ambiente complica le nozioni romantiche di “natura” come incontaminata o separata dall’intervento umano, rivelando invece l’ecosistema dei Grandi Laghi come un luogo di coinvolgimento plasmato dalla crisi climatica e dall’estrazione coloniale.

Acaye Kerunen è scrittrice, poetessa, attrice, performer, artista di installazioni e attivista artistica ugandese. È la direttrice e fondatrice del forum KEBU. È stata protagonista del padiglione inaugurale dell’Uganda alla 59a Biennale di Venezia insieme all’artista Collin Sekajugo in Radiance – They Dream in Time (2022) e ha curato il padiglione nazionale per la 60a edizione, WAN ACEL|TULIBAMU|TURIBAMWE|WE ARE ONE (2024). Kerunen ha tenuto mostre personali presso l’Afriart Gallery di Kampala (2021), la RAM Galleri di Oslo (2023), il BLUM di Los Angeles (2023), la Galerie Kandlhofer di Vienna (2024) e la Pace di Londra (2024), ed ha partecipato a mostre collettive presso l’Ars Belga di Bruxelles (2023) e il Barbican Centre di Londra (2024). Kerunen sta inoltre lavorando a una produzione teatrale musicale, I HAVE A DRUM (IHAD), una performance a base di percussioni che celebra e documenta Ingoma Nshya, le percussioniste ruandesi di fama mondiale.
Ritratto di Acaye Kerunen. Per gentile concessione della Pace Gallery.
Fotografia in alto a sinistra di Damian Griffiths.
La mostra è stata resa possibile grazie al generoso supporto di Valeria Napoleone.

New York University’s Institute of Fine Arts to present
Acaye Kerunen: 1246 Days Around the Sun
Great Hall Exhibition Series Fall 2025
The Institute of Fine Arts, New York University
The James B. Duke House, 1 East 78th Street
Opening: November 12 at 6:00 PM
On View: November 12, 2025 – May 22, 2026
Public Program: November 17 at 6:00 PM












Il bestiario magico di Nichola Theakstone

Ma sí, anche a Londinium, mirabolante paesone cresciuto a dismisura c’è del buono e del bello, basta frugare.
Non troppo lontano nel tempo da non essere ricordate, c’erano le creature cosí come le aveva fatte la mano di Dio. L’eden in terra, l’intonso creato pieno di meraviglie, erbe e animali. Ciò non e piú, mortificato e seviziato dall’uomo stolto. A saperle cercare, tracce cospicue di quel mondo esistono ancora e parlano. Sono gli animali e le loro essenze che ci indicano, severi, la loro precaria esistenza. Il loro monito silenzioso è potente, basta gironzolare nei pressi di Piccadilly street per verificarlo.

Arrivano dalla banchisa polare, dall’India, dalla steppa e dalla foresta. Sono gorilla, leoni, lepri, orsi polari e vacche sacre, e cani e cavalli ancestrali che evocano miti irricordabili e dimensioni di vita scomparse da migliaia di anni. Questa fauna eterogenea la trovi riunita in schiera silenziosa a poca distanza da Piccadilly street, dentro i recinti di Sladmore, galleria che ospita mostre dedicate ai nostri amici in via di drammatica e rapida estinzione. Dopo essere passato più volte davanti alle sue vetrine sono finalmente entrato nel bestiario. Sculture in bronzo che catturano a prima vista, evocazioni di mondi e vite minacciati dall’ignavia e dalla stupidità dei contemporanei.

Lí rivivono e fanno meditare. Nichola Theakstone, scultrice di straordinario talento, ha saputo catturare perfettamente, oltre allo spirito che anima tutti gli esemplari, le loro più riposte e intime essenze, lasciando parlare le espressioni talora assorte, intente o contemplative, nelle varie pose dei soggetti. C’è qualcosa di indefinibile e attraente in quelle creazioni, nelle espressioni dell’orso, del felino, e del gorilla di montagna. Quasi un richiamo. Una sorta di straniamento emana dalle loro espressioni. Essi ci rimandano a un mondo antico, che un tempo era anche il nostro. La scultura di Nichola Theakstone senza strepiti e proclami è anche denuncia di un mondo in rapido dissolvimento. Essa ci riporta alla radice di dimensioni ataviche seviziate dalla modernitá.

Quando eravamo cacciatori, e ci difendevamno dalla leonessa e dal giaguaro, quando eravamo cavalieri, in sella a mitiche cavalcature. Le opere della scultrice ci restituiscono brandelli di quel mondo che ci apparteneva e dal quale ci siamo stoltamente allontanati. Il misterioso felino guarda proprio te, mentre il caos impazza davanti all’hotel Ritz, a pochi metri di lí.

www.craftinfocus.com/nichola-theakston-sculptor: “Nichola afferma: “Gli esseri umani hanno una ricca storia di coinvolgimento artistico con il mondo animale per una varietà di scopi. Per me è la straordinaria bellezza del mondo naturale e la mia risposta fisica ad esso; un tentativo di comprendere e ritrarre creature così diverse eppure simili sotto molti aspetti. Mi sembra un’attività molto pertinente, con l’elenco degli animali in pericolo critico in continua crescita. Oltre all’ovvio apprezzamento della forma, spero che l’opera susciti una risposta personale e varia, da questioni di fragilità dell’esistenza a idee meno tangibili e più effimere. L’idea che una singola creatura possa sperimentare una dimensione spirituale al di là dei suoi comportamenti animali istintivi è la premessa alla base di gran parte del mio lavoro. Sebbene i primati siano un tema ovvio e avvincente data la loro vicinanza genetica al genere umano, è importante per me che tutti i soggetti siano scolpiti con sensibilità ed empatia, rispecchiando elementi della nostra coscienza condivisa e invitando l’osservatore a relazionarsi e riflettere.” 

Sladmore Gallery è una galleria d’arte londinese situata al 57 di Jermyn Street dal 2007. La sua specialità sono gli scultori animalier (la sede di Bruton Place è specializzata in scultori contemporanei e quella di Jermyn Street in scultori del XIX e inizio XX secolo).

I Brits e noi, l”amore” che non muore

Lorenzo Ferrara, ancora desaparecido, ci aveva assicurato che questo, insieme a molti altri articoli, sarebbe stato pubblicato in un libro edito da Solfanelli

Edda Ciano, la fille du Duce, à Rome, Italie. (Photo by KEYSTONE-FRANCE/Gamma-Rapho via Getty Images)

L’amore che i Brits nutrono per il nostro paese si manifesta in diverse occasioni, amore strano, tortuoso, di gente lontana anni luce dalla nostra essenza intima, esso conosce diverse tappe e gradi di interesse, si industria a sguinzagliare giornalisti nella nostra penisola come osservatori per sondare i meandri di certi fatti nostrani, certe anomalie, le magagne e i sotterfugi, i detective arrivano vicino al vero ma poi mancano l’obiettivo. Per capire gli Italiani è noto che occorre un trattato di Fisica Quantistica, non un manuale qualsiasi. Del resto di Indro Montanelli ce n’è stato uno solo, lui ci capiva qualcosa, insieme a Luigi Barzini e all’ex ambasciatore Sergio Romano. L’attenzione dei Brits verso l’anomala creatura politica che loro stessi hanno contribuito a creare, non perde occasione di manifestarsi, anche ai massimi livelli. Più che tracce, fatti, più che impressioni, affermazioni e giudizi, scagliati come sassi nella storia. Sir Winston Churchill insegna. 

Nel 1939 Time le aveva dedicato una copertina. Bella non era, e non solo in quel ritratto, essendo priva del visetto incantevole di Audrey Hepburn, con la mascella ereditata dal padre, eppure Edda Ciano Mussolini, contessa di Cortellazzo e Buccari piaceva. La sua verve, il suo essere donna oltre gli schemi, coraggiosa e ribelle affascinavano, anche al re dei Brits Giorgio V doveva piacere, al punto che la invitava ai tea parties a Buckingham Palace offrendole biscotti, pasticcini e sigarette, coinvolgendo Edda in piacevoli conversari. Ma lei non era a Londra solo per prendere il tè, bensì come inviata speciale dal babbo, di politica parlò con i ministri di allora chiedendo: “Ma se l’Italia sbarcherà in Africa voi cosa farete?” Evasivi gli Albionici, dicono le cronache e le sanzioni all’Italia da loro poi volute, ci fecero venire la gobba, tanto che per venirne fuori l’Italia ebbe bisogno dell’alleanza col “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot,” (per dirla con Gabriele D’Annunzio.)

Adolf Hitler was dictator of Germany from 1933 to 1945.

Solo leggende? Certo che le pesantissime sanzioni inglesi furono una concausa nella scelta dell’alleato dell’Italia. E poi venne il super blasonato Churchill, inglese doc e con cospicue tracce di antico sangue fiorentino. Bando al folklore biografico: Roma, 1927 a colloquio con Benito Mussolini. A Churchill il duce offrì di scrivere due articoli sul suo giornale, Il Popolo d’Italia. Durante una conferenza stampa: “Se fossi italiano, sono certo che mi sarei schierato con tutto il cuore con voi fin dal principio nella vostra lotta trionfale contro gli appetiti e le passioni bestiali del leninismo.” Spulciando sul web capisci com’è andata e perché.
Fabio D’alessandro, avvocato presso uno Studio Legale su it.Quora.com: “Churchill, da buon inglese DOC, nutriva un sovrano disprezzo per chiunque non fosse british; idem dicasi per qualunque nazione, forma di governo, associazionismo etc. che non fosse di matrice albionica. In tutto ciò, considerava l’Italia la somma dei difetti possibili, in quanto paese latino, mediterraneo, e cattolico. Per un paese così, l’unica forma di governo possibile, era una dittatura paterna e un poco severa; l’alternativa, era cadere sotto una dittatura comunista (l’esperienza ungherese con Bela Kuhn, il Biennio Rosso, oltre alla guerra civile spagnola, la rendono una ipotesi possibile). E Mussolini, per questo ruolo era perfetto. All’indomani della morte del Duce: “Così finirono i 21 anni della dittatura di Mussolini in Italia. Durante i quali egli aveva salvato il popolo italiano dal bolscevismo in cui avrebbe potuto sprofondare nel 1919, per portarlo in una posizione in Europa quale l’Italia non aveva mai avuto prima. L’alternativa al suo regime avrebbe potuto essere un’Italia comunista, che non sarebbe stata fonte di pericolo e sciagura di natura diverse per il popolo italiano e per l’ Europa. Le grandi strade che egli tracciò resteranno un monumento al suo prestigio personale e al suo lungo governo”. (Churchill ‘La seconda guerra mondiale’, Oscar Mondadori – volume nono pag. 63) e anche: “Il genio romano impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni come si può resistere all’incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta. Col regime fascista Mussolini ha stabilito un centro di orientamento dal quale i paesi che sono impegnati nella lotta corpo a corpo col socialismo non devono esitare ad essere guidati”. Discorso di Churchill il 18 febbraio 1933, (R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936). Del resto – cosa che non si dice – Churchill, fino al 1937, e per motivi simili, ebbe parole di profondo elogio anche per Hitler.”
Carlo De’ Coppolati, laureato in materie economiche e in Relazioni Internazionali, esperto di contrattualistica internazionale, su it.Quora.com: “Perché Mussolini scelse di allearsi con Hitler e non con Churchill?” “Per un semplice motivo che tutti gli storici conoscono ma che nessuno dice: gli Inglesi non volevano nessuna alleanza. La perfida Albione, che perfida era davvero, ha sempre cercato e spesso è riuscita a defenestrare qualunque sovrano, presidente o leader mediterrano che abbia anche solo messo in dubbio che detto mare non fosse una piscina inglese. Da Ferdinando II fino a Mussolini. Le cose poi nel tempo sono cambiate, ora la piscina è diventata americana, come tutte o quasi le altre piscine del mondo, ma all’epoca gli inglesi pensavano di essere loro i padroni del mondo e del vapore.” Nell’addendum: “Aggiungo uno stralcio dell’ultima intervista a Mussolini sull’argomento: “Prima di stringere il Patto d’acciaio ho tentato tutte le vie per trovare un’intesa con l’altra parte. Alla Francia ho ceduto per sempre Tunisi come primo segno di concordia. Avevo chiesto la sicurezza del pane per il mio popolo ma anche questo mi è stato negato. L’Inghilterra non ci ha voluti. Voleva la nostra neutralità e i nostri porti a sua disposizione e tutto questo, cioè l’ipoteca dell’avvenire e la nostra dignità, per un misero piatto di lenticchie. Quando ho visto che non c’era nulla da fare, mi sono legato con la Germania. La politica inglese è diabolica.”

Tornando a Churchill: per l’opinione pubblica inglese ecco alcune sue frasi ulceranti; Nel 1937 disse alla Palestine Royal Commission: “Non ammetto che sia stato fatto un grande torto agli indiani d’America o ai neri d’Australia. Non ammetto torti nei confronti di queste popolazioni dal momento che una razza più forte, di grado superiore, una razza più saggia per dirla così, (cioè quella britannica) occupa le loro terre e ha preso il loro posto.” Per questo dire e per le nefandezze commesse e ammesse in Afghanistan hanno imbrattato anche la sua statua, definendo il soggetto ritratto “nemico dell’umanità.”

memorie-polemica-indagine
raccolte in un volume:

E facciamoci una birra!

Un articolo anticipazione di Lorenzo Ferrara, detto per inciso ancora introvabile, che verra’ pubblicato sul suo secondo libro, dedicato ad ALBIONE LA PERFIDA. Pubblicato da Barbadillo.it recita: “La deriva nuchilista della Gran Bretagna senza fede: le chiese sconsacrate diventano birrerie. “Più di un terzo della nostra popolazione si identifica come atea. Sono i britannici bianchi che mostrano il calo di fede più marcato, passando dal 69% a meno del 50%”

“Più di un terzo della nostra popolazione si identifica come atea. Sono i britannici bianchi che mostrano il calo di fede più marcato, passando dal 69% a meno del 50%”
A occuparsi dell’inutilità della religione ci pensa un ex campione di tennis da tavolo, commentatore per BBC e Eurosport e autore di sei libri.

“La Gran Bretagna sta perdendo la sua religione. Cosa riempirà il vuoto?” Si chiede Matthew Philip Syed su The Sunday Times del 14-12-2022. “Più di un terzo della nostra popolazione si identifica come atea. Sono i britannici bianchi che mostrano il calo di fede più marcato, passando dal 69% a meno del 50%” scrive. “L’allontanamento dagli dei può essere inevitabile, ma rischiamo di perdere una potente fonte di conforto” continua. Ovvero rileva la funzione utilitaristica del Cristianesimo. Sovrasta l’articolo la riproduzione di una Adorazione dei pastori di Guido Reni, con una voluta lacuna: Gesù bambino sulla paglia è stato sostituito da una macchia bianca. L’autore, figlio di un immigrato pakistano convertitosi dall’Islam sciita al Cristianesimo, è stato campione di ping pong britannico per molti anni. Il suo articolo sulla fede britannica “svanita” occupa quattro colonne e narra anche della sua esperienza personale e di come man mano è riuscito a fare a meno di Dio. “Il Cristianesimo ha permeato la mia vita. Mio nonno materno si convertì durante le ultime fasi del Grande Risveglio in Galles. Parlava spesso del giorno in cui accettò l’invito di un predicatore carismatico a “dare la vita a Cristo”. Lui e tre dei suoi fratelli sarebbero diventati predicatori.”  Poi aggiunge: “La questione più grande e storica sulla religione è se la fede sia una cosa buona. Essa è una forza del bene o del male, del conflitto o della pace, della manipolazione o dell’armonia? E la mia sensazione crescente è che la religione sia tanto buona che cattiva, sia pacifica che violenta, contributo all’armonia e alla divisione. Il mio sottrarmi dalla religione non è stato immediato ma riluttante, l’ho fatto non perché rifiutassi il fascino della sua storia, ma perché non credevo più nella sua veridicità; in molti modi, sono contento che non abbiamo più bisogno di Dio.” se lo dice lui. Poi cita le spallate di Nietzsche al Cristianesimo, senza comprendere che la supposta morte del Creatore ha diversi autori ed è iniziata circa cinque secoli prima, col dipinto del cadavere di Cristo di Hans Holbein il giovane. Il campione di ping pong conclude così: “Sorridendo, mio nonno diceva: “…verrai in un luogo dove non ci sarà più morte, né lutto né pianto, né dolore” citando il passaggio dal Libro dell’Apocalisse. Guardando attraverso l’Occidente, rimane una domanda intrigante: cosa sostituirà Dio?”
Si ignora se Sye conosca il Libretto della vita perfetta di Anonimo Francofortese in cui per essere creatura di Dio occorre prima “patirlo”, poi fortemente volerlo, senza domandarsi se ci sarà un conforto finale. Le risposte giuste alla domanda del giornalista le fornisce Tripadvisor, a proposito della chiesa sconsacrata di San Mark a Mayfair, (fermata del tube Bond street, per chi volesse inorridire, ingozzandosi.) Al Market St. Mark’s Church pare si tengano anche corsi di yoga. 

I commenti su cibo e luogo

Vicknico novembre 2022: “Ambiente fantastico dove fermarsi per pranzo/cena o anche solo uno spuntino. La chiesa sconsacrata è originale e bellissima, l’offerta culinaria variegata ed i prezzi davvero ragionevoli, considerando che ci troviamo in una delle zone più esclusive di Londra. Nota di merito per i ragazzi toscani con il “banco” di pasta fresca vicino all’altare…una delle carbonare più buone che abbia mai mangiato. Andate a trovarli!”

Luca Mencarelli ottobre 2022: “A Londra una Birra in “Chiesa”, un’esperienza incredibile da fare, all’interno di una Chiesa sconsacrata troverete più ristoranti che offrono prelibatezze di vari paesi e se proprio siete indecisi o non avete fame potete bervi una Birra che potrete acquistare in fondo alla “Chiesa” dove siamo abituati a sentire recitare il sermone domenicale. Da provare. Anche il quartiere per arrivarci è molto carino e pieno di negozi”

Luca T Pisa, ottobre 2022: “Sviluppato su due piani offre Street food in una chiesa sconsacrata, molta varietà e qualità buona sia per un pasto low cost che per una cena più raffinata. Abbiamo optato al piano superiore per cruditè e branzino alla griglia, buono e prezzi nella media del quartiere e come altri Street food.”

Pretty Vale, a setttembre 2022, da Imola: “Bellissimo. Assolutamente da vedere e se avete fame per fermarvi a mangiare. Noi abbiamo optato per la pizza napoletana e devo dire che era davvero quella originale Il posto è qualcosa di unico nel suo genere. Ci sono tanti “stand” all’interno per mangiare: dal dolce al salato, dall’insalata alla pizza, dalla pasta alla carne…”

Penso che basti. Ma proprio nessuno si accorge che c’è qualcosa di profondamente triste e “stonato” oltreché avvilente nei commenti su come mangi bene in quel luogo?
Ti rivolgo una domanda: tu andresti a riempirti le budella in un luogo in cui un tempo saziavi l’anima? Pizza e branzino al posto di Dio e nemmeno un Amen.”

memorie-polemica-indagine
raccolte in un volume:

Garibaldi, gran biscotto -terza parte-

Portrait of Giueseppe Garibaldi engraved by W Holl (around 1880).Now in the public domain

Una figura al cui valore indiscusso andrebbero tuttavia aggiunte alcune note, non per sminuirne la valenza storico politica, ma per onorare l’obiettività dei fatti, al di fuori delle consacrazioni di rito. La necessità di creare figure di specchiato e immacolato valore è una pratica ricorrente della storiografia ufficiale. Ma l’obiettività storica è una virtù ardua da raggiungere. C’è chi lo denigra apertamente e chi consacra la figura. Del resto, a stringere la mano al Re Vittorio Emanuele II a Teano, c’era lui, il grande Giuseppe, come a sancire a futura memoria una consacrazione di inequivocabile rilievo politico, un gesto che non può essere ignorato. Ma anche in questo caso bisognerebbe leggere il contesto in cui avviene l’incontro. Il contributo di Maurizio Degl’Innocenti, autore di un libro dedicato proprio a Garibaldi è notevole: “Al di là del mistero che certamente avvolge il percorso che porta alla santità o all’oblio, c’è la presenza di un uomo dalle doti rare, protagonista di fatti ed eventi eccezionali, dal coraggio inossidabile, e dal grande fascino che ha affrontato con slancio, privazioni e dolore. In questo complesso percorso della nascita dei miti, realtà, cronaca e deformazione dei fatti si intrecciano, e attori e spettatori, come nel teatro, sono reciprocamente attivi”.

E torniamo ai Brits e alle loro mene: chi pensi che abbia finanziato la spedizione dei Mille, affittando una nave, comprando fucili, cibo, vestiario e munizioni? Proprio i Brits. Secondo i documenti in mano a Aldo Mola, apprezzato studioso e storico della Massoneria. Gian Maria De Francesco su Il Giornale, 4 Luglio 2009  titola: “Un finanziamento della massoneria britannica dietro l’avventura dei Mille”.

Nel testo dell’articolo: “Nel corso della commemorazione del «fratello» Garibaldi lo storico Aldo Mola rivela il dettaglio inedito. Tre milioni di franchi donati dalla massoneria inglese consentirono l’acquisto dei fucili di precisione a Quarto. L’appoggio non fu solo economico: il mito dell’«eroe dei due mondi», già in essere, fu alimentato per screditare il Papato. Tutta la spedizione garibaldina, ha aggiunto il professor Mola, «fu monitorata dalla massoneria britannica che aveva l’obiettivo storico di eliminare il potere temporale dei Papi ed anche gli Stati Uniti, che non avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno». Torniamo alla sua visita in Gran Bretagna. Mirtide Gavelli, storica e curatrice del Museo civico del Risorgimento di Bologna: “Nell’aprile del 1864 Garibaldi visitò l’Inghilterra accolto trionfalmente da milioni di inglesi, di tutte le classi sociali, desiderosi di vedere con i propri occhi l’eroe della Spedizione dei Mille. Un viaggio trionfale rimasto nell’immaginario popolare, anche grazie ai biscotti a lui dedicati!”.

Nell’occasione della visita fu infatti creato da un fornaio pasticcere il “biscotto Garibaldi”,  in onore dell’eroe dei due mondi, oltre a una valanga impressionante di gadget comprendente pipe, ricami, gioielli e bigiotteria, insomma un vero Garibaldi business. Pare che intraprendenti housekeepers vendessero bottiglie d’acqua in cui si era lavato la faccia il nostro eroe, fandonie? Può darsi. Anche se ogni città italiana di una certa rilevanza gli ha intitolato una strada, il genuino entusiasmo riservato dagli Inglesi al nostro rimane insuperato e onora il popolo britannico. Un mito tutto italiano glorificato dal business dei Garibaldi biscuits. 

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raccolte in un volume:

Garibaldi, gran biscotto -seconda parte-

Giuseppe Garibaldi enters Messina, 1860.
Popular print, Italy, approx. 1860.
(Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

E poi qualcuno dice: anche negriero. Eroe per molti, negriero senza scrupoli per altri. Guerrigliero al servizio di una nobile causa (quella italiana era soltanto l’ultima di un lungo elenco in ordine di tempo) e profittatore pagato dalla Massoneria inglese. Se dai un’occhiata al web non ti raccapezzi, chi lo odia e chi lo ama in maggioranza). E gli Inglesi lo amarono senza freno. Detto per inciso ai Brits interessavano le miniere siciliane e auspicavano un’Italia un po’ più unita di quello che era, non perché ci amassero, ma per contenere le mire francesi. (l’Inghilterra, maestra di intrighi e fomentatrice di contrasti da secoli per assecondare i suoi business planetari, in queste faccende la sa lunga, ma infatuazione e amore per il gran Giuseppe erano genuini, anche se qualche maligno suggerisce fossero interessati). 
Perché portava i capelli lunghi? Perché dicono che una ragazza gli avesse rovinato un orecchio durante un tentativo di violenza. Vero? Falso? E il massacro di
Bronte? Cos’era successo? Mentre i colpevoli se la davano a gambe vennero uccisi contadini innocenti e il matto del paese dopo un frettoloso processo, voluto dal luogotenente braccio destro di Garibaldi, Nino Bixio. È tutt’ora avvolta nel mito e nella leggenda la figura di Giuseppe Garibaldi, uno degli artefici indiscussi della riunificazione dell’Italia. Eroe dei due mondi, osannato corsaro in Sudamerica, difensore degli oppressi, guerrigliero, rivoluzionario a tutto tondo e massone di rango. Una figura complessa, generosa, mitizzata dai libri di storia che necessitano di figure a tutto tondo.

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Garibaldi, gran biscotto -prima parte-

Il tifo degli inglesi per il gran Giuseppe, il quale definiva papa Pio IX un metro cubo di le..me e’ arcinoto. Sarà per questo che gli Inglesi lo amavano. Dalle duchesse alle sguattere, dai politici di rango agli operai: tutti impazzirono per lui. Era il  1864 e Garibaldi arrivò in Inghilterra ricevendo una delirante accoglienza. Gli onori che gli furono resi rasentarono l’inimmaginabile. Dall’archivio de The Guardian: “Il generale Garibaldi a Londra, 16 aprile 1864. Un gran numero di poliziotti respinse la folla come meglio poté; ma di nuovo si levò il grido: “Garibaldi for ever!! Giovedì sera, il generale cenò con il duca e la duchessa di Sutherland e un gruppo selezionato di familiari, tra cui il conte di Carlisle (che era appena arrivato da Dublino), e alle otto, accompagnato dal duca di Sutherland, si recò alla Royal Italian Opera House, per assistere alla rappresentazione delle opere di Norma e Masaniello”. Le numerose donne presenti erano ancor più desiderose dei compagni maschi di raggiungere Garibaldi e, se non potevano stringergli la mano, almeno volevano toccare il mantello grigio che indossava.”

Gli Inglesi salutavano il mito, l’uomo semplice e rustico, l’eroico vincitore di infinite battaglie, (e l’intrepido che aveva tentato di abbattere il papato, su loro suggerimento.) Per il suo arrivo a Londra, fu deviato un piroscafo per condurlo da Caprera a Southampton. Venne poi allestito un treno speciale, ricoperto dal tricolore che lo condusse in città in 6 ore. A Londra lo attendevano 500 mila persone (dati ufficiali per difetto forniti dalla polizia) e il Primo Ministro Lord Palmerston col quale cenò. Poi partecipò alle riunioni di associazioni di proletari e massoni. Una vera star, protagonista di eventi quasi sempre vittoriosi. 

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ti ricordi di Matt?-seconda parte-

«Volevo solo mostrare chi sono come persona -ha detto Hancock-e pare che ci sia riuscito-…ha infatti trovato schiere di fan tra i giovanissimi, che seguivano le sue gesta rilanciate via Instagram e TikTok. Lucrerà sulla sua nuova fama grazie a libri e tv, dimostrando che la politica è come un reality show.” E viceversa. Ovvero l’osceno cosmico espresso all’ennesima potenza.
Tom Ambrose su The Guardian 27-01-2023: Matt Hancock dona solo il 3% di I’m a Celebrity fee. L’ex ministro ha ricevuto £320.000 per il suo periodo nel reality show, di cui £10.000 finora sono andati in beneficenza. Ha anche ricevuto £ 48.000 per il suo libro Pandemic Diaries. Un portavoce di Hancock ha dichiarato a BBC News: “Oltre ad aumentare il profilo della sua campagna sulla dislessia di fronte a 11 milioni di telespettatori, Matt ha donato 10.000 sterline all’ospizio di St Nicholas nel Suffolk e alla British Dyslexia Association”. The Guardian 14-12-2022 Matt Hancock’s Pandemic Diaries, riassunto da John Crace: “Tutti chiamano per dire quanto sono meraviglioso. Rispondo che lo so. Ora siamo in isolamento. Non c’è nessuno in giro per strada tranne me. Non che io voglia alcun riconoscimento. Sia io che Boris abbiamo il virus, anche se il capo è molto più malato di me. Mi guardo allo specchio e indosso la mia cravatta rosa fortunata per la conferenza quotidiana a Downing Street.

Ad un certo punto sembra che io abbia infranto le regole sbaciucchiando Gina. Mi sono innamorato. Profondamente. “Mi completi” le dico. “Sei la mia roccia, ragazzone”, dice lei. Il mio cuore salta. Mangerei il pene di un cammello per lei. Siamo d’accordo che devo dimettermi. Ma vado a testa alta. Avendo fatto la scelta giusta. Se ho un punto debole? è il mio pudore.”
La strepitosa notizia è del 3-03-2023. Su tutti i media si legge: “Un caso eccezionale coinvolge l’ex ministro della Salute, Matt Hancock. Isabel Oakeshott, la giornalista che ha scritto la sua biografia, ha consegnato 100mila Whatsapp del ministro al Telegraph: così negli UK stanno leggendo le conversazioni private dell’intero governo, incluso Boris Johnson, durante l’emergenza Covid e i lockdown.” Le rivelazioni sono un terremoto. Hancock sta pensando di tornare in politica. Ma non adesso, visto che infieriscono i Labours.

E nemmeno dopo, visto che i Tories hanno perso la bussola, su una zattera nel mare in tempesta. governata da tale Badenoch. Come si evince dalle pagine di Spectator.

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Ti ricordi di Matt?-prima parte-

Quello del frullato di vermi sull’isola dei famosi. Il giuggiolone incastrato da una telecamera mentre indugiava in dolci effusioni con la sua fidanzata. Ex ministro della sanità inglese durante Covid- Matt Hancock, proprio lui, protagonista di un reality, per dimostrare al mondo di che tempra fosse fatto. Regno Unito, l’incredibile caduta di Matt Hancock: da ministro-star a mangiatore di genitali di canguro

L’Osceno Cosmico possiede diverse declinazioni. Esse definiscono una fenomenologia diffusa, che gode del favore crescente del pubblico, il quale ama sensazioni forti, procurate da prodi alla gogna volontaria. Bisce, ragni, insetti, rane e lombrichi bricconi se la godono sulla testa di eroi malcapitati. Il tutto all’insegna della schifezza per il sollazzo di milioni di palati facili. A chi tocca? A un personaggio singolare e pervicace.
La storia dall’inizio: Reuters 24-03-2020: “Lockdown measures set out by the British government are rules, not advice, and will be enforced, health minister Matt Hancock said.” Reporting by Alistair Smout, Writing by Kylie MacLellan. Reuters 20-12-2020, Elizabeth Piper: “Il governo è stato criticato per aver imposto un blocco effettivo a più di 16 milioni di persone pochi giorni prima delle feste, ma Matt Hancock ha affermato che era indispensabile.”

L’idea di lockdown totale spaventava per paura di danneggiare il business. In un ex parcheggio di Ruislip si scavano 1600 fosse per i nuovi defunti, vietato partecipare a funerali. Bojo diceva: “Dovremo aspettarci nuove ondate di decessi, ma teniamo duro, rispettiamo le regole,” anche la buonanima della regina era intervenuta: “Stateve bb’uon, o prima o poi passerà.” Da High street Kensington a Piccadilly a Regent street il deserto.
Luigi Ippolito, Corriere della Sera 28-11-2022:
“L’ex ministro della salute Matt Hancock, molto impopolare per aver violato il lockdown da lui stesso imposto, è la nuova star dell’«Isola dei famosi» britannica, «I’m a Celebrity» dice trionfante. L’ex ministro della Salute, dalla polvere della gestione del Covid agli altari de «L’Isola dei famosi» (che a Londra si chiama «Sono una celebrità, tiratemi fuori di qua.»)

Ma la vera tegola era stata uno scandalo pruriginoso: telecamere a circuito chiuso lo sorprendono ricevere l’amante nel suo ufficio, in violazione delle regole sul lockdown (iconico il fermo immagine di lui che strizza, voglioso, il deretano della signora). Ma lui ha trovato una strada per riabilitarsi: un reality televisivo. L’associazione dei parenti delle vittime del Covid aveva protestato anche perché Hancock andava a intascare 400 mila sterline. Sul set in Australia ha trangugiato (previa bollitura e si ignora se conditi) un pene di cammello, un ano di vacca e una vagina di pecora, ha immerso la testa in una vasca con anguille e ragni d’acqua, ha bevuto frullati di vermi. Questo significa essere uomini veri.

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