Sognare e guarire – Asclepio e l’incubatio rituale
Patrono dei medici, eroe, guaritore in grado di restituire la salute perduta, e infine nume capace di risuscitare i morti. Se c’è un dio, durante il tramonto del mondo antico, la cui fama pare non conoscere declino, questi è Asclepio. E tutto ciò a dispetto del suo ingresso tardivo, imprevisto, nel pantheon delle grandi divinità dell’Ellade, che distanzia persino quello di un altro celebre ritardatario, Dioniso.
Quando Omero vergava i suoi versi, il figlio di Apollo – tale era l’ascendenza olimpica di Asclepio – si mischiava ancora alla calca innumerevole di progenie divina che affollava il mito greco, pur fregiandosi del notevole, ma ancora umano, rango di eroe. E come tale, sebbene al centro di vicende eccezionali, aveva affrontato il fato comune di tutti gli uomini, la morte.
Colui che i latini avrebbero chiamato Esculapio infatti, aveva ereditato dal padre divino una somma perizia nell’arte medica, giungendo a guarire i casi più disperati. Quando però le sue abilità si erano spinte fino ad arrivare a strappare all’Ade la sua tetra messe di ombre, ecco che Zeus in persona, tutore dell’ordine cosmico, l’aveva incenerito con le sue folgori, uccidendolo. Non l’ultimo, come è noto, di mortali puniti per aver osato tentare di trascendere i vincoli della propria natura.
E’ all’alba del VI secolo, quando ancora l’età classica non è sorta, che avviene la trasmutazione di Asclepio, la sua ascensione ontologica. Zeus l’ha ucciso, sì, ma non distrutto. Apollo, non immemore di quel figlio sfortunato, ottiene per lui una più che rara resurrezione, anzi di più: una vera apoteosi, che non solo riporta Asclepio alla vita, ma gli dona una completa natura divina, imperitura come quella degli olimpi.
Questa, almeno, è la versione del mito che inizia a circolare in quegli anni nella regione dell’Argolide, presso Epidauro, dove il misconosciuto culto oracolare di una divinità locale – Maleátas, patrono di una fonte sacra – viene associato prima ad Apollo, nella sua veste di medico divino, e poi, quasi senza soluzione di continuità, a quel suo figlio divenuto immortale.
E’ l’inizio del diffondersi prodigioso del culto: dopo il primo Asklepeion di Epidauro, nel giro di meno di un secolo, altri grandi santuari cominciano a sorgere negli angoli più disparati del mondo greco, assumendo l’aspetto di monumentali centri religiosi e di pellegrinaggio per i malati afflitti da ogni tipo di morbo. Cos, Pergamo: sono solo un paio delle sedi rinomate della venerazione di Asclepio, in cui sacerdoti e adepti – assieme medici e ierofanti – offrono l’opportunità ai sofferenti di guarire grazie alle norme sapienziali trasmesse dal dio. A Roma, preannunciato da una apparizione miracolosa del suo animale sacro – il serpente – gli viene eretto un celebre tempio sull’Isola Tiberina già in età repubblicana, dove ancor oggi sorge non a caso un ospedale.
Eppure, in diversi casi, per ottenere la guarigione non bastano le cure ordinarie, sovente indirizzate su pratiche salutari come digiuni, esercizi ginnici e bagni in acque medicamentose. A volte i malanni accusati dai pellegrini sono tali che solo il nume che regge il santuario può rivelarne il misterioso rimedio.
Ecco dunque che gli Asklepeia si dotano di stanze segrete, sotterranei dove i malati, ivi condotti dopo precise purificazioni rituali (in base a una rigorosa Lex Sacra, basata su sacrifici e invocazioni), compiono il rito della cosiddetta incubatio. Lasciati soli a giacere nelle sale ipogee, dopo aver bevuto spesso bevande dal contenuto soporifero, essi dormono, in attesa che Asclepio in persona, comparendo loro in sogno, gli indichi la via della guarigione.
E così spesso accade.
Infiniti, incisi nella pietra e nel marmo con artistici rilievi, sono gli ex voto che testimoniano l’intervento benefico del dio. E non mancano neanche le testimonianze letterarie; una per tutte, quella famosissima di Elio Aristide, il celebre retore del II secolo, ricordato non solo per la sua orazione “A Roma” che descrive i fasti del secolo d’oro dell’Impero, ma anche per la sua devozione, a tratti morbosa e patologica, per il medico divino.
Nei suoi quattro “Discorsi sacri”, Aristide, che essendo natio dell’Asia Minore frequentava il grande Asklepeion di Pergamo, narra senza reticenze e con entusiastica emozione il suo legame con Asclepio, che durerà tutta la sua vita. Afflitto da infiniti malanni, probabilmente attribuibili a un disagio di natura psicosomatica, l’oratore frequenta i templi e i santuari del dio, offre continui sacrifici, e soprattutto viene sovente visitato in sogno dal nume, sia durante la pratica di diverse incubationes, sia in contesti più ordinari, quotidiani. Egli è infatti un prescelto, salvato più volte da malattie che l’avrebbero portato alla morte certa senza i ricorrenti salvataggi del suo patrono celeste, di cui elenca con certosino zelo apparizioni, moniti, miracoli.
Seppur unica in termini letterari, la testimonianza di Aristide non doveva costituire una così grande eccezione nel sentire dei devoti. Proprio il santuario di Pergamo, in quegli anni, veniva frequentato da veri esperti di quel tempo nel campo della medicina, come Galeno, e il numero di ex voto pervenuto ci indica un afflusso di visitatori imponente, spesso appartenenti a ranghi sociali elevati.
Questa ascesa, comune a tutti gli altri grandi centri templari, continua ininterrotta almeno fino alla metà del III secolo, quando il dio – da tempo adorato anche in nella Pars Occidentalis del dominio romano – viene acclamato addirittura come Zeus Asklepio Soter, in una sincretistica assimilazione salvifica col sovrano dell’universo.
E se si tratta di un fenomeno comune anche ad altre divinità guaritrici (Serapide, per esempio), il grido “Grande è Asclepio!” continua a risuonare a lungo anche quando inizia il declino dei suoi santuari più grandi.
Associata alla generale decadenza che affligge da tempo le province elleniche in età imperiale, li diradarsi delle visite alle case di guarigione del nume si può attribuire non tanto al diffondersi, specie nelle regioni microasiatiche, del culto cristiano, quanto all’aumentata insicurezza dei tempi, che rende costoso e sconsigliabile il pellegrinaggio agli Asklepeia. Le invasioni degli Eruli in Grecia, giunti fino ad Atene, dei Goti nelle metropoli della provincia d’Asia, contribuiscono a fiaccare territori in cui la spinta religiosa dei secoli passati si è trasformata ormai, in bulimia superstiziosa, affamata di prodigi sempre nuovi, come già l’episodio narrato da Luciano di Samosata del culto fasullo del serpente Glicone (paradossalmente una sorta di reincarnazione di Asclepio), cento anni prima, aveva iniziato a mostrare.
E certamente, la presenza sempre maggiore nelle metropoli degli adepti di un altro Salvatore, non poté non incrinare la predilezione di alcuni per il medico divino figlio di Apollo. Tuttavia, se celebre in quei giorni era la disputa tra Celso e Origene su quale dei due – Cristo o Asclepio – meritasse davvero il titolo di Soter, vero segno dei tempi, gli Asklepeia restarono in attività ancora per molto.
Specie la pratica oniromantica, legata all’interpretazione dei sogni inviati dal dio, continuò ad essere portata avanti da specifici sacerdoti, sulla scorta anche di trattati come quello di Artemidoro di Daldiano, che nel II secolo redasse un apposita opera in cinque volumi divenuta celebre nel mondo antico.
Quando già il culto di suo padre Apollo si era spento e i suoi oracoli tacevano, dunque, Asclepio ancora regnava, venerato nel tardo impero sempre più come immagine benevola del dio “Uno” e non “Unico” vagheggiato dai neoplatonici. In questo senso però, il suo essere stato uno degli avversari finali del Cristianesimo, temuto dai Padri della Chiesa come demoniaco imitatore del vero medicus animarum, si risolse sempre di più ad una questione di stampo polemico: materia per pochi, mentre il fuoco della devozione bruciava ormai altrove.
Privato di santuari ormai deserti, oppure addirittura occupati dai fedeli del suo nemico per farne chiese, il dio venuto da Epidauro dovette accontentarsi di onori privati, di sacrifici di teurgi solitari, cedendo infine il passo alla nuova religione nel corso del V secolo.
La fonte sacra di Epidauro, acqua di salvezza per almeno dieci secoli, scorreva ormai silente.
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Andrea Gualchierotti, romanziere e saggista, collaboratore di Tiricordiquando? ci ha inviato il post su Asclepio.
Andrea Gualchierotti (Roma, 1978) vive e lavora in provincia di Roma. Appassionato del Fantastico e del mondo antico, ha pubblicato romanzi e racconti per diversi editori fra cui Gli Eredi di Atlantide, Le guerre delle Piramidi e La stirpe di Herakles. Collabora con l’associazione culturale Italian Sword&Sorcery . Suoi contributi, che spaziano dal fantasy fino alla storia delle religioni e alla numismatica, possono trovarsi sulle pagine delle riviste Dimensione Cosmica, il Giornale OFF, Hyperborea e L’Intellettuale Dissidente.









