C’è un libro che non mi stanco di rileggere, è La Grande Foresta. Ogni volta le sue pagine suggeriscono un fascino diverso, nuove avvincenti emozioni, mondi scomparsi, inghiottiti dal progresso febbrile e dai singulti di una nazione neonata.
Parliamo del rito della caccia, simile a un’iniziazione sacrale, il gusto del sangue versato dal gigantesco Ben, del silenzio, dell’attesa, della paura e della fatica. Quel libro l’ha scritto un gigante della letteratura. Il grande William Faulkner. Spiega Mario Materassi, nella bella edizione di Adelphi che LA GRANDE FORESTA, magistralmente tradotto da Roberto Serra, è un capolavoro poco conosciuto. Frettolosamente catalogato dalla critica come storia di caccia, così scrissero Michael Millagate, Malcom Cowley, Martin Pedersen. La morte di un orso e l’agonia di un cane, entrambe speciali, entrambe simboli di una terra mitica, destinata a essere inghiottita da pionieri ruggenti di scrittura protestante che bevevano whisky bollito e che trascinavano nella foresta infestata la moglie gravida.

Il selvaggio Algonchino e Choctaw e Natchez. Mille spagnoli e poi francesi e inglesi, poi ancora spagnoli e ancora inglesi. Definitivamente.Vengono alla memoria le carabine arrugginite e i negri pieni di sonno, i tronchi morti della foresta, l’uomo che mangiava formiche e ancora l’orso mitico, il vecchio Ben, al di fuori di ogni regola e che viveva col piombo in corpo di cento pallottole e poi l’indiano Chickasaw col cuore di un cavallo e la mente di un bambino, con occhi piccoli e duri come bottoni e poi cacciatori, abili nel sopravvivere, e i cani e l’orso e il cervo messi fianco a fianco, trascinati dalla foresta. Nella ricca terra alluvionale nera e profonda che faceva crescere il cotone più alto della testa di un uomo a cavallo. Un’unica rete commerciale avrebbe presto venato come una ragnatela il subcontinente abbracciato dal Mississipi, cancellando per sempre la foresta.

Un finto libro sulla caccia che invece scava nella geografia, nel mito di una natura ancestrale, prossima a dissolversi. È un racconto senza trame dichiarate ma con una solida ossatura e una trama interiore precisa e incalzante. Ho trovato LA GRANDE FORESTA ogni volta diverso, suggestivo, profondo, in quella prosa modernamente piana, ripetitiva quanto mai, e anticipatrice di Faulkner. Mi piace pensare che il fascino ipnotico e intriso di analitico rigore narrativo farà guadagnare nuovi lettori al libro. A volte certi capolavori, come questo, non se ne conosce il motivo, giacciono inesplorati, lontani dal clamore pubblicitario e dalla gogna o enfasi della critica letteraria, per rilasciare molto tempo dopo un fascino e una crudezza fuori del comune. È il caso de LA GRANDE FORESTA. Sorta di denuncia radicale, attualissima, e condanna senza remissione contro la furia cieca e devastatrice del progresso che sopprimerà creature uniche come il cane, l’orso primordiale e il loro ambiente. Decisamente attuale, non ti pare?