Asclepio, nume eroe e figlio di Apollo ti faceva guarire?

Sognare e guarire – Asclepio e l’incubatio rituale

Patrono dei medici, eroe, guaritore in grado di restituire la salute perduta, e infine nume capace di risuscitare i morti. Se c’è un dio, durante il tramonto del mondo antico, la cui fama pare non conoscere declino, questi è Asclepio. E tutto ciò a dispetto del suo ingresso tardivo, imprevisto, nel pantheon delle grandi divinità dell’Ellade, che distanzia persino quello di un altro celebre ritardatario, Dioniso.
Quando Omero vergava i suoi versi, il figlio di Apollo – tale era l’ascendenza olimpica di Asclepio – si mischiava ancora alla calca innumerevole di progenie divina che affollava il mito greco, pur fregiandosi del notevole, ma ancora umano, rango di eroe. E come tale, sebbene al centro di vicende eccezionali, aveva affrontato il fato comune di tutti gli uomini, la morte.
Colui che i latini avrebbero chiamato Esculapio infatti, aveva ereditato dal padre divino una somma perizia nell’arte medica, giungendo a guarire i casi più disperati. Quando però le sue abilità si erano spinte fino ad arrivare a strappare all’Ade la sua tetra messe di ombre, ecco che Zeus in persona, tutore dell’ordine cosmico, l’aveva incenerito con le sue folgori, uccidendolo. Non l’ultimo, come è noto, di mortali puniti per aver osato tentare di trascendere i vincoli della propria natura.

E’ all’alba del VI secolo, quando ancora l’età classica non è sorta, che avviene la trasmutazione di Asclepio, la sua ascensione ontologica. Zeus l’ha ucciso, sì, ma non distrutto. Apollo, non immemore di quel figlio sfortunato, ottiene per lui una più che rara resurrezione, anzi di più: una vera apoteosi, che non solo riporta Asclepio alla vita, ma gli dona una completa natura divina, imperitura come quella degli olimpi.

Questa, almeno, è la versione del mito che inizia a circolare in quegli anni nella regione dell’Argolide, presso Epidauro, dove il misconosciuto culto oracolare di una divinità locale – Maleátas, patrono di una fonte sacraviene associato prima ad Apollo, nella sua veste di medico divino, e poi, quasi senza soluzione di continuità, a quel suo figlio divenuto immortale.

E’ l’inizio del diffondersi prodigioso del culto: dopo il primo Asklepeion di Epidauro, nel giro di meno di un secolo, altri grandi santuari cominciano a sorgere negli angoli più disparati del mondo greco, assumendo l’aspetto di monumentali centri religiosi e di pellegrinaggio per i malati afflitti da ogni tipo di morbo. Cos, Pergamo: sono solo un paio delle sedi rinomate della venerazione di Asclepio, in cui sacerdoti e adepti – assieme medici e ierofanti – offrono l’opportunità ai sofferenti di guarire grazie alle norme sapienziali trasmesse dal dio. A Roma, preannunciato da una apparizione miracolosa del suo animale sacro – il serpente – gli viene eretto un celebre tempio sull’Isola Tiberina già in età repubblicana, dove ancor oggi sorge non a caso un ospedale.
Eppure, in diversi casi, per ottenere la guarigione non bastano le cure ordinarie, sovente indirizzate su pratiche salutari come digiuni, esercizi ginnici e bagni in acque medicamentose. A volte i malanni accusati dai pellegrini sono tali che solo il nume che regge il santuario può rivelarne il misterioso rimedio.

Ecco dunque che gli Asklepeia si dotano di stanze segrete, sotterranei dove i malati, ivi condotti dopo precise purificazioni rituali (in base a una rigorosa Lex Sacra, basata su sacrifici e invocazioni), compiono il rito della cosiddetta incubatio. Lasciati soli a giacere nelle sale ipogee, dopo aver bevuto spesso bevande dal contenuto soporifero, essi dormono, in attesa che Asclepio in persona, comparendo loro in sogno, gli indichi la via della guarigione.

E così spesso accade.
Infiniti, incisi nella pietra e nel marmo con artistici rilievi, sono gli ex voto che testimoniano l’intervento benefico del dio. E non mancano neanche le testimonianze letterarie; una per tutte, quella famosissima di Elio Aristide, il celebre retore del II secolo, ricordato non solo per la sua orazione “A Roma” che descrive i fasti del secolo d’oro dell’Impero, ma anche per la sua devozione, a tratti morbosa e patologica, per il medico divino. 
Nei suoi quattro “Discorsi sacri”, Aristide, che essendo natio dell’Asia Minore frequentava il grande Asklepeion di Pergamo, narra senza reticenze e con entusiastica emozione il suo legame con Asclepio, che durerà tutta la sua vita. Afflitto da infiniti malanni, probabilmente attribuibili a un disagio di natura psicosomatica, l’oratore frequenta i templi e i santuari del dio, offre continui sacrifici, e soprattutto viene sovente visitato in sogno dal nume, sia durante la pratica di diverse incubationes, sia in contesti più ordinari, quotidiani. Egli è infatti un prescelto, salvato più volte da malattie che l’avrebbero portato alla morte certa senza i ricorrenti salvataggi del suo patrono celeste, di cui elenca con certosino zelo apparizioni, moniti, miracoli.

Seppur unica in termini letterari, la testimonianza di Aristide non doveva costituire una così grande eccezione nel sentire dei devoti. Proprio il santuario di Pergamo, in quegli anni, veniva frequentato da veri esperti di quel tempo nel campo della medicina, come Galeno, e il numero di ex voto pervenuto ci indica un afflusso di visitatori imponente, spesso appartenenti a ranghi sociali elevati.
Questa ascesa, comune a tutti gli altri grandi centri templari, continua ininterrotta almeno fino alla metà del III secolo, quando il dio – da tempo adorato anche in nella Pars Occidentalis del dominio romano – viene acclamato addirittura come Zeus Asklepio Soter, in una sincretistica assimilazione salvifica col sovrano dell’universo.

E se si tratta di un fenomeno comune anche ad altre divinità guaritrici (Serapide, per esempio), il grido “Grande è Asclepio!” continua a risuonare a lungo anche quando inizia il declino dei suoi santuari più grandi.
Associata alla generale decadenza che affligge da tempo le province elleniche in età imperiale, li diradarsi delle visite alle case di guarigione del nume si può attribuire non tanto al diffondersi, specie nelle regioni microasiatiche, del culto cristiano, quanto all’aumentata insicurezza dei tempi, che rende costoso e sconsigliabile il pellegrinaggio agli Asklepeia. Le invasioni degli Eruli in Grecia, giunti fino ad Atene, dei Goti nelle metropoli della provincia d’Asia, contribuiscono a fiaccare territori in cui la spinta religiosa dei secoli passati si è trasformata ormai, in bulimia superstiziosa, affamata di prodigi sempre nuovi, come già l’episodio narrato da Luciano di Samosata del culto fasullo del serpente Glicone (paradossalmente una sorta di reincarnazione di Asclepio), cento anni prima, aveva iniziato a mostrare.
E certamente, la presenza sempre maggiore nelle metropoli degli adepti di un altro Salvatore, non poté non incrinare la predilezione di alcuni per il medico divino figlio di Apollo. Tuttavia, se celebre in quei giorni era la disputa tra Celso e Origene su quale dei due – Cristo o Asclepio – meritasse davvero il titolo di Soter, vero segno dei tempi, gli Asklepeia restarono in attività ancora per molto.
Specie la pratica oniromantica, legata all’interpretazione dei sogni inviati dal dio, continuò ad essere portata avanti da specifici sacerdoti, sulla scorta anche di trattati come quello di Artemidoro di Daldiano, che nel II secolo redasse un apposita opera in cinque volumi divenuta celebre nel mondo antico.
Quando già il culto di suo padre Apollo si era spento e i suoi oracoli tacevano, dunque, Asclepio ancora regnava, venerato nel tardo impero sempre più come immagine benevola del dio “Uno” e non “Unico” vagheggiato dai neoplatonici. In questo senso però, il suo essere stato uno degli avversari finali del Cristianesimo, temuto dai Padri della Chiesa come demoniaco imitatore del vero medicus animarum, si risolse sempre di più ad una questione di stampo polemico: materia per pochi, mentre il fuoco della devozione bruciava ormai altrove.
Privato di santuari ormai deserti, oppure addirittura occupati dai fedeli del suo nemico per farne chiese, il dio venuto da Epidauro dovette accontentarsi di onori privati, di sacrifici di teurgi solitari, cedendo infine il passo alla nuova religione nel corso del V secolo.

La fonte sacra di Epidauro, acqua di salvezza per almeno dieci secoli, scorreva ormai silente.

********************************************************************************************

Andrea Gualchierotti, romanziere e saggista, collaboratore di Tiricordiquando? ci ha inviato il post su Asclepio.

Andrea Gualchierotti (Roma, 1978) vive e lavora in provincia di Roma. Appassionato del Fantastico e del mondo antico, ha pubblicato romanzi e racconti per diversi editori fra cui Gli Eredi di Atlantide, Le guerre delle Piramidi e La stirpe di Herakles. Collabora con l’associazione culturale Italian Sword&Sorcery . Suoi contributi, che spaziano dal fantasy fino alla storia delle religioni e alla numismatica, possono trovarsi sulle pagine delle riviste Dimensione Cosmica, il Giornale OFF, Hyperborea e L’Intellettuale Dissidente.

c’era e ci sarà sempre il Fantastico?

Gli appassionati di Fantascienza in Italia lo sanno. Se vogliono essere aggiornati su cosa bolle in pentola nel panorama mondiale del fantastico (novità,  commenti, ricerche, e capolavori pregressi) c’è una sola autorevole rivista letteraria dedicata al tema: DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. Puntuale, esauriente, qualificata. Nell’ultima edizione della primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, attira l’attenzione. Tema principale di questa edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna sagace di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo, Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.

Di seguito riportiamo uno dei racconti pubblicati sulla rivista:

LE GROTTE DEL SARACENO

Sono costretto a rivelare il contenuto della corrispondenza di un amico creduto scomparso, sul quale ora si scagliano veleni. Tradirò la  discrezione imposta dalla sua volontà liberandomi tuttavia di un peso. Rendendo pubblici i suoi scritti custodi di storie antiche e cronache recenti svelerò un’atroce verità. Non occorre sia esplicito nel citare nomi, un fragile diaframma li separa da persone note in zona in cui la vicenda, col suo tragico epilogo, è maturata. L’imbarazzante corrispondenza nelle mie mani abbraccia un cospicuo arco di tempo e ha il sapore di un diario-testamento, nonostante le lacune e l’incomprensibile mancanza di cenni a moglie e figlio che egli peraltro amava. 

Fra le pagine due fogli strappati e stropicciati. Una calligrafia incerta sottolineata in rosso recita: “Il canonico Giuseppe De Conti annota che il territorio di San G… contiene una singolarità nella regione detta di M….essa consiste in che per longa estensione  esistono tuttora scavate nel tufo, tortuose e diramate grotte, capaci di ricovero di moltitudine di persone, dai contadini chiamate le Grotte del Saraceno.” E poi: “…dopo lunghissime indagini d’archivio pensiamo di avere identificato le quattro epigrafi, due delle quali già note – risalenti al 1626, o agli anni successivi, che comprovano certe affermazioni: “L’anno mille sei cento venti sei li fu fatto rottura a tutti sei”, ovvero l’indicazione dell’anno in cui il governo mantovano decretò la morte dei briganti confinati nelle caverne… colà murati vivi con uomini e cavalli…” 

E infine lo stralcio di una lettera: “Il 28 novembre 1954 il padre cappuccino Innocenzo Piòvera mi scrive: Chiarissimo signor conte di A., ricordo benissimo di essermi recato a O. e nel sopralluogo eseguito di aver riscontrato tracce di metalli nel sottosuolo, ferro e anche di oro, ma dato il tempo trascorso non ho più presente né la loro entità né la profondità dove si trovano.” …Nel 1926 padre Piòvera, le cui doti di rabdomante e sensitivo erano apprezzate, durante la prima campagna di scavi, accompagnato da un confratello, cadde in autoipnosi proprio all’ingresso delle caverne. Riferì di aver visualizzato un vero e proprio squarcio di un tempo e di uno spazio alieni, diversi da quelli correnti, sorta di finestra aperta nel tunnel dei secoli, confermando così antiche narrazioni…”

Il significato oscuro si chiarisce leggendo quanto di suo pugno l’amico aveva scritto e ora in mio possesso:

O.M. 196…

Scalda l’animo al solo vederla. Ridente, eppur severa, con un imponente camino di mattoni piantato sul tetto. Bizzarro e armonico miscuglio di stili, la loro villa. Dentro ci vive col marito, storico di vaglia, la mia amica, pittrice di misconosciuto talento. Ecco che mi ha visto arrivare. Incontenibile la gioia nel vederci. Ci abbracciamo forte, rubandoci la parola. Fra poco saluterò il marito, conte di A., anch’egli contento di avermi per qualche tempo ospite. Ad attenderci pare ci sia una lepre annegata nel vino. Il soggiorno promette bene. Avremo tutta la serata per parlare degli infausti Saraceni che infestavano la zona nel X secolo, riducendo in cenere abitazioni e chiese, coadiuvati dai mali homines, indigeni con cui avevano fatto combutta. 

O.M. maggio 196…

Dal conte apprendo per sommi capi le vicende, drammatiche, che per duemila anni si sono prodotte in zona, interessando misteriose caverne e certi agghiaccianti particolari. 

Gli ipogei di S…provano il susseguirsi di tre cicli storici, il primo dell’età romana attesta l’esistenza di un Mitreo, luogo di culto del dio sole, nelle stesse caverne, con materiale tuttora ivi sepolto. Il secondo ciclo attesta  la presenza dei Saraceni nel X secolo, come confermano i cronisti dell’epoca e reperti archeologici. Il terzo ciclo vede l’occupazione delle caverne di soldati disertori, sbandati, frequenti nelle guerre seicentesche, lì presenti nel 1620-1625.
Altri documenti “intoccabili” risalenti al 1600, sono conservati in un faldone sul ripiano più alto della libreria del conte, seminascosti da un tendone. 

O. M. 196… 

Non ho preso sonno. Mi hanno tenuto sveglio i racconti del conte il cui umore è mutato. Stiamo scendendo verso le grotte. Anche la mia amica, solitamente loquace, tace.  Il cielo si è fatto livido, la boscaglia ci sovrasta, ovunque rovi alti  come un uomo ci impediscono. Il disagio è palpabile. Indugiamo davanti all’ingresso secondario, ce n’è un altro che solo il conte conosce. Sono deluso e mi chiedo: tutto qua? Infatti vedo solo un buco fra la parete di tufo e il suolo. Sono in tanti a credere che il mio ospite sappia molto di più di quello che vuol far credere. Negli anni in molti si sono affannati a cercare là sotto un fantomatico tesoro, lasciando tracce che poi si sono sovrapposte.

O.M. 196… 

Amo tutto di loro: casa, libri, i fox terrier, e soprattutto,
il coraggio di esprimersi contro corrente, solidali con la Tradizione. Sediamo sugli scalini dell’ingresso. La notte sciorina una trapunta di buio luminoso. Viatico per la mia felicità. Scriverò con lettere dorate gli avvenimenti a cui partecipano tre spiriti votati al bello, all’onorevole passato, rinnegando le convulsioni del presente. Non respiro quasi per tema di guastare l’incanto. Giuro a me stesso che mai contaminerò il nostro legame, geloso della nostra amicizia. Ho il cuore gonfio, sposterei montagne per loro, ma ho da offrirgli solo la mia umbratile sensibilità di adolescente. 
Nei discorsi ancora i Saraceni, Berberi del Marocco, naufragati nei pressi di Saint Tropez, per poi in forze, dilagare e saccheggiare il Piemonte, spegnendo anche il vescovo di Asti Eilolfo. Rovine dietro di loro. Li immagino tendere agguati, crudeli e smodati antagonisti della nostra storia.

“E poi i sarcofagi,” sussurra con teatrale astuzia il conte.
“Quali sarcofagi?” chiedo allibito, sotto il cielo che si è rabbuiato.
“Sì, due giganteschi guerrieri scolpiti nel tufo, con le mani sull’elsa della spada. Sepolcri di arabi, a quanto dicevano i testimoni, per via di certe iscrizioni illeggibili sulle pietre tombali.”
Era troppo per me quella notte. Ma il mio ospite aggiunse: “Gli addetti alla cava avranno distrutto i reperti, compresa una chiesetta romanica, per non mettere in allarme la Sovrintendenza che avrebbe bloccato i lavori.”

O.M. giugno 197…

È bella, un frutto maturo dal fascino antico. Maestra, sorella, amica, confidente. Una capigliatura di oro chiaro sempre scomposta le incornicia il volto come una nuvola. Il destino ha voluto farmi dono della sua amicizia, il destino, geloso, provvederà a separarci. La guardo, affascinato, dopo aver ammirato alcuni dei suoi ultimi dipinti, che accatasta, forse per pudore, contro il muro, celandoli alla vista. Non vedo l’ora di passeggiare con lei. Quando siamo in due le confidenze corrono più fluide. Ne avrò di cose da chiedere sui Saraceni. 

O.M. 7 giugno 197…

Emma arriva puntuale, tuttofare non ancora sfiorita. Così ficcanaso da frugare fra le carte del conte celate alla vista. Ma è devota alla mia amica. A suo cugino cacciatore si deve la lepre sotto vino. Quando se ne va il conte scoppierà in sonore risate sostenendo che la serva si è invaghita di me. E alla sera si parlerà ancora delle caverne del Saraceno. Così il conte:

“Padre Innocenzo Piòvera aveva confermato certe mie supposizioni. Ero riuscito a parlare con chi aveva scavato nella valle del G…. I due fratelli andavano laggiù, col padre, anche di notte, facevano tre turni, per non rallentare lo scavo. Una galleria di 36 metri, larga due avevano fatto, incredibile! E senza i mezzi di oggi. Ho parlato con entrambe; riempivano secchi di tufo sbriciolato, a centinaia. Senza alcuna causa apparente ripetevano di aver sentito dei boati venire da dentro la collina, e loro non volevano farci caso, e che i secchi col tufo appena scalpellato cominciavano a…ballare, poi si alzavano.”
“Come…si alzavano?” chiedo attonito.
“Volavano per aria, scagliati da forze tremende contro soffitto e pareti della galleria. Poi si sentivano dei rumori…come tronchi e rami che si abbattono, e anche…”
“…Cosa?…” sussurro implorando di ridurre l’indugio. La mia amica mi fa cenno di pazientare.
“…lamenti sempre più forti, urla disperate, disumane,” dice il marito.
Una coltre di sgomento mi avvolge mentre il conte: “Ho sentito prima uno, poi l’altro fratello e il loro racconto non mostrava discordanze. Gente semplice, si turbavano ancora al ricordo. Uno di loro, più sensibile del fratello e del padre, probabilmente innescava fenomeni paranormali con la sua sola presenza.Quando mio fratello Gino non c’era a scavare si stava tranquilli… non succedeva niente’ diceva uno dei due.”
“E poi succedeva dell’altro?” chiedo ansioso.
“Sì”
“Cosa?” oso.
“… Galline chiocciare. Nel ventre della collina, galline. E poi un altro fatto inspiegabile: su una delle pareti si proiettava una fosforescenza, che anch’io ho visto.”

6 ottobre 199…

Vado a trovarli col mio caro amico, l’editore delle opere del conte, la tristezza mi gonfia il cuore mentre la ghiaia del viale scricchiola. Mi pare ancora di sentire la voce della mia amica, le risate di lui, invece no, sono scomparsi da anni. Attraverso il cancelletto della tomba introduco un mazzo di gerbere. Addio amici, penso, trattenendo le lacrime. 

26 ottobre 2019

Alterno periodi di relativo ottimismo a convulsioni dell’umore. In questi momenti il passato mi perseguita con insulse lusinghe. Non disdegno la caritatevole benevolenza di alcuni negozianti Sick che hanno messo su bottega vicino casa. Fra verdura e frutta immangiabili ci sono anche cose commestibili e toast scaduti da un giorno. Quanto durerà questo degrado che non è solo economico? Sono solo.

Senza data
Ho traslocato. La vita cittadina era troppo cara. Qui la mia giovinezza ha conosciuto tempi migliori, qui ho assaporato l’amicizia dei miei amici. Non è stato difficile trovare fra le cascine disertate dai villici, per fare i tranvieri in città, all’inseguimento del “progresso”, una che facesse al mio caso e, perdipiù, a un tiro di fucile dalla casa in rovina dei miei amici scomparsi. 

Sena data
Ho sviluppato una facoltà sorprendente. Essa si attiva nel trapasso dal sonno alla veglia, quando le immagini oniriche sembrano non abbandonare la mente. Scene che reiterano nel dormiveglia la loro estraneità col quotidiano corrente. Accade così che i Saraceni tornino alla ribalta col loro magnetico mistero. Questo, forse, il vero motivo che mi ha fatto cercare dimora nei pressi della caverna e della villa. 

Quando vidi Emma incorniciata nello stipite della porta, un profondo turbamento mi spinse a balbettare, non udito: “È proprio lei Emma?” La vecchia che era sempre stata, mi riconduceva a loro offrendomi i suoi servigi senza che l’avessi cercata, e senza far mostra di riconoscermi. Ero dunque così mutato? Avevo timore mi riconoscesse. Veniva due volte la settimana per spostare la polvere da un posto all’altro della povera casa.
“A lei piace la lepre?” chiese un giorno. Trasalii affrettandomi a negare. Poi un mattino le chiesi:  “Chi abita lassù?” Turbata, disse: “Oh! Più nessuno c’è, lassù, da anni. La signora contessa e il conte, dei veri signori, sa? E lui cercava il tesoro, anche. Aveva segreti che nessuno sapeva, sa? È entrato nelle grotte quand’era giovane, anche!” 

Simulai disinteresse ma la donna parlò ancora. Mi addormentai a stento, sognai di sognare pur cosciente che tutto era vero. Una febbre strana mi assaliva a intervalli al solo immaginare cosa mi attendeva laggiù, richiamato dalle sirene del passato, dalla leggenda delle grotte fatta storia. In me prendeva vita la loro impronta che mi faceva amare il loro ricordo, la Tradizione, il Passato e i suoi riti perduti. 

Senza data
Nemmeno oggi uscirò. La smagliante tessitura della luce incide come un bisturi il paesaggio: il sole gioca sugli arazzi verde e viola, sulle chiese dalle mura consunte su cui il tempo ha scolpito bizzarri geroglifici. Tutto risplende, opprimente. Un luogo come questo coincide con la periferia della vita. I miei nervi mal sopportano l’assalto della memoria di un bene goduto e poi perduto. Ma una forza oscura mi tiene inchiodato là, come se avessi dovuto “coincidere” con i reperti in sfacelo dei pressi.
Ho licenziato Emma inventando una mia lunga assenza. Non sopportavo averla tra i piedi. Vittima di quel luogo mi consumavo nel desiderio di appartenervi. Ma in che modo?

Giugno 2021
Non esco se non di notte. Nessuno sa che sono qua.  Sto sfuggendo alle fauci del buio, ma sino a quando? Ho cominciato a sognare la mia amica. Severa, sfuggente. La sua scontrosità mi ferisce, non era mai stata così con me. Vorrei chiederle spiegazione ma si nega, come se l’avessi delusa, contrariata. Comincio a delirare, ho timore del nuovo giorno. La caverna mi attende, lo so. 

Senza data
Ho timore di non riconoscermi allo specchio. Evito ogni contatto. L’unica certezza rimasta a torturarmi e di cui non riesco a dare ragione è che nella veglia trascino  incubi fatti di memoria così veraci da spaventarmi. Sgomenta sapere che essi vivono paralleli alla vita vera.

Giugno 2021
Devo affrettarmi e osare. Là sotto c’è la vita che cerco. Non distinguo la veglia dal sogno. Scivolo in un incubo che mi porta nel ventre della valle dove si aprono le caverne del Saraceno:

Vapori umidi e spessi si alzano dal suolo. Sterpi secchi, bruciati da infiorescenze di brina. L’apertura è un rettangolo basso di tufo scalpellato. Ho paura.  Non è un luogo fisico questo, ma un brano di tempo fissato in un Tempo-spazio che lo isola, saturo di parvenze, vanamente indagate, e ora accese in me. In balia di un tempo alieno, vago.
Ho dei fiammiferi e un mazzo di stecchi secchi. Mi sembra di scorgere un bagliore. Sottoterra?! Accendo il primo fiammifero. La camera è bassa. Sulla destra un tavolo di pietra, stretto e lungo. Il fianco del tavolo si conficca nella parete. Il primo stecco si spegne. Il secondo illumina un’altra apertura, sono camere basse, una consecutiva all’altra, nel secondo ambiente devo chinare il capo. Il pavimento è in discesa. Scolpite sul lato inferiore di un cornicione tre teste di toro. Rimasugli di coppe e bacinelle riposano su una mensola murata. Su alcuni frammenti si innestano manici, con il capo a forma di aspide,  figurine di scarabei collegati con minuscoli festoni di fiori e frutti scolpiti. Tutto è infranto, sommerso dall’onda dei secoli.
Forme indistinte di metallo… forse i rilievi di padre Piòvera? Opachi diademi di morte!
Davanti al biancheggiare di ossa ridotte a pietrame la mia mente cessa. Scheletri fosforescenti, confusi con lame brandite dalle sole ossa metacarpali. Un pattume di ossa emerge dal pavimento, frammisto al morso di ferro ancora in bocca ai cavalli. Crani equini e teschi umani, ancora appesi al loro cappio, privi dello scheletro, crollato a terra. La fiammella del quarto stecco si estingue. Non hanno urlato tanto questi resti umani quanto ora sta urlando il silenzio. Ma sono io che grido insieme ai murati vivi. Stavo raccogliendo i frutti dell’aconito, che dispensa follia e morte. 

Senza data
Complice una notte senza luna scendo verso la grotta. Mi affanno fra nuvole di rovi. Indugio davanti all’ingresso laterale, indicato dal conte. Mi infilo nel cunicolo. Da una fessura filtra una luce fosforescente come se provenisse da  una… camera ardente?! La camera! c’è ancora, sottratta alla devastazione della cava. Ovvero la tomba del guerriero arabo che stringe l’elsa della sua spada di tufo. Domani tornerò qui. Mi stenderò di fianco a lui. Chiuderò gli occhi. Per sempre.       

                                                                   
Rileggendo la testimonianza mi prende una gran tristezza. L’angoscia impotente fa il resto. Oggi stesso consegnerò la corrispondenza ricevuta agli inquirenti che indagano sulla scomparsa del mio amico. Allora tutto sarà tragicamente chiaro. 

Per cercare riscontri occorre consultare:

Aldo di Ricaldone, Monferrato tra Po e Tanaro cap. X, p 484; Gribaudo Sedico
Mario Paluan, I tesori della valle di tufo, Sedico
Federico Cappello, Le grotte dei Saraceni, Associazione  Amici  della  Natura di Casale e del Monferrato 
Luigi Bavagnoli, Grotte dei Saraceni, L’ultimo mistero del Conte Mola, articolo del 28 dicembre 2011, Casale news, giornale on line. 

c’era il virus?

La copertina di DECAMEROVIRUS

Lei: “Cos’avrebbe di tanto speciale? Sentiamo.”
Lui: “Trame, soggetti, situazioni, tanto per cominciare, alcuni racconti sono da premio letterario. Nel cenacolo degli anti moderni si alternano storytellers sopraffini che conoscono bene suspense, intrigo, colpi di scena, analisi psicologica, delirio e altro.”
Lei: “Ma non sarà un calderone? Con troppa roba dentro?”
Lui: “Il rischio c’era ma le domande dell’anfitrione e le sue esortazioni verso i narranti di turno, inquadrano e definiscono le loro storie facendo emergere opinioni spesso discordanti, e significati, i quali tirano in ballo pure Dio, intelligenze artificiali, e un elegante signore che si chiama dottor Morte e anche universi paralleli.”
Lei: “Per tutti i gusti, insomma.”
Lui: “Sei la solita scettica. Ti dico che subito dopo aver letto circa le sue  trecento pagine che non ti fanno sbadigliare, mi è venuta voglia di ri leggere diverse storie. Alcune aprono spazi alla riflessione, gettano una luce impietosa e lucida sul nostro modo di vivere ed essere.”

Gianfranco De Turris, forse il conte N. del DECAMEROVIRUS

Lei: “Ho capito, ho capito, e come si chiama?”
Lui: Decamerovirus, curato da Gianfranco De Turris che, secondo me, si nasconde dietro la figura del conte N. proprietario del castello e, nell’occasione, ospitale anfitrione. Alcuni racconti potrebbero essere sviluppati fino a farne romanzi o pellicole cinematografiche. E poi c’è Abboccandrino…”.
Lei: “Abbocca che..? e chi sarebbe?”
“Un tonto presuntuoso che si fa menare per il naso dai colleghi. E la banda dei romani furfanti che ricordano i personaggi di Pasolini e Boccaccio ed  Enoch, il cacciatore che fa strage di rabid a più non posso…e anche Alessio Vouttari, Archimandrugo della Chiesa Paupastologica di Occitania che narra la storia di Marco Cocilovo ovvero il porno archeologo…”
Lei: ”Acc! Insomma un buon acquisto.”
Lui: “A proposito, che tu sappia, un virus si può beccare leccando vecchi francobolli della Prima Guerra Mondiale?”
Lei: “Mi informo. Poi ti dico.”
Lui: “E già che ci sei, puoi informarti anche se c’è stato nel 1968 un universo parallelo che ha squassato il mondo? Son cose che stanno dentro le narrazioni degli ospiti.”
Lei: “ E chi è l’editore?”
Lui: “Homo Scrivens di Napoli, con la copertina che è un programma.”

Gli autori: Donato Altomare, Alessandro Bottero, Vitaldo Conte, Luigi De Pascalis, Emanuele Delmiglio, Alessandro Forlani, Claudio Foti, Andrea Gualchierotti, Max Gobbo, Francesco Grasso, Emanuele La Rosa, Matteo Mancini, Luca Ortino, Mario Paluan, Errico Passaro, Massimiliano Prandini, Pierfrancesco Prosperi, Enrico Rulli, Ivo Scanner, Antonio Tentori.

Dalla copertina:
…Può la letteratura sconfiggere il virus? Certamente no, ma esiste modo più sano di affrontare il male che affidarsi alla forza salvifica della narrazione?…

Dalla postfazione del libro:
…I tempi rispetto ai sei secoli che ci dividono da Boccaccio sono molto diversi esteriormente, ma l’essere umano è in fondo sempre lo stesso nonostante la tecnologia: sentimenti base assolutamente simili anche se sono mutati radicalmente gli scenari…
Un’opera anomala, ti dico io che l’ho letto, perché a ogni racconto, più  o meno lungo, cambi canale, ambiente, soggetto, trama, ti sintonizzi col passato e con gli incerti presente-futuro, colmi di incognite e insoddisfacenti. Insolito il libro e la casa editrice, che qualcosa di nuovo e inedito propone nella palude dell’attuale panorama editoriale italiano.