Era già così cinquant’anni fa. Non sapete chi è a meno che non abbiate vissuto in borgo Vanchiglia, a Torino, subito dopo la Guerra. Nemmeno io so chi è, se non che si chiamava Emilio e che andava su e giù per borgo Vanchiglia col suo bolide che sfrecciava a quaranta all’ora!
La sua Indian a tre marce, col cambio a leva, la teneva cara come non mai, in un buco di un cortile in corso San Maurizio con l’acciottolato sempre umido dove spuntava l’erba. La sua Indian color bordò opaco e lui. Inseparabili. Emanazioni di un Tempo che non è più. Sentivo scatarrare la sua marmitta all’inizio della via. Arriva Emilio! Pensavamo in casa. Aveva anche il side car entro cui chiudeva talvolta la moglie. E da vedovo se ne andava in giro col side car vuoto. Gli ho detto un giorno: posso farle una foto? Non ha detto niente, poi ha detto di aspettarlo. È venuto giù dopo un quarto d’ora, abitava in un alloggio di ringhiera che si affacciava al cortile. Con i pantaloni stirati e le scarpe lucide per farsi fare la foto. Poi si è messo in posa per la foto che sembrava una statua. Mi ha raccontato che una volta si è messo della benzina sul collo per farsi passare il bruciore di una puntura di vespa, che gli era passata sotto la sciarpa e lo aveva punto. Teneva insieme la sua Indian col filo di ferro. Le mani bruciate da benzina e olio motore. Emilio è un reperto, testimone della vita di borgo Vanchiglia, subito dopo la Guerra. Venuto dal nulla, per la mia memoria, e sparito nel nulla. Di tipi così oggi non ce ne sono in circolazione. E di cortilii che odoravano di sapone da bucato e brodo neanche. Nemmeno Salvatore, il gran barbiere siculo, altoparlante del borgo c’è, dalle scarpe lucide come il pavimento di un transatlantico e la madre della Ginetta che mi soffocava di abbracci con le tette grosse come bisacce semisgonfie e nemmeno Francesca, grossa come un armadio, portinaia per vocazione, figlia di Carlo il ciabattino cosmico, gran bestemmiatore di Madonne, che mi aveva onorato per avermi tenuto a battesimo. Più nessuno c’è in borgo Vanchiglia, a Torino.
Con la precisione di un analista, attraverso la sensibilità di un vero artista. Mario Ingrosso fotografa e continua a stupire regalandoci emozioni. La sua è una vocazione senza equivoci, espressa attraverso una vita di lavoro dietro macchina fotografica, obiettivi e camera oscura. Molte sue opere provengono dal suo laboratorio di stampa. Astigiano verace e milanese di adozione, i suoi lavori fanno il giro del mondo.
Famosi i suoi volti, divenuti ormai un classico della fotografia reportage. Da Tokyo a New York, da Parigi a Milano, nell’ambito di importanti mostre fotografiche e gallerie, Ingrosso firma opere d’arte, non riusciamo a definire altrimenti certi suoi lavori, che rimarranno nella storia della ritrattistica. Dal bambino con la manina sporca appoggiata a una valigia legata con lo spago, alla stazione di Milano al mediatore di bestiame con la cravatta che intende rifilare diecimila lire a un pastore restio, dal calabrese con la coppola che si vantava di avere un harem sparso per l’Europa al lavoro dei campi a Frusci dove una famiglia sta per essere inghiottita dai covoni di fieno, dal porcello che viene trascinato per le vie di Pisticci al monello con gli occhi sgranati. are reportage non sono semplici. Occorrono capacità di analisi, sintesi, sensibilità, discrezione e un minimo di sfrontatezza. Tutte doti che i veri reporter posseggono nel loro bagaglio. Nei lavori di Ingrosso c’è qualcosa in più: trama che si fa soggetto autonomo e poi storico. C’è l’introduzione al riarso paesaggio di Pisticci con le sue colline bruciate e la geometrica sequenza di case tutte eguali, e lo svolgimento di un’indagine sempre prudente, che rifiuta effetti speciali.
La realtà così com’è, anzi, com’era, di un’Italia ancestrale, tradizionale nel senso più profondo; c’è la fissità degli sguardi dei villani, sulla soglia delle loro case di Frusci, rotti dalla fatica, quasi mitici, nel richiamo di un tempo sempre eguale a sé stesso e quindi a-storico. E ancora il caso del dio Vulcano che affiora nell’antro della sua fucina sotto le spoglie di un fabbro – si era a Miglionico nel 1963. Nonna e nipotina che preparano la conserva: e qui lo scatto assume il valore di un ritratto psicologico; ritratto di ambiente, storia, un quadro di relazioni parentali ben definite come per il gruppo di donne di tutte le età sull’uscio sgangherato della loro abitazione. Stanno pulendo peperoni e melanzane. Accadeva nel 1955 in un paesino della Puglia.
I vecchi contadini con la coppola che fanno salotto a Monte Sant’Angelo nel 1963. Volti consumati, sornioni, ricchi di vita trascorsa, pieni di vitalità. poi davanti alle facce scavate nel legno di alcune donne si rimane allibiti. Hanno una forza evocativa potente, che racconta la fatica della carne, lo sforzo sempre uguale, durissimo di vite trascorse sui campi a zappare, seminare, mietere e raccogliere. E intanto i volti diventano come Mario Ingrosso li coglie. Ragnatele di rughe, intagli nel legno, smorfie dignitose che nulla chiedono, e che, se mai, offrono ancora bellezza. Ritratti memorabili di donne del sud, colme di un fascino antico e severo. Le donne di Frusci, Apricena ne sono esempio eloquente. Ingrosso ci fa sentire la loro storia, mostra l’avvenenza nascosta da scialli, foulard e lunghe gonne. Bimbe e donne in età da marito, appoggiate allo stipite corroso della porta e anche vecchie, tutte belle, tutte stupefacenti, interpreti di vite antiche. E poi bambini che si rincorrono per le vie di Pisticci nel 1964 con la macchinetta per lo spray antizanzare. Ma il lavoro di Ingrosso non si esaurisce nelle immagini Vintage. Egli coglie al varco quegli stessi uomini e donne che ora diventano migranti e che affollano con valige e cartoni la stazione centrale di Milano. Ecco dunque la documentazione che si fa storia, ecco i volti smarriti dei terroni del sud che mangiano pane e salame e che introducono valige attraverso i finestrini del treno. Sono gli stessi personaggi che, abbandonate Puglia, Calabria, Basilicata approdano al nord. L’obiettivo di Ingrosso li attendeva alla stazione di Milano per documentare distacco, speranze, ansia, timori di un futuro incerto. I suoi servizi diventano così storia e racconto di sconvolgimenti sociali. L’immigrazione e la prima rivoluzione industriale partono dai binari della stazione centrale.
Le immagini di Mario Ingrosso lo testimoniano. Non sappiamo se l’uomo che sputa fuoco e che spezza catene sia un immigrato di quelle terre, molto probabilmente sì. Le immagini dei clown del circo Darix Togni risalgono a poco prima la distruzione del circo stesso provocato da un incendio. Fantasmi, testimoni di mondi svaniti Decine sono i servizi realizzati da Mario Ingrosso a documentare luoghi, momenti di festa, processioni e sagre. Al centro c’è sempre l’uomo e il suo ambiente, trattati con eguale sensibilità e rispetto, senza indulgere a effetti speciali o a riprese spettacolari. È la forza della grande fotografia documentario, che preferisce far parlare il soggetto, in tutta la sua originalità. Poi l’obiettivo si è spostato e ha ripreso altri soggetti. Non più la riarsa corona di colline attorno a Pisticci, né l’eterna attesa di muli e asini sulla piazza dei mercati del Sud, ma l’architettura di paesaggi cittadini, industriali e commerciali. Il rigore delle linee, la nuova geometria del disegno creano habitat diversi, realizzati dal vetro cemento, dall’alluminio e dal cristallo. Sono i nuovi paesaggi e il dedalo moderno non privo di suggestione e di eleganza. Qui non si raccoglie fieno, non si va in processione col santo, né i mocciosi giocano per strada, i porcelli non vanno più al macello. Qui domina il futuro senza compromesso.
Il contrasto fra tradizione e modernità, fra dimensione agreste e industriale è stridente, clamoroso. In questi paesaggi, nel loro ambito asettico e formalmente elegante l’uomo viene inghiottito dalla struttura, diventa Questo e altro ancora narra la fotografia di Mario Ingrosso, che si dipana attraverso immagini di straordinaria suggestione ed espressività. Una lezione di stile, di grande fotografia, con servizi che comprendono i raduni dei figli dei fiori e le ricerche dentro gli scheletri delle fabbriche abbandonate del nord. Mario Ingrosso dà lezione di stile.
foto di Mario Ingrosso (c) Tutti i diritti riservati
Tutto è cominciato con un blog e furono diluvio e luce. Sin dall’inizio dei tempi. Il titolo “Ti ricordi quando” penso si capisca, un pretesto, un paravento dietro cui stipare come acciughe sotto sale pensieri, molti dei quali fuori dal coro. Qui a Londra sali sulla cassetta della frutta e parli. Di cosa? Di tutto. Basta che non bestemmi. Allora sapete che faccio? Salgo sulla cassetta di frutta e comunico. Questo è il mio blog, ma sulla cassetta di frutta non ci voglio stare da solo. Salite! Se avete tempo e voglia, ci sarà da divertirsi. Di che cosa parla il blog? Di arte, di inquinamento, dugonghi, bollito misto alla piemontese e di nostalgia. Ma da solo non mi diverto, quindi chiedo: C’è qualcuno?