Dovremmo chiedere scusa, o forse no? -prima parte-

I fori delle pallottole sul muro ci sono ancora. 1165 proiettili sparati ad altezza d’uomo. Dieci minuti di fuoco continuo fino ad esaurimento colpi. Quattrocento i morti ufficiali, fra cui numerose donne, vecchi e bambini, milleduecento i feriti; è convinzione diffusa che gli uccisi fossero centinaia di più. “Dovremmo chiedere scusa.” Un poco avvilente che uno solo, lo dica, anche se si tratta del sindaco di Londra, Khan, pachistano di origine, che, armato di buona volontà, si reca sul luogo dell’eccidio dicendo “Sorry.”  Quel giorno di aprile del 1919 la volontà era obbedienza cieca all’ordine e alla volontà di massacrare per far rispettare la legge marziale. Sky News, 6-12-2017: “London Mayor Sadiq Khan urges British Government to apologise for the 1919 Amritsar massacre. Sadiq Khan says it is time the UK apologised as the centenary for the shooting by British troops on unarmed protesters nears.” Ma UK non fa nessun apologise. Era il 13 aprile 1919 quando avvenne il misfatto. “David Cameron è stato il primo primo ministro britannico a visitare un memoriale per il massacro di Amritsar nel Punjab, nel febbraio 2013. Ha descritto il delitto come “profondamente vergognoso”, ma si è fermato prima di chiedere scusa. Theresa May ha definito una “cicatrice vergognosa nella storia delle relazioni anglo-indiane”, nulla più. 
Il 05-08-2019 Clementina Udine su Lo Spiegone: “A cento anni dal tragico evento l’India è ancora in attesa di scuse formali da parte dell’Inghilterra. Come fatto notare da molti in occasione dell’enorme fiaccolata che ha ricordato il 13 aprile di quest’anno le vittime della strage, il centesimo anniversario avrebbe potuto rappresentare il momento ideale per presentare le dovute scuse. Ma la premier inglese Theresa May ha solamente espresso dispiacere per l’accaduto, definendo l’evento un “esempio doloroso del passato inglese in India”.
il massacro di Amritsar: chi, cosa, come e perché. Era   Il 13 aprile 1919 quando il generale di brigata pro tempore dell’esercito inglese Reginald Dyer, in attesa della smobilitazione e veterano della prima guerra mondiale, ordinò ai suoi 90 uomini, parte inglesi parte gurka, di far fuoco su civili inermi. La folla si era riunita nel piccolo parco di Jallianwala Bagh per celebrare l’inizio della primavera; contemporaneo un comizio di protesta pacifica contro l’arresto immotivato di due leader nazionalisti. Una provocazione secondo i Brits, in quanto violava la legge marziale instaurata un mese prima; la legge vietava qualsiasi assembramento con più di quattro persone. A marzo era stato varato il Rowlatt Act, che consentiva di incarcerare in modo arbitrario i dissidenti, senza bisogno di processo. Il Partito del Congresso aveva organizzato numerose manifestazioni pacifiche di dissenso. Comunque scontri violenti ci furono e ripetuti attentati contro funzionari britannici e le sedi amministrative; per questo motivo in alcune regioni entrò in vigore la legge marziale, riducendo le già scarse concessioni fatte agli indiani che avevano acceso le speranze di maggiore autonomia dalla fine della prima guerra mondiale. il generale non ritenne necessario esplodere colpi di avvertimento per disperdere la folla, ma ordinò di sparare ad altezza uomo fino a esaurimento delle munizioni. Che fossero presenti donne e bambini, al generale non interessava e nemmeno portare soccorso ai feriti alla fine dell’esecuzione. Potevano esserci molti più uccisi ma le autoblindo con le mitragliatrici non riuscirono ad entrare nell’area perché troppo larghe per le strette vie d’accesso al giardino.

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raccolte in un volume:

Pierre Loti e i Brits (seconda parte)

La seconda parte dell’articolo di Lorenzo Ferrara continua con altre “perle”:
Pag 130:
“Alle nostre spalle Luxor sarebbe ammirevole lo spettacolo del tempio eterno, se proprio al suo lato, non sorgesse, alto due volte tanto, l’impudente Winter palace, il mostruoso albergo costruito l’anno scorso per turisti dal gusto sottile. Chi sa i cinocefali che hanno deposto questa sozzura sul sacro suolo d’Egitto, s’immaginano forse di aver eguagliato il merito dell’artista che sta restaurando i santuari di Tebe.”

Pag 151:
“La cateratta è completamente scomparsa ad Assuan: quella esperta tutrice che è Albione ha giustamente pensato che era meglio sacrificare questo futile spettacolo, e per accrescere  la produzione del suolo, ha deciso di imbrigliare le acque del Nilo, con uno sbarramento artificiale: opera di solida ingegneria che (dice il programma of pleasure trips ”affords an interest of very different nature and degree.”  (sic). Cook & Son industriali non privi di senso poetico si sono tuttavia incaricati di eternarne il ricordo, dando il nome di un albergo di cinquecento camere. Il Cataract Hotel , ecco un nome ancora pieno di fascino, non vi pare?”

Pag 161:
“Chiosco di File. I battellieri ci colgono di sorpresa e emettono il nuovo grido imparato dagli intelligenti e sensibili turisti: “Hip hip hip Hurra!”  Mi sento profondamente urtato  dalla profanazione volgare e imbecille di questo grido, tipica espressione della gioia britannica, cosi fuori luogo in questo momento in cui mi sento serrare il cuore al pensiero del vandalismo utilitario che ha per sempre distrutto quest’opera mirabile,” 

Pag 162:
“L’inondazione di File ha aumentato di 75 milioni di sterline il reddito dei terreni circostanti. Incoraggiati da questo successo, l’anno venturo gli inglesi alzeranno di altri sei metri la diga sul Nilo; il santuario di Iside sara cosi completamente sommerso e altrettanto accadrà alla maggior parte dei templi della Nubia, mentre il paese sarà infettato dalle febbri palustri. Ma ciò non ha alcuna importanza, poiché si potranno rendere più produttive le piantagioni di cotone inglesi.  
Un esempio fra i tanti della sua prosa straordinaria.


Pag 128:
“E questo sole, sempre questo sole, che sembra voglia irridere Tebe con l’ironia della propria durata, per noi impossibile da calcolare e da concepire! In nessun altro luogo si soffre come in questo, per la tremenda certezza che tutta la nostra  piccola miserabile effervescenza umana non è che una specie di impalpabile muffa formatasi attorno ad un atomo emanato da questa sinistra sfera di fuoco, e che anche il sole, giunto alla fine del suo ciclo, null’altro sarà stato se non un’effimera meteora, una furtiva scintilla sprigionatasi dalla immensità degli spazi, nel corso di una di quelle innumerevoli trasformazioni cosmiche che avvengono in tempi senza fine e senza principio.” Ignoro se Pierre Loti conoscesse i rudimenti della Fisica Quantistica.

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Pierre Loti e i Brits (prima parte)

Non è per tornare sul tema ritrito dei rottami dell’impero coloniale britannico, ma è difficile scovare nel mondo un luogo in cui i Brits non abbiano lasciato il segno e combinato marachelle. Cattivi ricordi di soprusi e sopraffazioni su popolazioni e siti (in questo caso archeologici.) Pierre Loti (autore poco noto, che meriterebbe invece molta attenzione) indaga, annota e svela, situazioni, fatti e ambienti esperiti in prima persona, e lo fa con una penna di impronta “romantica” spesso pungente e critica, sempre altamente suggestiva. Ecco qualche esempio della sua scrittura, da IL NILO E LA SFINGE:
Pag 58: “La donna ci sembra un poco matura. Deve essere tuttavia ancora appetibile per l’asinaio, che la sorregge a due mani, a posteriori, con una sollecitudine commovente e localizzata. Quante cose buffe e strane hanno visto gli asinelli del Nilo, alla periferia del Cairo, di notte. Questa signora appartiene alla categoria delle ardite esploratrici che malgrado la loro alta respectability at home, non si peritano, quando giungono sulle rive del Nilo, di completare la cura del sole e del vento asciutto con un poco di “beduinoterapia.” 

Pag 87: “vi è sempre per consentire l’approdo ai battelli un enorme pontone nero che deturpa il paesaggio con la sua presenza e con la sua iscrizione reclamistica: Thos Cook & Son (Egipt limited). Inoltre la ferrovia lungo il fiume per trasportare dal Delta fino al Sudan le orde degli invasori europei. 

Pag 88: “A un tratto rumori di macchine, e nell’aria sino ad ora tanto pura, infette spirali nere: sono i moderni battelli a tre piani per turisti, che fanno tanto fracasso quando fendono il fiume, e sono perlopiù sovraccarichi di fannulloni, di snob o di imbecilli. Povero, povero Nilo. Quale decadenza! Dopo venti secoli di sonno sdegnoso, essere oggi costretto a portare a spasso le caserme galleggianti dell’Agenzia Cook, ad alimentare le fabbriche di zucchero, a sfinirsi per nutrire con il proprio limo la materia prima occorrente per le cotonate inglesi!

Pag 102:
“Lungo la riva del Nilo, sorge una prodigiosa foresta di pietra. In epoche di inconcepibile magnificenza, questa fioritura di colonne è sorta alta e serrata per la volontà di Amenofi e del grande Ramsete e viene fatto di pensare alla bellezza che, fino a ieri doveva spirare da questo tempio che dominava con il suo superbo splendore, le solitudini immense di questo paese votato da secoli  all’abbandono e al silenzio. Invece sotto i colonnati profanati, circola una massa confusa di turisti muniti di Baedeker, e per colmo di derisione, anche qui si è inseguiti dal tonfare dei motori, poiché i battelli dell’Agenzia Cook, sono attraccati a pochi passi di distanza.

“Il Nilo e la sfinge”, scritto fra il 1907 e il 1909, è un’appassionata raccolta d’impressioni d’Egitto: l’autore non si limita a descrivere ciò che vede, ma cerca di penetrarne il senso, di afferrare il significato dei monumenti, degli istituti, dei costumi e dei simboli, di comprendere il fine dell’antica arte egizia, espressione grandiosa di un prepotente anelito di fede, di un irresistibile bisogno di eternità. Lo spettacolo dei monumenti contaminati dal dilagare della nuova civiltà meccanica, o addirittura ad essa sacrificati, lo fa soffrire profondamente, suscitandogli espressioni di sdegno e di scherno.” Dalla presentazione su Amazon

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affascinati dalla nostra grandezza (trascorsa)

Lorenzo Ferrara scriveva anche dei libri che lo avevano piu’ colpito, eccone alcuni su cui si era soffermato. L’articolo fa parte, cosi diceva lui, di una serie che sarebbe stata pubblicata in un secondo volume.

“Ci prendono a paragone, ma evitano di vantarsi dell’origine della loro capitale, Londinium, edificata dai Romani. Volevano fare tutto da soli, così è stato. Gli rimane il vallo di Adriano, le terme di Bath, mattoni sparsi ovunque targati Roma. Della Romanità non sanno che farsene, rimangono di un’altra pasta. Il loro interesse si traduce in ammirazione, lo dimostrano le pubblicazioni a getto continuo su Cesari, imperatori, re, Roma repubblicana e imperiale e il suo declino. Cercano contatti col loro ex impero, forse per nobilitarlo. Qualche esempio. Lo storico che va per la maggiore, Tom Holland in un’intervista di Melanie McDonogh, sciorina una prospettiva intrigante sugli imperatori di Roma, parlando del suo ultimo libro, Pax:

“Quando si parla della Roma degli imperatori, non c’è nulla di equivalente a quel tipo di autocrazia in Occidente. L’identificazione con Roma è, in parte, perché i romani erano qui. Ma in effetti la loro cultura è lontana da noi. L’atteggiamento nei confronti della violenza, del sesso, era tutto diverso”.

Edward Gibbon, che scrisse Declino e caduta dell’Impero Romano, vedeva i romani come ricchi, sofisticati, colti, cioè in pace. In effetti l’estensione della pace romana – globale e la sua durata sorprendente. Pax parla di come Roma è riuscita a creare questa pace mondiale gestendo un impero fatto di diversità: dalla Scozia all’Egitto all’Arabia. Ovviamente ci furono ribellioni, ma la pace deve essere difesa dalla spada. La Diversità dell’Impero Romano deve avere qualche parallelo con la nostra società,” suggerisce lo storico.“Erano convinti che la loro via fosse la migliore. In generale, non esiste il concetto che l’identità romana sia basata sulla razza. Né tantomeno basato sul colore. C’era un senso di civiltà, che faceva barriera contro la barbarie. È da notare che durante l’intera occupazione della Gran Bretagna non ci fu nessun senatore britannico.”

Su Financial Times del primo ottobre 2023, Martin Wolf: “In Caesar’s shadow: “I democratici sono condannati a scivolare nell’autocrazia? Può l’antichità insegnarci come gestire i despoti? Martin Wolf, su due libri sugli uomini forti che vogliono avere tutto. I due libri sono Big Caesars and Little Caesars di Ferdinand Mount e Emperor of Rome di Mary Beard. Entrambi gettano luce sull’autocrazia, un sistema di governo che la democrazia odierna pensava di essersi lasciato alle spalle per sempre, e la cui essenza è esposta nella magistrale analisi di Beard del mondo dei primi imperatori romani, che sarebbero poi rinati come zar, Kaisers e imperatori della storia europea.

Il punto saliente di Mount è un avvertimento: “Dobbiamo fare del nostro meglio per fermare in tempo il possibile Cesare. Stare attenti ai suoi difetti: il suo implacabile egoismo, la sua mancanza di scrupoli, la sua sconsiderata brutalità, il suo sfarzo scadente. Mentre su Evening Standard, 26 settembre Melanie Mc Donagh: “La repubblica romana era più ammirevole dell’impero romano in termini di etica e costituzione: un buon equilibrio tra plebe, classe media e i “grandi”. Tutta quell’austera virtù romana, e l’eroico Coclite sul ponte Sublicio: questo è repubblicano!”

Quasi c’azzecca Melanie Mc Donagh a individuare la vera grandezza di Roma, che non si identifica tanto con l’Impero ma con la forza primigenia e della Repubblica e con la fierezza del cittadino romano, consapevole di far parte di un’entità al di là della quale c’erano barbarie e caos. Ma non ci siamo ancora. Ad autori e giornalisti albionici, attratti dalla grandezza di Roma, difettano gli strumenti per scavare più a fondo. Qualcosa che non riguarda solo fatti, persone e politica.

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La libertà d’opinione a rischio (prima parte)

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Fra gli appunti di Lorenzo Ferrara per il secondo libro su Albione, ce ne sono anche alcuni che sono stati pubblicati da Barbadillo.it in anteprima.
Un amico romano mi segnala una notizia su una giornalista indagata.  10 Dicembre 2024. Una nota editorialista del Daily Telegraph si è vista comunicare a casa dalla polizia, di essere indagata per un tweet: ma, un po’ come per Joseph K. nel «Processo» di Kafka.
E se capitasse a me? Se Scotland Yard mi chiedesse conto dei miei libri e articoli, non proprio lusinghieri sui Brits? L’amico romano dice che mi spedirà le arance in cella, in caso di reclusione. Confortante! Bando ai lazzi, parliamo di due fatti, con un comune denominatore: la libertà di opinione a rischio.
Corriere della Sera, Luigi Ippolito, 16 novembre 2024: “La schedatura «per le parole» scuote Londra”. Nel testo: “Sono gli «incidenti d’odio non criminali», casi in cui, pur senza che si configuri un reato, si finisce schedati dalla polizia per aver detto o scritto cose ritenute offensive. In un anno sono stati registrati in Gran Bretagna 13.200 casi. Domenica scorsa, di prima mattina” prosegue l’articolo, “una nota editorialista del Daily Telegraph si è vista comunicare a casa dalla polizia, di essere indagata per un tweet: ma, un po’ come per Joseph K. nel «Processo» di Kafka, non le è stato detto di quale tweet si trattasse né chi avesse sporto denuncia. La giornalista non ha mai fatto mistero delle sue vedute di destra dura, dall’immigrazione al gender, ma grande è
stato il suo choc quando si è ritrovata nel mirino delle forze dell’ordine.
Il caso ha scatenato feroci polemiche, con i conservatori, da Boris Johnson a Kemi Badenoch, che gridano indignati alla «psicopolizia» di stampo orwelliano e all’attentato alla libertà di espressione. Fra gli schedati una bambina di 9 anni che ha dato della «ritardata» a una compagna di scuola e un sacerdote che ha detto che l’omosessualità è un peccato, per non parlare del tizio che ha dato dello «scopatore di pecore» a un gallese.
Possono sembrare cose surreali, ma queste segnalazioni restano sulla fedina penale e rischiano di pregiudicare in futuro un’assunzione o un’assegnazione di casa”.

The Guardian, Caroline Davies, 17 novembre 2024: “I critici sostengono che l’indagine della polizia sulla giornalista del Daily Telegraph è una minaccia alla libertà di parola e uno spreco di risorse per la polizia. Starmer afferma che la polizia dovrebbe concentrarsi su “ciò che conta di più”. Sull’editorialista pende l’accusa di aver fomentato l’odio razziale. Lei ha descritto l’incidente come “kafkiano”. The Guardian ha rivelato che il tweet forse era una ripubblicazione di un’immagine di due persone di colore con la bandiera del Pakistan Tehreek-e-Insaf, partito politico fondato da Imran Khan, insieme ad agenti di polizia della Greater Manchester. Allison Pearson avrebbe scritto un post contro la polizia metropolitana, che diceva: “Come osano? La polizia è stata invitata a posare per una foto con gli adorabili e pacifici amici britannici di Israele. Guardate questi ragazzi che sorridono insieme a coloro che odiano gli ebrei.” Pearson avrebbe confuso la bandiera con quella di Hamas e con l’identità delle forze di polizia”.

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raccolte in un volume:

Londra nel primo ‘800

“Com’era nel primo Ottocento la metropoli che ha fagocitato il mondo?!” Dovresti scorrere le pagine di un libriccino introvabile per saperlo: “Viaggio a Londra di anonimo.” pubblicato da Il Polifilo. Annotava Lorenzo Ferrara. “Alzi la mano chi non conosce l’“officina del mondo”. Scrive. “E chi non è stato colpito dalla mescolanza di razze, tradizioni, stili e costumi provenienti da ogni dove. Vivendoci da tanti anni Londinium non finisce di stupire. Secondario l’abbigliamento bizzarro, esibizionista o provocante, dark o heavy metal, c’è chi si acconcia come per impersonare Mohicani, Marziani, pagliacci o il Nulla.”

Per amore o per convenienza: “Da Londra è partita una colonizzazione “culturale” globale senza precedenti. La sua cifra identificativa nel mondo: l’accoglienza e la promozione delle diversità, che assomigliano piuttosto a un diktat auto imposto, ovvero va bene qualsiasi stile di vita, per necessità, convenienza o manifesto opportunismo, perché gli affari lo impongono. Londra è la vera Babele dei tempi moderni.” Era il 1834, e c’è da crederlo.

Se vuoi saperne di più: memorie-esperienza-indagine
raccolte in un volume.

Sparito nel nulla…

Svanito nel nulla. Non una traccia. Lo conoscevo quel tanto che basta per rimpiangere la sua compagnia. Lorenzo Ferrara da mesi si è come dissolto. Conservo diversi suoi scritti che mi affidava chiedendo di dargli un parere, fra una esternazione e l’altra, ai quali, tuttavia, non badava troppo. Diversi inediti, altri brani pubblicati. Li rileggo nella speranza di trovarvi il bandolo della sua sparizione-enigma e di rivederlo presto, ma temo sia vano auspicio.
Qui la prima delle sue annotazioni sui libri gia’ pubblicati e altri in via di pubblicazione trasformate in post.

Lorenzo Ferrara mi parlava spesso del suo decennale soggiorno in Gran Bretagna che lui, come molti, chiamava Perfida Albione.
“Sprovvisto della maestria poetica di Ugo Foscolo, al quale i Brits tutto perdonavano, dovrei tacere.” scriveva. “Riconoscente per la presunta ospitalità goduta tempo addietro in terra inglese. E invece…Tra invasioni e cacciate di intrusi la vera storia
dei Brits comincia con Hastings e prosegue con le imprese del femminicida Enrico VIII, il quale dovette pensare: Tutti questi matrimoni e divorzi mi costano un patrimonio, a me servono denaro e un erede, se divento io la Chiesa mi becco un sacco di quattrini divertendomi anche con un po’ di femmine. Gli Inglesi sono meritevoli per come trattano la storia loro e altrui, basta visitare il British Museum, custode insuperato di reperti di popoli stanziati ovunque nel mondo, (anche se il suo direttore ha dovuto dare le dimissioni per certi trafugamenti imperdonabili). Se vuoi ammirare la succursale di Atene vai al piano terra, ci sono, per adesso, i marmi strappati da lord Elgin al Partenone e che nemmeno Melina Mercouri è riuscita a farsi restituire con l’aiuto del Boris Johnson formato studente. Se un popolo non ha “quella Storia”oppure è troppo recente, come la loro, la prende inprestito da altri.”
Questo l’esordio delle sue
memorie-esperienza raccolte in un volume. Indicazioni, ironia, indagini e confronti in presa diretta in casa degli ex padroni del mondo. Aveva intenzione di dare alle stampe un secondo volume. Dovrei frugare fra appunti e inediti che mi ha affidato per trovarlo.

Se vuoi saperne di più: memorie-esperienza-indagine
raccolte in un volume.

Sua maestà il gatto

Si fa presto a dire Gatto! ma non è così. Amati, detestati, smarriti, selvatici a oltranza o terribilmente casalinghi. Per ogni storia ci sono uno o più gatti a cominciar da quello che mia nonna faceva sloggiare dalla sua sedia con una sventagliata di tovagliolo, brandito come una clava. Ogni tanto bisogna parlare di loro, dei discreti, silenziosi, onnipresenti e impagabili gatti. Quasi un obbligo, un dovere verso le insondabili creature, bistrattate e sospettate da secoli di aderenze con l’invisibile -e si sa che l’invisibile inquieta.- Sono pochi quelli che ci vedono tigri in miniatura, eppure non è astruso definirli così. Basta osservarli quando vanno a caccia, prendendosi davvero sul serio. Hanno poi legami reconditi con dimensioni a noi ignote, sono alieni, come dice Gianfranco de Turris. Insomma dei gatti bisogna parlare, ma con cautela. Potrebbero sparire da un momento all’altro. Parlarne per sentirci, come dire? a posto con noi stessi. Ecco quello che scrivono Gianfranco de Turris e il sottoscritto:

IL MISTERO DEL GATTO
di Gianfranco de Turris
Non credo vi sia una canzone che descriva meglio il mistero del gatto se non quella a sua volta misteriosa  e criptica di Francesco De Gregori  Alice, una delle sue prime del 1973 non capita e non presa in considerazione all’epoca da molte giurie:

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole / Mentre il mondo sta girando senza fretta…

Strofe che mi hanno fatto sempre venire in mente un fumetto di Alejandro  Jodorowsky dove si vede un gatto nero seduto in uno spicchio di sole che si immagina entri da una finestra.
Chi ha visto questo piccolo felino sdraiato o seduto in piena luce, con gli occhi a fessura senza esserne abbagliato, capisce cosa intendo dire.

È proprio per quella sua aura di mistero che è tipicamente sua e di nessun altro animale, che sembra racchiusa in sé, il gatto è sempre stato considerato un essere enigmatico da guardare con ammirazione, e timore, da molte religioni.  Anche se alcuni non lo sopportano e ad esso preferiscono il cane, che è il suo esatto opposto, il gatto per la sua bellezza, eleganza, ma anche per la sua indipendenza, affascina. Dipende cosa si chiede ad essi, se il fedele compagno che si accoccola ai tuoi pedi e non aspetta altro che essere portato a spasso, o l’ospite indipendente che soggiorna a casa tua e ti gratifica con la sua presenza, degnandosi anche di salire sulle tue ginocchia quando sei in poltrona e addormentarsi su di esse come se niente fosse, o meglio come se fosse un suo diritto esclusivo. 

E allora che si fa? Lo si scaccia bruscamente? E come sarebbe possibile? Un grande scrittore del fantastico, Howard Phillips Lovecraft, trovandosi in questa situazione, non lo fece, e l’amico di cui era ospite la mattia dopo lo ritrovò seduto sulla stessa poltrona in cui lo aveva lasciato la sera prima con il gatto sulle ginocchia… Ma lui era un amante viscerale dei gatti, un “ailorofilo” come si definiva, e ai gatti dedicò memorabili racconti come I gatti di Ulthar, ed un saggio straordinario in cui appunto comparava il carattere del gatto con quello del cane a tutto vantaggio del primo (ovviamente). Il gatto è interiore, il cane esteriore. Nel suo saggio Gatti e cani, Lovecraft è chiarissimo: “Il cane evoca emozioni facili e grossolane; il gatto attinge alle fonti più profonde dell’immaginazione e della percezione cosmica della mente umana”. Il realismo sta all’uno come l’immaginario all’altro, e per questo non poteva non essere amato dal grande scrittore del fantastico. In sintesi, diceva HPL: il cane dà, ma il gatto è. Insomma: essere e divenire Questa la profonda differenza… 

Il gatto o lo si ama o non lo si sopporta, magari anche lo si odia per motivi banali o anche inconsci. Non ci sono vie di mezzo. È una questione “di pelle”, diciamo di affinità elettive. O lo si accetta con tutti i suoi pregi e presunti difetti, o no. Perché il gatto – rispetto ai cani che ne hanno differenziati a seconda delle loro molteplici razze – ha un suo carattere uniforme e ben preciso, quella sua indipendenza, per alcuni menefreghismo, che a molti non piace, preferendo la devozione del cane. 

Il gatto, si dice, si affeziona alla casa, all’ambiente di suo gradimento, non alle persone, ai suoi presunti padroni. Ma non è proprio così, come dimostrano anche fatti di cronaca. Camilla, la prima gatta soriana che ebbi appena sposato, ci avvisò miagolando che mio figlio aveva un attacco di asma dormendo a pancia in giù nel suo box…

Ma è proprio questo suo carattere che colpisce e piace. Il gatto non ti sta appresso perché ti riconosce come un suo padrone, ma solo perché ha deciso che gli va bene così.

La sua peculiarità e tipicità è anche genetica: non esistono veri incroci fra razze feline a differenza dei cani (da cui certe mostruosità volutamente create a forza di incroci dagli allevatori: non ci sono per fortuna cat toy come per sfortuna ci sono i dog toy), non ci sono veri e propri gatti “bastardi”, non ci sono gatti veramente “brutti”  tutt’al più “curiosi” o “strani” (senza coda, glabri ecc.), ma sono tutti di per sé eleganti anche quelli randagi e malmessi.

Quello che colpisce del gatto, quando lo vedi immobile, seduto, che non si sa bene dove stia guardando, è che sembra star filosofando: che gli passa per la mente

E quando sta accoccolato, acciambellato, con la testa fra le  zampe, cosa sta sognando? E cosa ha sognato il gattino che per una notta intera ha dormito fra le ossute gambe di H. P. Lovecraft? E sognando che ispirazione ha trasmesso a quello che tutti conoscono anche come il Sognatore di Providence, squattrinato ma amante dei gatti?

Il gatto, proprio per tutte queste ragioni, non lo puoi portare a passeggio con un guinzaglio per fare i suoi bisogni come è uso per il cane. A nessuno è mai venuto in mente una cosa del genere. Il gatto i  bisogni li fa nella sua lettiera e poi  li ricopre diligentemente, e non ti obbliga a uscire due o tre volte al giorno, è discreto e pulito.

Può magari essere bizzoso e scontroso, ma poi alla fine viene sul letto e dorme sui tuoi piedi e magari cerca anche di ficcarsi sotto le coperte, arrivare al fondo del letto, e non c’è pericolo che rimanga soffocato, come faceva la siamese che avevo da bambino. C’è chi non sopporta gli imprevisti eccessi del gatto, che salta, corre, si arrampica, si nasconde all’improvviso senza una ragione apparente. Ma la spiegazione è semplice, la ragione apparente: il gatto vede cose che noi non vediamo, si accorge di cose di cui noi non ci accorgiamo, sente cose che noi non sentiamo, ha un occhio e un orecchio aperti  su altre dimensioni. 
La questione o il problema  è che il gatto è un alieno. Nel senso etimologico del termine, un alienus, cioè un estraneo, meglio uno straniero.
Gianfranco de Turris

Dal romanzo PROFETA DEL PASSATO:

(…) Un gatto è un gatto. Metà non lo vedi, per il resto capriccioso, se gli prende, docile con riserva, ambiguo, ed effusivo quando occorre.
Tutti i gatti sono viola. È il loro colore, viola e giallo, sono anche di colore invisibile come l’elettricità e il nervoso; animali che non muoiono, spiriti della terra e del cielo, forse delle tenebre, compagni di streghe, alambicchi e giullari, anche. Non esistono gatti innocui o innocenti; quelli che stiamo per pugnalare abbandonandoli al loro destino, perché stanchi della loro compagnia, vi perseguiteranno a vita. Il gatto di Poe non c’entra, era di pasta diversa. Qualcosa del genere doveva essere accaduto al gatto di Vera alla quale uno dei suoi corteggiatori aveva regalato un gatto, diventato poi troppo ingombrante. -Lascialo andare, tanto si arrangia.- Le era stato consigliato. Il gatto era sparito e le sventure erano cominciate. Se sei in vena puoi vedere gatti dappertutto. Ci sono gatti portinaio, e con la faccia del lattaio e del fruttivendolo. Camuffati da uomini, da donne, da poltrone, gatti frigorifero e gatti maniglia. E anche gatti scariche elettriche. Il gran gatto sarto e quello che ha preso in prestito la faccia del barbiere Salvatore, poi schiere che neanche immaginate, un delirio di gatti, inventori della siesta e dell’agguato. Il gatto in oggetto in questo istante si arrotola attorno all’avambraccio, gioca, miagola, ti mordicchia il pollice scappando poi, per paura di rappresaglie. Un gatto partecipe delle ubbie materne, che salta fuori, frastornato, dauna scatola con i buchi, portata a casa da mio padre, regalo di un suo collega. Non c’è tempo per le perplessità. Perché il gatto urina gioca e mangia quasi contemporaneamente. Il gatto è magico.

Si dice della gatta di Maometto
 La vita del fondatore dell’Islam è oggetto di aneddoti, gli hadith, che sono parte integrante della Sunna, la seconda fonte della legge islamica dopo il Corano. In uno di questi racconti il Profeta, si avvede che su una manica della sua veste la sua gatta Muezza sta dormendo felice. È la sua veste migliore, e Maometto non vuole presentarsi all’ora della preghiera con un abito inadeguato. Ma non vuole svegliare la sua amata gatta. E allora decide di tagliare la manica e se ne va alla moschea con la veste più elegante, ma con un braccio nudo. Al ritorno dalla preghiera, Muezza è sveglia e, con una profonda riverenza, ringrazia Maometto di non averla disturbata. Commosso, il Profeta la carezza tre volte lungo la schiena: ed è così, secondo la leggenda, che sono nate le striature sul mantello dei gatti…

Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (prima parte)

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Questo articolo inaugura una miniserie di altri tre articoli successivi, dedicati all’intelligenza artificiale. L’articolo originale è apparso intero su DIMENSIONE COSMICA a firma Sebastiano Fusco.

All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, quando ero studente d’ingegneria elettronica, i programmi relativi all’IA si chiamavano sistemi esperti (in ambito accademico il concetto di “intelligenza artificiale” era accuratamente evitato perché troppo fantascientifico). Il loro nome derivava da due considerazioni. In primo luogo, perché le loro serie di regole li rendevano in grado di risolvere problemi che potevano essere affrontati soltanto da tecnici esperti di un determinato settore; in secondo luogo, perché“imparavano” dalla loro stessa esperienza: cioè, le regole potevano essere aggiornate in base alla maggiore o minore efficacia riscontrata nella risoluzione dei problemi. In altre parole, più dati “macinavano” questi sistemi, più imparavano e potevano risolvere problemi sempre più complessi facendo sempre meno errori. Erano in grado cioè di aggiornare facilmente i loro passaggi logici in base all’esperienza. Cosa che agli esseri umani riesce molto spesso alquanto difficile se non addirittura impossibile: pensiamo a quante volte le nostre radicate ideologie ci impediscono di guardare in faccia obiettivamente la realtà. In quegli anni io studiavo automazione del calcolo, e con quei sistemi – alquanto rudimentali rispetto a quelli di oggi – avevo per forza di cose una certa dimestichezza. Come tutti mi rendevo conto che il limite principale alle loro capacità era posto dalla potenza di calcolo (numero di operazioni eseguibili in un secondo) dei computer su cui erano implementati. All’epoca in cui io tentavo di imparare qualcosa sui computer, questi ultimi erano grandi quanto un intero piano di un grosso edificio, ma avevano una potenza di calcolo inferiore a quella del chip che gestisce il telefonino che oggi portiamo in tasca. La tecnologia, grazie soprattutto allo sviluppo dei circuiti integrati, ha poi cambiato rapidamente le cose. Personalmente, ho avuto il privilegio di poter assistere da vicino all’evolversi dell’informatica non soltanto grazie a ciò che avevo studiato, ma anche perché, essendomi dedicato alla divulgazione scientifica, ero in contatto con molti dei protagonisti di tale evoluzione.

In particolare con Roberto Vacca, grande ingegnere, grande matematico e grande scrittore di fantascienza, che è stato uno dei più assidui collaboratori delle riviste che nel tempo mi hanno incaricato di dirigere. È stato lui, soprattutto, a chiarirmi uno dei concetti di base: parlare di “intelligenza” in rapporto con questi sistemi, è improprio. Un programma di IA non è “intelligente”, perché gli manca la principale delle funzioni che caratterizzano l’intelligenza umana: la creatività. Un sistema esperto non “crea” nulla, non“immagina” nulla, non “inventa”nulla: si limita a restituire ciò che è stato immagazzinato nei suoi banchi di memoria, in base a regole che gli sono state imposte e secondo una gerarchia di priorità definita dalla frequenza statistica con cui determinate parole emergono e sono collegate con altre parole nell’immenso oceano di informazioni che ha assorbito dalle “letture” selezionate per questo da chi ha addestrato il sistema stesso. Questa considerazione è fondamentale, perché fa capire che i sistemi di Intelligenza Artificiale possono essere impostati in modo tale da obbedire a direttive ideologiche predefinite. Manca loro infatti un’altra caratteristica essenziale dell’intelligenza umana, oltre alla creatività: ovvero, sono privi di libertà di pensiero. Non conoscono il libero arbitrio, ma fanno soltanto ciò che gli è stato chiesto di fare. Se chiediamo loro qualcosa, non “ragionano” per fornirci la risposta più opportuna, ma si limitano a restituirci quella statisticamente più frequente in base ai testi che sono stati loro somministrati. Non solo: adeguano la risposta alle regole “etiche” che sono state inserite nel loro stesso linguaggio di programmazione, già a livello di codice, da chi li ha allestiti.

Sebastiano Fusco

il Gran Vecchio…

C’è chi lo chiama affettuosamente Gran Vecchio o fratello maggiore, chi Maestro, mecenate e guida, altri ancora ispiratore e mentore, ma in primis, per tutti è l’Amico. Personaggio (quasi) mitico, ecco un (altro) libro che lo riguarda. Considerazione, gratitudine, commozione e affetto per un giovanotto di 80 anni traspaiono dalle pagine. Il tutto si ridurrebbe a peana di consenso un poco stucchevole verso l’uomo e il suo lavoro di una vita che sconfinerebbe nella celebrazione. Il soggetto, indovino che rifiuterebbe tale cornice. Gli apprezzamenti riuscirebbero indigesti anche al festeggiato -tuttora attivissimo e impegnato culturalmente in nuovi progetti.- Il volume, invece, è sorprendentemente ricco, vivace e di facile lettura e sa svincolarsi dall’aspetto privato e di encomio. Sa insomma farsi racconto. Spaccato culturale della vita di destra, per molti versi ignoto, degli ultimi 50 anni. Il volume in questione pubblicato da Oaks edizioni  costituisce una miniera di informazioni, molte delle quali di prima mano. Aneddoti, amarcord, riferimenti a opere, citazioni ti fanno capire quanto vivace e attivo sia stato ed è tuttora il macrocosmo di destra dagli anni ‘50 ad oggi. E su quanti uomini di valore abbia potuto contare quella cultura; ancora oggi demonizzata dai brandelli marxisti leninisti (chi scrive ricorda le “occupazioni rosse” degli anni ‘70 delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo a Torino). Volume denso di citazioni, riferimenti a opere, personaggi, filosofie, convegni, forum, mostre come quella recente, sui dipinti di Evola. Gli argomenti: da Julius Evola “all’imbecille” D’Annunzio, dai Manga a Tolkien, da Lovecraft alla passione politica, e poi la miriade di riviste e pubblicazioni cult, la Storia ucronica e la magia.
La cura maniacale del dettaglio, l’attenzione scrupolosa di citazioni e riferimenti a garanzia di esattezza filologica e semantica sono una delle cifre distintive del lavoro di GdT, (il baffuto individuo col sigaro della copertina). Un’esistenza diversa da quella che conduce, un’esistenza ucronica, ad esempio, per lui non avrebbe alcun senso avendo egli perseguito tutto ciò che animo, cultura e sensibilità gli suggeriscono.
In Fisica Quantistica si è soliti affermare che tutto ciò che potrebbe accadere, sicuramente accadrà. Il giovanotto di 80 anni sembra rappresentare tale assioma. 

Difficile la spigolatura del testo che si legge tutto d’un fiato, come se fosse l’avventura galoppante dello spirito ribelle; si desidererebbe ancora più dettaglio. Ho dovuto scegliere solo alcuni brani per ragioni di spazio, ma tutti gli interventi meriterebbero citazione.

Dall’introduzione: “è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Il volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e quindi da Luca Gallesi che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di una «festa a lungo attesa» in una controstoria della cultura italiana.”

“In tempi non sospetti, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco ci hanno detto che i capolavori del Fantastico non hanno nulla da invidiare ai grandi classici della letteratura convenzionale e, pertanto, come tali devono essere trattati.” Giuseppe Aguanno

“GdT ha continuato e continua nella sua opera di divulgazione, instancabile facitore di conoscenza in un mondo di ignoranti, con la consueta curiosità unita all’umiltà propria delle Grandi anime… i primi ottant’anni spesi bene, sono certo che i successivi saranno spesi benissimo! Mario Bortoluzzi

“Non esistono molte persone capaci di ragionare di questi tempi. Qualcuna l’ho incontrata. Gianfranco de Turris è una di loro.” Alessandro Bottero

“Tra mille incontri e telefonate ha sempre manifestato l’entusiasmo e la pazienza, l’attenzione, la fiducia e la complicità, nei tratti distintivi di un padre.” Giorgio Calcara

“Amico di una vita, grazie per essere stato un così prezioso compagno di strada …mi auguro di poter, ancora insieme, percorrere molte miglia sul sentiero affascinante della conoscenza, scrivendo e pubblicando tante pagine che nutrono l’anima.”  Giovanni Canonico

“il rischio di cascare a piedi uniti nella celebrazione è seriamente tangibile. Non lo farò: in troppi siamo debitori a GdT, a vario titolo …non nutro sensi di colpa, ma, semmai, un’immensa gratitudine per il mio intrattabile mentore.” Marco Cimmino

“Gianfranco, l’augurio migliore che posso farti per il tuo compleanno è che tu possa continuare ancora per molto tempo a donarci l’irrazionale, linfa insostituibile per lo spirito e per il cuore, per sognare e per costruire mondi.” Alessandra Colla

“Merito di Gianfranco de Turris è il recupero di un patrimonio spirituale e culturale enorme. Ma aggiungerei anche l’aver saputo vedere l’interesse duraturo di un insieme di opere, scritti e forme speculative che hanno dato consistenza a un aspetto della cultura italiana troppo spesso ignorato anche dai più attenti ricercatori.” Nuccio D’Anna

“Può essere orgoglioso di ciò che ha raggiunto – e di ciò che raggiungerà ancora, ne sono certo, perché si può avere ottant’anni ed essere più creativi che mai! Ad multos annos, caro Gianfranco! Alain de Benoist (Traduzione di Andrea Scarabelli)

“Navigatore ardito, avventuroso come gli eroi mitici che, al seguito di Giasone, parteciparono al viaggio dalla Grecia alla Colchide per la conquista del Vello d’Oro: Gianfranco de Turris è l’archetipo dell’argonauta, per il rigore intellettuale e il coraggio nel difendere le idee scomode in nome di una visione del mondo senza tempo.” Michele De Feudis

“Che piacere riabbracciarci, io e Gianfranco, due vecchi dinosauri sopravvissuti al fatale meteorite dell’esistere, lui sordastro, io quasi, entrambi con la barba bianca, entrambi con mezzo sigaro trale labbra.” Luigi De Pascalis

“L’ARGONAUTA: Quattordici anni di vita, 468 puntate, oltre 2500 interviste!…Uomo estremamente generoso, uno dei pochi “maestri” incontrati nella mia vita; il maestro che stimola, sprona, forma e soprattutto insegna, o sarebbe meglio dire consegna l’esperienza e il sapere ai suoi allievi.” Roberta Di Casimirro

“La sua identità è scivolosa; sì, proprio come la forza da cui molte esistenze sono di fatto animate; quella che proviene dal centro di tutto; dal fondo incondizionato che, del mondo, ci costringe a riconoscere la radicale inesistenza; senza invitarci a procedere al di là di esso, verso un mondo che non c’è.” Massimo Donà  

“In tanti anni, non l’ho mai visto scendere a un compromesso, mai venir meno a un impegno preso, mai commettere un atto d’ingenerosità, mai deflettere da quello che considerava il giusto cammino. Da ragazzo io ero un po’, diciamo così, scapestrato. Mia madre, che l’aveva conosciuto praticamente quando l’avevo conosciuto io, per cercare di temperarmi mi diceva sempre: «Ma lo vedi Gianfranco? Non puoi prendere esempio da lui?» Sebastiano Fusco

“Riscrivere, correggere, correggere ancora: non è proprio per tutti. Ad alcuni potrebbe addirittura parere, talvolta, di aver a che fare con un nume corrucciato, mai soddisfatto e intento a evidenziare il proverbiale pelo nell’uovo. Ma è apparenza, che vela invece l’amore per gli scritti chiari, ben ponderati.” Andrea Gualchierotti 

“È stato, l’avanguardia, o l’araldo di uno scontro tra diverse visioni dell’uomo e della sua storia che è, oggi, sempre più drammaticamente in corso.” Andrea Marcigliano

“Lei è l’emblema dell’onestà intellettuale, dell’aulicità priva di affettazioni e dello spirito di abnegazione necessari a chi è costantemente impegnato nella ricerca della verità…In Russia il Suo nome è molto conosciuto e stimato.” Dmitry Moiseev

“De Turris ha passato al setaccio tutto della modernità: indizi, simboli, presagi, analizzato l’Utopia e le ideologie del Novecento, la tecnica e internet, la letteratura fantasy e il revisionismo, il millenarismo e cosa accade dietro le quinte della storia, il folklore e le altre dimensioni. Senza mai dimenticare la critica e la cultura politica, agganciate all’attualità, alle spie che indicano i cambiamenti nella società e nella contemporaneità.” Manlio Triggiani

E, fuori dal contesto del volume: L’ho conosciuto a Milano decine di secoli fa, col suo amico editore Marco Solfanelli. Gli ho spedito mini Garuda augurali in ebano da Bali, e qualche cartolina, ma temo non si ricordi. Se qualche volta pubblico lo devo a lui, mi ha insegnato a mettere i punti e le virgole al loro posto e, ovviamente, tutto il resto.