parlava la radio?

Ti ricordi della radio? Di quella scatola parlante, gracchiante, sonante, sibilante, recitante? E di quando tua madre alzava il volume, nettandosi prima le mani sul grembiule per non sporcarla? Era per non ungere la manopola, quando preparava il ragú la domenica mattina. Quella scatola accorciava le distanze, ti faceva ridere con le battute di Paolo Stoppa e Rina Morelli, ti riempiva d’immenso con la voce mitica di Caruso che si espandeva in salotto. Era oggetto prezioso, feticcio, monumento simbolico casalingo, ma di enorme portata storico sociale, sintomo di galoppanti sconvolgimenti. Dopo millenni di abissali silenzi, il mondo cominciò a parlare. E tu incominciasti ad ascoltare. Non più la carta e la penna ma la perpendicolarità di onde elettriche e magnetiche. Rappresentava una delle parti migliori di te, delle tue abitudini correnti, le tue fantasie, una propaggine dei tuoi sogni, desideri e delle preferenze espresse dalla scelta dei programmi. A decenni di distanza mai l’avresti immaginato.

C’è ancora, anche se ha abbassato il volume. Bastava girare la manopola o schiacciare il bottone e subito ti proclamavi studente, all’ascolto di un armata di insoliti professori. Cercare la frequenza giusta non era così immediato. Radiogiornali, previsioni del tempo, qualche raro dibattito, e tanta musica nostrana. Quella “straniera” l’avrebbe sdoganata nel 1967 Gianni Boncompagni col suo Bandiera Gialla. Quando eri triste, stanco, allegro o annoiato, oppure irritato o semplicemente in attesa della tua fidanzata, Ci pensava la radio a rettificare, a far più bella e sopportabile o desiderabile la tua giornata, l’ascoltavi in poltrona, sfogliando vecchi giornali, o, a occhi chiusi, poco importa, era sempre al tuo fianco. La tua fantasia dipingeva volti, ambienti, situazioni, mentre la radio di forniva la tela. Ascoltavi Iginio Bonazzi in ANIMA SOLA e la sua portentosa timbrica che ti faceva vibrare lo stomaco come la pelle di un tamburo o commuovere all’occorrenza. Come hai fatto a dimenticarti di Gualtiero Rizzi e dei suoi imperdibili radiodrammi, come L’UOMO DELLA LUCE ? E poi la radio “fisica”, costantemente rinnovato, l’oggetto che trasmetteva parole, musica e, con esse, sensazioni, emozioni, inviti ad approfondire e a capire. Simbolo di un’epoca e del volgere al termine di un’altra, dilagava. Dai radio grammofoni, ai mastodontici apparecchi troneggianti sui mobili della cucina. Radio per tutti i gusti e le borse, rustiche, eleganti, minimaliste, insostituibili, per tenerti compagnia mentre

aspettavi i ragazzi di ritorno dalla scuola o “lui” che rientrava stanco da lavoro. Radio di legno e stoffa, metallo e plastica, senza fili, con le batterie, portatili, con l’antenna telescopica regolabile per captare meglio Radio Molucche international, a doppio altoparlante per i truzzi in trasferta che se le caricavano in groppa e, a tutto volume, inquinavano i pomeriggi di domenica. Radio ricetrasmittenti o col lettore CD incorporato.
Gracchianti radioline formato saponetta, tascabili e fuori moda anche loro, introvabili radio d’epoca, stilose, e sofisticate riceventi due milioni di canali per sintonizzarti sulle stazioni di Honolulu e Vladivostock, radio per veri intenditori. Oppure radio esangui come ostie, capaci di captare solo l’emittente della tua parrocchia. E poi c’era lui, il cubo Brionvega,

Oggetto di raffinato design e grande funzionalità e potenza, che si apriva come un melone in due metà. La radio, tornando al suo significato di funzione e servizio sociale e di acculturazione delle masse possedeva e possiede tuttora un potenziale enorme, seppure volutamente trascurato: può aiutare a fare cultura. Solletica la tua tanta o poca fantasia. Ti trasporta in giro per il mondo attraverso epoche e personaggi. Suggerendoti soprattutto che in qualsiasi istante puoi approfondire temi e soggetti appena goduti. Gli adattamenti radiofonici ne erano esempio lampante. Più numerosi delle lenticchie a Natale, uno fra i molti: Mercante di Venezia nella magistrale interpretazione del mitico Tino Buazzelli. Nella radio prestavi tu il volto agli attori, sei tu che dipingevi i caratteri, le situazioni, secondo il tuo estro, voglia e attitudine. Ascoltando la radio ne diventavi protagonista, ispirato o semplice spettatore. E oggi? Nel nuovo mondo iper connesso, c’è lo schermo avvelenante. In un attimo sei dentro, devi ubbidire alle sue regole, agli automatismi, per non uscirne più. Sei iper connesso anche senza bisogno. Noi che consideriamo l’obsoleta mail l’ultima frontiera della comunicazione fra umani applaudiamo alla radio. Sangue di troglodita scorre in me, lo ammetto, e una vena di orgoglio malcelato nel non sapere e voler frequentare il mondo della odierna iper comunicazione fra umani mi esclude dal futuro. Ma quanto futuro c’è nel passato? Non ero ancora nato quando Orson Welles faceva venire l’orticaria all’America col suo “The War of the Worlds” radio drama. Era bastata la prima puntata della trasmissione radiofonica a scatenare il panico. Potenza dell’etere. E a scatenare fragorosi dibattiti sul ruolo dei mass media. A noi, che siamo appassionati di letteratura, epica, storia e poesia, teatro e cinema, e che ci piace romperci il capo su testi di ogni sorta, ci piace ricordare un maestro indiscusso dell’etere, il grande Arnoldo Foà che recita il CANTICO DELLE CREATURE. Viva la RADIO, ….di una volta.

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ti addormentavi col Musichiere?

Ti ricordi quando ti trascinavano controvoglia, al bar? Ci andavi di sabato sera, passando nel gran viale dove il profumo dei tigli ti stordiva. Sapevi già di andare incontro al sonno e alla noia. Il Musichiere, presentato da Mario Riva, ti attendeva, implacabile. Si trattava della mondanità casalinga che la tua famiglia si concedeva ad ogni fine settimana.

Erano gli anni Cinquanta e al bar tu eri solito addormentarti, mentre dal tubo catodico partivano lampi intermittenti, che dipingevano sulle facce dei presenti strane maschere; la saletta del bar si riempiva, ma c’era sempre qualche sedia disponibile nell’ultima fila. Era la televisone fruita in “comunità”, nella saletta di un bar e i programmi della RAI, e a una certa ora della notte si interrompevano perché bisognava andare a letto. Altro da vedere non c’era per il resto della serata. La prima TV in bianco e nero era la bacchetta magica, la pietra filosofale, gran Moloch, da non sottovalutare, metteva tutti d’accordo, titolare di “entusiasmanti” sfide mnemoniche o canore. Davanti ai primi presentatori e concorrenti, alcuni dei quali icone TV indimenticabili, come l’estroso dandy prof. Marianini, protagonista indiscusso di Lascia o Raddoppia, autentico pozzo di sapere; incollavi lo sguardo e aprivi la bocca per esclamare che bravo! Ma che antipatico! Ma come fa a sapere tutto?! guarda com’ è vestito! non è andato dal barbiere, ma dal tosacani! Prendevi le parti e facevi il tifo per certi concorrenti. Mario Riva, e poi Mike Bongiorno e Corrado, fino a Pippo Baudo ne presentavano a centinaia. Sfide all’ultimo quiz, all’ultimo secondo, all’ultima lambiccata risposta. L’adrenalina andava a mille. Che peccato! Ha perso! Ma te sapevi la risposta. Scusi lei ma chi l’ha mandata alla nostra trasmissione? Mi ha iscritto mio zio! …Di nascosto. La sai o non la sai la risposta? So più risposte io di quella! Pensavi, sbocconcellando una fetta di ciambella. Simpatico o simpatica ma non all’altezza, fuori uno dentro l’altro. Una razza di presentatori della porta accanto, tutti ciarlieri e “casalinghi” rassicuranti nata dal desiderio dell’Italia che si rifugiava in svaghi innocui per tutte le età e che voleva sentirsi indirizzata nel costume, sulla buona via del Progresso. La TV di stato ti permetteva la vista di certe caste presentatrici, tutte all’acqua e sapone, innocue e anche loro rassicuranti come spose. Per rifarsi la vista si è dovuto aspettare il 1961 con quei pezzi di tonno delle gemelle Kessler, manna per gli occhi e il palato.

La bellezza femminile stava per essere sdoganata anche sul piccolo schermo. Non volgare ma decisamente sexy. Quello che passava il convento cioe la Rai era una serie di varieta per tutti. Occorrevano i loro volti sorridenti dalla faccia ricca di bonomia e di humor innocente. La versione per fanciulli dei paludati quiz per adulti si chiamava Chi sa chi lo sa? ed era condotta dall’inappuntabile Febo Conti, sorridente quanto basta; sbadigliavi anche lì perché tutti quei ragazzi secchioni ti annoiavano. I bambini allo sbaraglio li vedevi senza denti e a calcare il palcoscenico condotti per mano da Cino Tortorella, alias Mago Zurlì, mentre lo Zecchino d’oro imperversava. Nilla Pizzi ce la metteva tutta per rimanere regina della canzone italiana; in compagnia di Claudio Villa, Giacomo Rondinella, Gino Latilla incarnavano la melodia italiana mentre tu crollavi addormentato la testa a metà del Musichiere o di Lascia o Raddoppia. L’Italia che cantava, l’Italia che rispondeva e si appassionava ai quiz sorbendo un punch al mandarino o succhiando un cannolo alla vaniglia e poi applaudiva e poi scommetteva e sempre rispondeva ai quiz, dicendo ma e proprio bravo quello! La penisola veniva catechizzata e istruita a suon di quiz, di informazioni in pillole, contrabbandate per cultura. Cementava il sentimento patriottico, a suon di battute innocue di terz’ordine, siglava l’interesse di una stirpe casalinga di spettatori dal gusto sempliciotto, i quiz impazzavano e rispecchiavano l’Italia alla buona, senza troppe pretese. Il programma teneva incollata una nazione al piccolo schermo. C’era qualche vicino di casa, la droghiera, il signor Dino, orfano fresco della madre, che tentava di socializzare. Riuniti in una saletta del bar appositamente predisposta. Bastava consumare una bibita, un caffè, un cono gelato, o un punch quando faceva freddo. Cominciava verso le nove il tuo tormento. Prima c’erano le signorine Buonasera e gli austeri, ma comunque amichevoli, presentatori con la brillantina che leggevano i telegiornali. Ti ricordi quando il Quartetto Cetra faceva Du du du du, Era qualcosa in più la loro melodia, erano facce serene, rassicuranti, paciose. E di coraggio a quei tempi ce ne voleva, davvero perche la ricostruzione nazionale esigeva sacrifici e cambi di stili di vita che non erano uno scherzo da digerire. La televisione ti aiutava. Il pubblico batteva le mani, mentre le macerie (quelle visibili) erano ancora visibili. Ti ricordi della faccia mansueta del maestro Manzi che insegnava a leggere e scrivere e a fare di conto ai villici illetterati di mezza penisola? Il programma si chiamava: Non è mai troppo tardi. Encomiabile, senza alcuna ironia. Ti inteneriva vedere vecchi contadini del Salento compunti, tenere la penna in mano e scrivere sotto dettatura televisiva. E che dire dei maestosi intervalli e della loro soporifera musichetta in cui suonava un’arpa. Greggi di pecore, gloriose rovine del nostro passato, fermo immagine su specchi lacustri, paesaggi montani, marine. Tutto in bianco e nero e niente affatto nitido. Ti sembrava innocua allora la TV, anch’essa alle prime armi, alla buona, titolare di un’epica faticosa riconquista del nostro ruolo nel mondo. Ti intratteneva, ti faceva sbadigliare, ti dava il lecca lecca, ma lo faceva sottotraccia, quasi timidamente. Proponendo modelli sociali tranquillizzanti, l’onnipresente presidio della Chiesa. Pier Paolo Pasolini ed Enzo Biagi sarebbero apparsi molto tempo dopo. Per decenni eri rimasto in sonno.