L’AGENTE SEGRETO – inedito
Vi dico quello che ho in parte appreso dai media occidentali e cinesi, quindi di pubblico dominio, in parte da alcune testimonianze raccolte in loco. Ma soprattutto in base a una vicenda che mi ha coinvolto e sulla quale posso solo avanzare ipotesi pur essendo stato il suo attore principale. Non mi riferisco a qualche “incidente” simile a quanto rivelato da Le Monde e dalla trasmissione Quotidien, ovvero che due miei ex colleghi e la moglie di uno di essi sono stati sospettati di alto tradimento, avendo trasmesso informazioni secretate a una potenza straniera. Una fonte giudiziaria vicina all’inchiesta avanza più di una ipotesi: la potenza straniera sarebbe la Cina. Un precedente che si è forse ripetuto anche se in circostanze e modalità diverse riguardandomi da vicino?
Mi chiamo Blaise Lagarde. Sono stato un agente speciale del DGSE, la Direction générale de la sécurité extérieure, servizio informazioni all’estero, dipendente dal Ministero della Difesa francese; ho avuto il compito di “documentare” quello che stava accadendo nel laboratorio di Wuhan e che mezzo mondo sospettava. L’ho fatto e con successo, ma le mie riprese fotografiche, che dovevano rimanere top secret, inspiegabilmente sono apparse su Twitter e con mio sommo stupore, su China Daily, riprese com’è ovvio, subito dai media occidentali. Anche se è trascorso molto tempo la mia posizione mi vieta di rivelare particolari; si correrebbe infatti il rischio di compromettere del tutto i rapporti diplomatici tra Francia e Cina, rimasti precari da allora. Su altri fatti che mi hanno successivamente coinvolto e che potrebbero contenere la risposta a tanti perché devo comunque osservare il massimo riserbo.
IL RACCONTO
I laboratori cinesi di Wuhan sono stati il frutto di una travagliata collaborazione franco-cinese nata dall’intesa del 2004 tra Chirac e Hu Jintao. Non è una novità. Ma una volta terminati i lavori, noi francesi siamo stati estromessi dall’attività e da qualsiasi controllo del laboratorio. Diversi in patria l’avevano predetto. Infatti le decine di ricercatori del mio Paese, previsti dall’accordo, non sono nemmeno mai partiti per la Cina e il laboratorio P4 di Wuhan ha iniziato a operare a sua discrezione e in totale autonomia, al di fuori di ogni controllo francese, capitolo previsto inizialmente dall’intesa, e, forse, senza rispettare le scrupolose norme del protocollo per la manipolazione di sostanze estremamente pericolose… “Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica”, ha riportato Le Figaro secondo fonti attendibili. “Le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure analoghe a quelle adottate nei sommergibili nucleari.” Il timore che il laboratorio di Wuhan potesse funzionare al di là di qualsiasi verifica o tutela del mio Paese c’era e così è stato.
“Il coronavirus è un virus manipolato sfuggito accidentalmente ai controlli da un laboratorio cinese di Wuhan, mentre era allo studio un vaccino per l’Aids. La fuga può essere avvenuta negli ultimi tre mesi del 2019.” Lo sosteneva un illustre scienziato, connazionale, Premio Nobel per la medicina. Secondo lo studioso, l’origine dell’epidemia è acclarata e non necessita di ulteriori indagini. In base alla sua opinione non si tratta di dolo, ma di negligenza. Qualcun altro, sull’opposto versante, sostiene tesi diametralmente opposte: “Covid-19 non è nato in Cina”. A dirlo è la direttrice del laboratorio stesso di Wuhan, Wang Yanyi, che respinge categoricamente ogni addebito negando che la struttura di ricerca abbia avuto una qualsiasi responsabilità nella diffusione dell’epidemia. Il China Daily, con mia enorme sorpresa, aveva pubblicato i miei scatti “rubati” dell’interno dell’Institute of Virology di Wuhan, scatenando una polemica colossale, offrendo il fianco a bordate di interrogativi. Nello specifico: immagini di una delle celle frigorifere aperte, contenenti 1500 ceppi di virus diversi, incluso il coronavirus. Che talpe francesi operassero nella redazione del China Daily lo suppongo soltanto. Paradossale che qualcosa di quel genere potesse accadere considerata la posta in gioco. Tuttavia potrebbe trattarsi di una “vendetta” postuma. Ma di chi? Dopo aver documentato ciò che avveniva nel laboratorio di Wuhan sono stato subito arrestato, anche questo è strano. Avevo ritratto la presunta “pistola fumante” ovvero: la porta aperta di una cella frigorifera coi suoi sigilli in evidenza, e poi un’operatrice che regge una serie di fialette contenenti agenti patogeni. Quello che segue è la cronaca fedele di ciò che ho vissuto allora, dopo l’arresto:

More, ancora more! depositate in una scodella di latta e, nella seconda ciotola, dell’acqua. Era tutto ciò che giaceva sul pavimento della cella oltre a me, s’intende. Cibo bizzarro accompagnato da un po’ d’acqua. More! Da quanto tempo ero steso a terra in quello stato?! Mi pareva che fossero trascorsi anni. Come potevo saperlo?! No! mi dicevo, non devo commiserarmi, ma resistere! Dovevano avermi somministrato qualche sostanza stupefacente, avevo perso i sensi subito dopo l’arresto. Ero ancora assai confuso. Mentre l’allucinazione riemergente, impediva ogni ricognizione dell’ambiente e delle circostanze che mi avevano condotto lì, tuttavia, come un cane in procinto di annegare, annaspavo cercando di addentare qualcosa di solido, di aggrapparmi a brandelli di una realtà frantumata e incongrua, da cui fuggivo subito dopo per averne percepito l’insidia. Sperare significava affrettarmi in direzione della fine. Dovevo rinnegare la guerra di parole che agitava la mia mente, resistere alle allucinazioni come quella di avere braccia lunghe come funi. Non osservare, non credere…a nulla! Dormire di un sonno ristoratore! Da tre giorni era quello il desiderio insoddisfatto. Nient’altro nella stanza illuminata giorno e notte dai neon se non le due ciotole e una seggiola che la mia alterazione suggeriva essere d’ausilio per le sedute di tortura condotte dai musi gialli. Da tre giorni il silenzio, l’assenza di ogni manifestazione di vita, c’erano solo le more. Minacciose che mi lasciavano immaginare la mia morte, probabilmente per inedia; avendo smesso di indagare quella stanza che dipingevo ancora più atroce di quello che le letture giovanili di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft suggerivano, non potevo che attendere. Ero assalito, non da orde di topi famelici, né da cadaveri che mi trattenevano per la caviglia, appena fuoriusciti dalla loro tomba, no, niente di tutto questo. La mia era una tortura luminosa, se così posso dire, con amara allusione ai neon sovrastanti, un tormento per ora solo psicologico. Pensavo a certe terrificanti torture cinesi, come quella della goccia che cade sul cranio, sino a perforarlo, anche se io non ero bloccato e non v’era alcun aggeggio sospeso a suggerire l’eventualità. Minacciato da quel “cibo” bizzarro e invitante la cui apparenza innocente ora mi terrorizzava! e che sicuramente i Cinesi avevano provveduto ad avvelenare. Resistere! Alle more appena colte, resistere a una ghiottoneria per molti. Infine resistere a me stesso! E poi, come ho detto, c’era quella luce potente sempre accesa che mi frugava. Quanto tempo ci voleva prima d’impazzire? Le more potevo evitarle, la luce no.
Persi conoscenza. Erano quelli i momenti che i miei carcerieri attendevano per portare nuove more e acqua in cella. Da qualche parte dovevano esserci uno spioncino e un’apertura! ma dove? La mia missione equivaleva a una esercitazione nella mia carriera di agente speciale, troppo facile era stato! Dovevo cercare una prova e l’avevo trovata ma la sensazione di essere stato facilitato proprio dai cinesi ce l’avevo. Perché? Le immagini che avevo catturato prima di sparire dalla rete il giorno dopo, seppi che avevano fatto il giro del mondo. Esse illustravano chiaramente una deficienza nella procedura di manipolazione delle fiale contenenti patogeni, sollevando dubbi sul grado d’isolamento della cella frigorifera stessa. Chi aveva trafugato le mie foto? Io avevo lavorato secondo un piano prestabilito nei dettagli che prevedeva in anticipo la loro pubblicazione a mia insaputa? O che altro? E la talpa cinese a cui dovevo dire grazie che faccia aveva? Per scattare quelle foto c’era bisogno della loro collaborazione, o meglio “disattenzione”. Fai presto, faccio finta di non vederti! Su, spicciati! Svelto! anche se conoscevo a memoria la topografia dei laboratori e l’ubicazione delle celle frigo, contenenti le fiale. Un rovello inestricabile contro cui nulla poteva la mia ragione. Ero io a tremare in tutto il corpo o fosse invece la scodella dell’acqua che le mie labbra tentavano di avvicinare. La scodella tremava. Mentre avvertivo un formicolio al cuoio capelluto e alle caviglie. La porta! Dov’era finita la porta d’ingresso alla cella? O non c’era mai stata!? L’LSD, fa questi “scherzi”. Da dove entravano allora? nemmeno l’ombra di una fessura. Una camera isolata, probabilmente sotterranea, adibita a prigione, in barba al protocollo internazionale sul trattamento dei prigionieri. Mi trovavo in un recesso sotterraneo sigillato dal mistero e dal silenzio da cui non sarei potuto più uscire, uno spazio ellittico dentro cui anche un animo più saldo del mio avrebbe capitolato. Il silenzio sarebbe stato il compagno della mia pazzia. Per quelle maledette foto che avrebbero dovuto servire “solo” come arma di ricatto o di rivalsa, o per rinfocolare dubbi, accuse per la collaborazione franco-cinese andata in malora.
Nel mio corpo febbre e incubo facevano strazio, forse ero stato venduto, o tradito, A ondate i dubbi mi tormentavano, la mia missione aveva uno scopo a me sconosciuto, oppure che altro? Catturato dai cinesi che sapevano in anticipo delle foto? A chi giovava la loro pubblicazione? Era forse una vendetta degli stessi cinesi, e se sì, perché? Stavano complottando per mostrare al mondo le deficienze del laboratorio di Wuhan! Ipotesi che rimava con la follia. Voci…no, mi sbagliavo. Solo rumori prodotti dal silenzio. Così sarei impazzito! A quella galera sotterranea illuminata a giorno ero stato condotto in stato di incoscienza. Assopito, riaprivo gli occhi senza tuttavia riconoscere la veglia dal sogno. Eppure… Ancora Rumori! Fatti da chi sta armeggiando sul mio capo con utensili da scasso. L’inedia cominciava a farmi perdere il senno. Eppure nell’angolo più lontano da me i rumori ora si ripetono, distinti. Un intero pannello della soffittatura il cui perimetro corrisponde a quello della grata di protezione dei neon ora si sta muovendo. La luce ne impediva la vista. Per questo non l’avevo scorto, celato dal controluce. Qualcuno cerca di entrare da lì, ma non ci giurerei. Solo quando scorgo due figure in tuta scendere la scala retrattile che avevano calato sobbalzo, senza riuscire ad alzarmi tanta era la mia debolezza. Mi portano via! Mi uccidono! è finita! rumino. Ebbi la sensazione che la scena avvenisse dentro di me, tra retina e cornea. Sagome oscure che risaltano contro un sipario appena sfiorato da luminescenza. Come chi di colpo passi dal sole all’oscurità trattenendo l’impressione della luce negli occhi. Son dentro di me son bvenuti a uccidermi. Mi sollevano di peso facendomi cenno di tacere. Francesi! Sono salvo.
Se avete letto sin qui avrete notato che la mia storia contiene certe stranezze. La mia camera è la numero 23, numero dispari che non mi piace, sono ricoverato all’ospedale “La Timone” di Marsiglia al reparto psichiatria. Ogni tanto vengono degli uomini, uno di loro è in divisa, mi guardano, senza parlare con me, solo coi dottori. Non riesco a capire dov’è la porta della camera per cui mi dispero non sapendo come uscire di qui. Il mio dottore dice che però sto migliorando e anche che ho una prodigiosa fantasia. Così ha detto: prodigiosa! Volevo dirgli che a me le more mi fanno venire la nausea. Ma non trovo mai l’occasione.