c’erano le razze?

Ho deciso di utilizzare uno scambio di vedute vivaci tra un “uomo moderno” e me che si trascina da molto sulla diversità degli umani e sulle razze. Unica premessa: baso le mie idee su fatti riscontrabili, incontri in prima persona che nel tempo, stratificandosi, si sono fatti convinzione e su ciò che sostengono studi scientifici, storici e antropologici vecchi e recenti non sprprio concordanti.
Le sue affermazioni contestano le mie e sono certo che egli vorrà spiegare ciò che, talvolta con foga, egli sostiene a spada tratta. In questi casi spesso ci si accalora solo per spirito di polemica. Cosa sostiene l’uomo moderno?

Egli sostiene l’uguaglianza fra le razze umane (e sin qui non ci piove), ma poi va oltre dicendo che esiste una sola razza, quella appunto umana. Che tutti gli uomini sono identici e che la loro apparente diversità è dovuta al 90% a fattori esterni, all’educazione e alle condizioni dell’ambiente. Ma a te sembra plausibile? Le opportunità offerte a ciascuno sarebbero determinanti. Sostiene che l’intelligenza è omogenea, nel senso di uguale per tutti gli esseri (?!) e che, obbedendo al concetto onnicomprensivo di uguaglianza non esiste il tonto o il dotato naturalmente, come natura decreta, il geniale o il meno adatto ad apprendere la fisica delle particelle e che la sua fatica a capire è esclusivamente o prevalentemente condizionata da fattori socio ambientali, salvo quel dieci per cento di cui parla, e che non so a cosa si riferisce, è anche convinto che non esistono propensioni per materie, soggetti di studio, (i test attitudinali per lui non esistono) che indifferentemente possiamo diventare tutto ciò che desideriamo, se fossimo stati sollecitati in modo appropriato. Indica insomma nelle condizioni ambientali e nelle opportunità della società gli unici fattori di condizionamento e crescita dell’individuo causa delle disuguaglianze, che stando a quello che lui sostiene tutti potremmo essere, (ma il fattore genetico ereditario che fine ha fatto?). Einstein o il più esperto cuoco della storia.

Arriva a dire che il ruolo di Marlon Brando nel Giulio Cesare di Mankiewitz potrebbe essere impersonato con uguale veemenza daI primo che passa per strada se solo questi avesse frequentato l’Actor Studio. Ovvero se fosse, come dice lui, io avrei potuto essere come il grande Totò, o Lawrence Olivier nei panni dell’Amleto. Anche il postino o lo spazzino avrebbero potuto interpretare il comandante del Bounty, tanto per capirci, con tutto il rispetto per loro. Tali sono perché non è stato loro offerta sufficienti opportunità. In ultima analisi egli sostiene che siamo tutti uguali e che non esistono esseri più o meno dotati di intelligenza, che non ci sono differenze fra individuo e individuo e che, se ci sono come davvero appare, esse non sono biologiche, ereditarie, intellettive, e che tutti apparteniamo a un’unica razza, quella umana. L’insalata è servita. In poche parole, come dicevano i vetero comunisti un tempo, siamo tutti uguali al punto che, per rispettare questo assioma non esiste più il singolo uomo pensante ma il pensiero collettivo unico, in sostituzione dell’uomo autentico e pensante ecco l’uomo massificato e collettivizzato che non DEVE pensare in autonomia, se no il Comunismo si squaglia, come in effetti si è squagliato. Qualcosa che la loro fallita rivoluzione voleva dimostrare. Ma l’evidenza di queste aberrazioni ha poi detto il contrario, inevitabile. Ricordo confusamente che l’amico Aldo conte di Ricaldone un tempo mi disse che proprio i comunisti russi nella convinzione genuina che tutti gli uomini fossero uguali avevano ideato un esperimento “scolastico” per dimostrare il loro assioma, esperimento fallito miseramente com’era logico prevedere. Perché? Perché nessuno è uguale a un altro, nemmeno se piovessero elefanti. Ora, cosa rispondo io, inorridito, dalle affermazioni di costui? Che non esiste un essere, dico uno (nemmeno fra i gemelli) che possa dirsi uguale ad un altro, forse simili, forse… Che esistono le differenze, causate dall’ambiente e che sono importanti, ma non le uniche e non assolutamente ed esclusivamente determinanti. Che esistono vari gradi di intelligenza, innata, ereditata, che poco hanno a che fare con i condizionamenti dell’ambiente. Che le razze (vorrei sapere chi reputa insultante o avvilente dire che le razze sono diverse una dall’altra, non inferiori, ma diverse! Per attitudine, cultura e tradizioni. Ci andrei molto cauto nel dire che esiste una sola razza, frutto di una insostenibile e fumosa convinzione astratta, visto anche che neri, indiani, pellerossa e sudamericani potrebbero sentirsi (e a ragione) offesi dall’essere equiparati ai bianchi, considerati soprattutto i soprusi e le turpitudini che questi hanno perpetrato fino a ieri nei loro confronti. Ma non divaghiamo.

Non so se siete stati in mezzo ai Turkana o ai Dinka o ai guerrieri Shilluk, come ho fatto io con Paolo Novaresio, (viaggio un po’ diverso dal recarsi a Rimini) o ai pastori afghani o fra i cammellieri di Goulimine, tanto per capirci. Io non mi sento per niente uguale a loro e loro non si sentono uguali a me. Per tradizione, inclinazione, ereditarietà, cultura, condizioni ambientali, sociali e indole. Perché dunque ridurre tutto a un unico broccolo senza sapore di diversità, cos’è che dobbiamo dimostrare o difendere o sostenere? Ci hai mai pensato che dicendo che siamo tutti uguali, che l’intelligenza è uguale per ogni uomo e che esiste solo una razza, milioni di persone potrebbero risentirsi. Meglio? Peggio? Tonto? Genio? Fanno parte del concetto di diversità sancito da evidenze quotidiane e verificabili in ogni momento. Non indifferenziazione fra le razze ma la loro diversità intesa come bene prezioso, come frutto di complessi processi storici e bio evolutivi, escludendo una volta per tutte il concetto nefasto di superiorità di una razza sull’altra, che porta come è accaduto per secoli, allo sfruttamento di beni, genti e territori da parte di chi si sente superiore e oggi invoca democrazia. Al contrario di quanto sostiene l’uomo moderno io affermo che ogni uomo ha le sue inclinazioni, propensioni, preferenze. Non esiste un essere uguale all’altro, che la matematica mi fa venire l’orticaria, perché mi costringe a essere quello che non sarò mai: logico, eppure astratto, e non è certo colpa di traumi infantili o dell’educazione se non so fare due o più due ma di una naturale, profonda, innata avversione per cifre ed equazioni, amando io esclusivamente le lettere. Sostenere che ogni uomo è assolutamente uguale all’altro è un affronto alla sua stessa essenza di uomo, un non senso, in quanto psiche, fisico, spirito, che si basa su fattori ereditari, attitudini, caratteristiche e propensioni a varia intensità, introiettati nel corso dei millenni nello spirito e nel corpo di ogni razza. Non ammetterlo è come dire che la luna è uguale a Saturno è che Saturno è uguale a Giove. Che non occorre scomodare Julius Evola e quello che scrive il filosofo sulla razza. Dico semplicemente, documenti se richiesti alla mano, è un errore scientifico, storico e antropologico sostenere l’uguaglianza fra gli uomini. Se l’uguaglianza deve e può esserci va solo letta e sostenuta nella diversità. Che tutti, quello certo che va sostenuto con forza, devono godere di stessa dignità, di rispetto e attenzione in quanto esseri umani. Tutti uguali? Certamente, ma solo nel rispetto della diversità degli esseri. E se proprio devo dirla tutta: io non mi sento affatto superiore a chi ho visto scaricare balle di cento chili di alghe secche sulla spiaggia di Bali, ma solo diverso e che nel sentirmi diverso non è affatto implicito il concetto di superiore a quei nerboruti facchini fatti d’acciaio. Così come una pescatrice di perle non è affatto simile a una manager della City, ma solo diversa, non migliore o superiore…Il concetto di diversità nell’uguaglianza e nel rispetto della dignità degli esseri a me pare cosa ovvia, così come sono ovvie le differenze psicologiche e attitudinali, indole, inclinazioni, le quali esistono da sempre e fanno dell’umanità un affascinante mosaico, incredibilmente variegato perché non uguale a se stesso. Una materia umana scolpita dal tempo, l’ambiente, il clima, le abitudini…Ma se l’uomo moderno sostiene ancora l’insostenibile non dimostrabile, basato su una uguaglianza astratta e fumosa fra gli uomini e per il timore (lecito) che avvengano ancora soprusi di una razza sull’altra io lo invito a spiegarsi meglio, lui, o i suoi amici, colleghi, datori di lavoro o altri. Do il benvenuto a chi volesse confrontarsi su questo tema. La biodiversità anche umana, ovviamente, è la cifra saliente che natura, evoluzione, lotta per la sopravvivenza e condizioni ambientali che hanno decretato per ognuno di noi. Temere l’evidenza di riscontrabili diversità e attitudini NON LEGATE solo alle condizioni socio ambientali non porta a nulla, anzi confonde le idee. Evviva dunque le diversità, patrimonio inalienabile delle razze umane e non, vero autentico sale della terra (retorica a parte).

Nostra sorella Wikipedia riporta sull’intelligenza: “Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), alcuni identificano l’intelligenza (in questo caso l’intelligenza pratica) come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti; nel caso dell’uomo e degli animali, l’intelligenza pare inoltre identificabile anche come il complesso di tutte quelle facoltà di tipo cognitivo o emotivo che concorrono o concorrerebbero a tale capacità. Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.

E sulla razza: “Nel linguaggio comune, la razza identifica l’appartenenza degli esseri umani a determinati raggruppamenti in base ai loro tratti fisici, alla discendenza, alla genetica, o alle relazioni tra tali caratteristiche. È comunemente accettato che le categorie razziali siano dei costrutti sociali di uso comune pur non risultando concettualmente corrette e che dunque i gruppi razziali non possano essere definiti biologicamente. Alcuni studiosi suggeriscono che le categorie razziali possano essere comunque collegate ai tratti biologici (fenotipi) e a certi marcatori genetici che si trovano con una certa frequenza in talune popolazioni umane, alcuni dei quali corrispondono più o meno a gruppi razziali, ma sotto tale aspetto non vi è consenso universale sull’uso e la validità delle categorie razziali.

Mia la foto del signore con la lancia in mano, scattata in Sudan.

Sotto il segno di Urania

Ci sono opere delle quali si apprezzano anche i punti e le virgole, è il caso de Sotto il segno di Urania  (per una storia dell’immaginario italiano), recita il sottotitolo, di Gianfranco de Turris. Il volume è stato appena pubblicato da Oaks editrice. L’opera sfugge a ogni seppur volenterosa classificazione, se mai ci fosse bisogno di inquadrarla in un genere letterario. Si legge come un romanzo, ma romanzo non è, e neppure saggio o antologia, quello che sicuramente fa è fornire gli strumenti a chi intenda inoltrarsi nell’intricato dedalo della genesi della fantascienza italiana. Sotto il segno di Urania  riserva sorprese a non finire, appassiona e intriga, attraverso la formidabile messe di nomi, date, riferimenti storici, sociali, politici e culturali. La sua equilibrata prosa trascina comunque spingendo a leggere ancora e ancora, fino all’appendice, anch’essa di rilievo. L’opera soddisfa gli appetiti degli appassionati di fantascienza e non. I primi scopriranno la ricchezza racchiusa in una miniera di informazioni e dati tutti godibili, i secondi saranno tentati di sondare l’universo fantastico italiano dischiuso dall’opera. Basta lasciarsi trasportare dal racconto (forse abbiamo trovato il termine appropriato) da rimandi, annotazioni e confronti per scoprire una verità parallela e affascinante. Sotto il segno di Urania suscita anche interrogativi: la davvero impressionante marea di titoli, autori, editori che si sono cimentati nell’offrire supporto e nutrimento alla nascita e al prodigioso sviluppo del fantastico italiano, conduce a un dubbio: e se la vera realtà, la più autentica, genuina e spontanea non fosse quella quotidiana, ma quella descritta nelle opere? onirica e imaginifica, grottesca e formidabile, spesso eccessiva e sbalorditiva proprio come il pensiero dei suoi creatori? La vera vita, insomma, sarebbe quella immaginata/immaginaria, col corredo dei suoi ambienti e invenzioni fantastiche, riedificata infine dalla Fantascienza. Ovvero la dimensione virtuale onirica che diventa autentica vita, in sostituzione di quella assai più piatta del quotidiano. Essa realizza il pensiero senza limite, dando corpo all’incubo o al sogno di un mondo migliore. 
Sarebbe poi eresia includere negli autori del fantastico quello più spettacolare e grande del mondo, interprete del fantastico allegorico teologico, ma sì, l’insuperato Dante Alighieri? A mio avviso scrittore fantastico per eccellenza. Una cosa appare fuori di dubbio: il termine “fantascienza” con la sua osmotica natura e le innumerevoli sfumature e contaminazioni appare sfuggente, pregnante, penetrabile al massimo grado; indica una morfologia concettuale e creativa vastissima e Gianfranco de Turris in questa opera, ce ne fornisce ampia dimostrazione. Qui di seguito alcuni suoi interventi più significativi: 

Pag. 144 “(…) La parabola di Luigi Capuana sembra quasi quella di Sir Arthur Conan Doyle che passò dal razionalismo assoluto di uno Sherlock Holmes allo spiritismo di cui divenne famoso sostenitore e divulgatore. Un aspetto dello scrittore siciliano che è come una filigrana sottotraccia della sua sterminata narrativa e che sarebbe il caso di riscoprire e studiare finalmente e in modo organico per fargli assumere il posto che gli compete alle origini del fantastico e della fantascienza italiani…”


Pag. 160: “(…) Verne e Salgari sono
riusciti a ben individuare quali sarebbero stati i lati negativi, gli errori del “mondo moderno”, del brave new world: il progresso vertiginoso che immaginavano ai loro tempi non avrebbe portato soltanto benefici materiali, ma anche effetti nefasti sull’umanità che non sarebbero riusciti a ripagare del tutto il benessere fisico. È una critica, anche abbastanza esplicita, a quella che oggi viene definita l’“americanizzazione del mondo”, non tanto in termini di super tecnologia alla portata di tutti, quanto di come l’American way of life ha profondamente modificato il nostro modo di vivere e di essere, quindi la nostra mentalità: ricerca disperata della prosperity a ogni costo, efficientismo, velocità, spasmodico arrivismo, commercializzazione di tutto (compresa l’istruzione e la cultura), ogni cosa ridotta a merce, declassamento dell’umanesimo, trionfo dello scientismo, dittatura delle banche e della finanza. È lo Specchio Oscuro della Modernità in cui noi oggi ci riflettiamo. Basti osservare l’umanità odierna che in tutto il mondo cammina, mangia, conversa, lavora, gioca con in mano cellulare e smartphone che guarda o maneggia incessantemente, always connected con tutto il mondo...Quello di Verne e Salgari era un mettere in guardia i contemporanei nei confronti di un futuro negativo che non volevano si realizzasse. Hanno fallito, non ci sono riusciti, si deve dire, ma così hanno scritto entrambi delle vere, piccole distopie anticipandone i dettami concettuali: società che paventavano e che noi viviamo in pieno sulla nostra pelle…”

Pag. 199: “ (…) L’Italia non ha una “tradizione” fantastica e fantascientifica vasta come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna: il “fantastico” si bloccò con l’Orlando furioso dell’Ariosto, e dal Cinquecento in poi praticamente nulla apparve, imperando l’Umanesimo prima, l’Illuminismo poi (le eccezioni– Carlo Gozzi, ad esempio – confermano la regola). Per di più, il Romanticismo italiano fu essenzialmente “politico” e “civile”, impegnato come fu nelle Guerre d’indipendenza…”

Dalle note dell’autore: “ (…) Uno dei temi che più mi ha interessato nella mia vita di critico e antologista è stato, dal momento in cui ne ho avuto consapevolezza, quello del nostro immaginario, delle origini e dello sviluppo nel corso dei decenni della narrativa fantascientifica, fantastica e orrorifica italiana, e che penso di essere stato uno dei primi, se non forse il primo, a indagare con una certa metodicità, insomma, la cosiddetta “protofantascienza”. 

nelle immagini: la copertina, l’autore Gianfranco de Turris, la città di Antonio Sant’Elia.

c’era l’uomo moderno? (2)

Anche l’uomo che scopre terre misteriose sembra aver fatto il suo tempo, Dopo Specke, Livingston, Carlo Piaggia, il romantico esploratore di fine Ottocento, tanto per capirci, dopo Conrad, Stevenson, London e Melville si torna a giocare in casa, ammirati e abbagliati dalla variegata umanità dipinta da Marcel Proust nei suoi arazzi casalinghi o inquietati dal naturalismo di Zola oppure sconvolti dal nuovo modo di narrare di Louis-Ferdinand Céline. Spetta a lui ricordarci che siamo sull’orlo del baratro e che, parafrasando il titolo di una sua opera, siamo solo all’inizio della notte e non al suo termine. Il viaggio è ancora molto lungo. André Paul Guillaume Gide proporrà una pozione magica per tutti gli uomini, vincendo anche, e con merito, il Nobel; il suo rimedio-diversivo invita ad ascoltare, a gustare, ad abbandonarsi all’abbraccio dei sensi, in grembo alla natura amica, ma è un palliativo, una scorciatoia che non dura. Anche perché, solo dopo qualche decennio, non ci sarà più la natura amica, ma solo natura avvelenata e minacciata. Il sentimento panico affascina nel suo I NUTRIMENTI TERRESTRI e tuttavia non basta, non colma la misura del

vuoto, la voragine che si è creata, la sua medicina è potente ma non cura il male. L’uomo dell’Occidente europeo, ovvero l’uomo ex illuminista, ex romantico, ex decadente, ex nichilista, ex esistenzialista ed ex rivoluzionario è rimasto nudo, e non sa uscire dai metaforici bidoni della spazzatura di Thomas Beckett. I motivi con cui nutrire progetti di futuro latitano. Il Dio tradito e rinnegato che tace sulla sua croce, nel suo ostinato silenzio non ha più voglia di rivelarsi all’uomo che lo respinge ormai da un paio di secoli, se ne sta in attesa e non ha ancora impugnato la frusta…ma la impugnerà mai la frusta? L’uomo dell’occidente vive anche sull’altra sponda dell’oceano. Affolla le opere di Erskine Caldwell, John Ernst Steinbeck Jr. William Cuthbert Faulkner, Nathanel West, Ernest Hemingway e Stephen Crane. Sulla sponda americana si parla un’altra lingua, si nutrono sogni di riscatto e di uguaglianza, almeno sulla carta. Da quelle parti l’uomo inconsapevole di sé, troncate le radici, riparte da zero, perché un altro tipo di seme è stato gettato, attecchendo. Fuggire la vecchia terra corrotta e compromessa, d’origine che non sa rigenerarsi e impalmare la terra vergine d’oltreoceano (senza pagarne l’affitto, tanto c’erano solo

pellerossa.) Ma chi c’è adesso sull’altra sponda dell’oceano? I nuovi protagonisti, le facce nuove, ovvero i personaggi delle opere degli scrittori di cui sopra, che, balza subito all’occhio, risultano essere creature parziali, immature, spaesate, se non proprio tutte squilibrate. Basti pensare a quel film simbolo GLI SPOSTATI del marito di Marylin, Arthur Miller, (e siamo già nel 1961!) pellicola diretta da John Huston con Marylin Monroe, Clarke Gable e Motgomery Clift e a UOMINI E TOPI. Il popolo bambino ospita personaggi ibridi, insicuri, smarriti, precari e disadattati, forse ne IL GIORNO DELLA LOCUSTA tocchiamo il punto più basso e significativo (stiamo parlando dei tipi umani che Henry Miller incontrerà nel suo IL TROPICO DEL CAPRICORNO. Mica le invento le cose. Leggi la recensione di liberi di scrivere sul libro di West, che conclude con: Il giorno della locusta è un libro complesso, e seppure breve, molti temi sono trattati, altri solo sfiorati o sottintesi. C’è un mondo travolto dalla povertà che la Grande Depressione ha portato in America, molti vanno in California a morire, un mondo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, in cui la violenza, che West profeticamente solo intuisce, si manifesterà in tutto il suo potere distruttivo.
Il messaggio è chiaro: il sogno americano è una sordida menzogna per addomesticare le folle e Hollywood è il simulacro imbiancato di questo tragico inganno.

Personaggi nuovi che si agitano in UOMINI E TOPI, LA VIA DEL TABACCO, IL GIORNO DELLA LOCUSTA, IL GIOVANE HOLDEN. L’uomo moderno fuggito sull’altra sponda dell’oceano, spinto da motivi “nobili” in realtà cerca nuova terra gratis e nuovi spazi per erigere torri e opifici che conquisteranno il mondo. Roba vecchia e risaputa. Per farlo, ebbro di whisky e di conquista, ha trascinato la sua sposa gravida fra mille pericoli e insidie. Se leggi LA GRANDE FORESTA di William Faulkner qualcuno ne parla in questi termini e te lo comprendi perfettamente. L’uomo nuovo scarta i vecchi criteri dell’Europa corrotta e incapace di rigenerarsi. Il prezzo si chiama: abbandono del Passato, il premio: creazione di una “nuova civiltà ” surrogata abitata da uomini automi.

Arte, filosofia, storia, cultura europea di qualche millenio alle spalle si sono ridotti a concime per le future generazioni. August Rodin ha realizzato la sua famosissima statuta, Il pensatore, ma gli ha attibuito troppa dignità, troppa seriosa coscienza e profondità nell’atteggiamento di colui che medita. Si tratta di un inganno. Non c’è nulla su cui meditare. Non è così l’uomo moderno. Figli e nipoti di August Strindberg e di UOMINI E TOPI e de LA VIA DEL TABACCO si mescolano a noi. E chi parla e vaneggia, come ogni tanto sento dire in giro, di nuovo Umanesimo e di uomo nuovo alle porte, non sa neppure di cosa stia parlndo e di quanto la sua idea risulti fuori strada e lontana dal vero. Assomiglia a uno sfogo, il mio, ma non lo è. E intanto c’è ancora il virus che non demorde complicando non poco le cose.

c’era l’uomo moderno? (1)

Se te vuoi sapere che fine ha fatto l’uomo moderno, quello che si affaccia al nuovo millenio, tanto per capirci, devi cercare in due direzioni. Verso quella occidentale europea, dove proprio in questo istante ci si chiede: adesso come la mettiamo? Ovvero rileggere VERSO DAMASCO di August Strindberg, dove l’uomo non sa, non decide, non ricorda, assiste al baratro entro cui si agita innegabilmente ogni rapporto precedente infranto. Il protagonista non sa, non ricorda, non decide, rinnega moglie, figlia (dalla quale verrà umiliato e deriso) , e poi tradizione, genitori, religione e futuro. Lo scrittore, protagonista di VERSO DAMASCO è uno che, letteralmente, ha perso la bussola, che si agita in un universo cimiteriale di simboli infranti, di certezze dismesse, soffoca in un ciarpame di valori che non dettano più regole ne’ comportamenti. Scrive l’editore ADELPHI al proposito: Le astrazioni più rarefatte e la più greve fanghiglia autobiografica tendono continuamente a mescolarsi: dietro trasparenti schermi allegorici è facile riconoscere in vari personaggi di Verso Damasco figure decisive per la vita di Strindberg, quali per esempio le due mogli abbandonate e, in altri, altrettanti Doppi dell’autore stesso, carichi tutti di quelle tensioni feroci, di quei rancori e livori che per la prima volta con lui apparivano bruscamente sulla scena. Il rapporto dilaniante con la donna, le oscillazioni fra la blasfemia e la fede, il sogno demiurgico dell’alchimista, la lotta accanita contro le Potenze e la loro persecuzione – Torniamo a noi. L’uomo in divenire risulta assente. Manca all’appello. Nascono Freud il quale si affannerà a frugare nell’inconscio, e LA COSCIENZA DI ZENO e IL GIOVANE TORLESS di Robert Musil, l’anticipatore di uomini deviati. Ovvero l’uomo dimissionario, l’antieroe, svuotato di ogni certezza, vittima di se stesso e di un vuoto interiore esteriore annichilente. È successo tutto in cinquant’anni, almeno per l’occidente europeo. Baudelaire blandisce e coltiva la malinconia, Leopardi, in anticipo sui tempi, si era smarrito davanti all’infinito e Foscolo ci diceva: vagar mi fai coi miei pensieri sull’orme che vanno al nulla eterno. Ma il deserto di Strindberg assume toni apocalittici, totalizzanti. Tornando al Leopardi, assalito da sovrumani silenzi e da mi sovvien l’eterno, già, mi chiedo, ma quale eterno?

Quello di Dio no, dal quale l’uomo sta prendendo le distanze. Cosa dice l’uomo medievale di stupefacente modernità? Impersonato dal cavaliere crociato che gioca a scacchi con la morte, di Ingmar Bergman nel suo SETTIMO SIGILLO, Due svedesi ce la dicono tutta sugli smarrimenti umani, che evidentemente non hanno mai fine. Sull’essere e il suo divenire. L’uomo moderno che avverte la prossimità di un futuro solerte e spaventosamente ignoto e che induce a pensare il giovane Torless mentre pensa di essere “perfettamente solo sotto quella volta immobile e muta, un punto minucolo e vivo, sotto un immenso cadavere trasparente”. Ma è solo un ragazzo chiuso in un collegio! L’uomo a cavallo fra Ottocento e Novecento è una creatura smarrita e confusa, oppresso da dilemmi pesanti come macigni. Mi viene in mente la tremenda utopia del figlio di una coppia di anziani genitori che lo piangeranno sulla sua tomba. «Un nichilista è un uomo che non si inchina dinnanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato.» Dritto dritto verso: l’insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno, oltre che sulla «solitudine di fronte alla morte» in un mondo che è diventato completamente estraneo oppure ostile. L’esistenzialismo in tavola. Siamo già da venti anni nel nuovo millenio. Intanto il mondo va a fuoco due volte. Il gran Gabriele trionfa, si erge e cade, potevamo diventare come lui, come

Nietzsche o come Julius Evola: ultrauomini, ma qualcosa è andato storto e allora ecco il cavaliere crociato di Bergman che chiede: Dio, perché te ne stai zitto?! E quella figlia di buona donna della morte che gli risponde: Ma non ti basta il suo silenzio? No, non basta, ci vuole l’uomo nuovo ma questi latita. E sicuramente i due vecchi nei bidoni della spazzatura di FINALE DI PARTITA di Samuel Beckett non possono essere più eloquenti di come sono e nemmeno i personaggi dell’Ulisse di James Augustine Aloysius Joyce che, sotto certo aspetti, sono dei romantici decadenti nullafacenti, al termine del percorso, ai quali piacciono fegatini, salsicce, rognone e un po’ di sesso per tenere lo spirito e lo stomaco occupati.

Dopo gli spuntini consumati nell’Ulisse di Joyce e dopo la dannazione cosmica e senza alcuna speranza di FINALE DI PARTITA mi è venuta una gran fame, occorrerà un altro post per riprendere l’argomento. A dopo.