Sotto il segno di Urania

Ci sono opere delle quali si apprezzano anche i punti e le virgole, è il caso de Sotto il segno di Urania  (per una storia dell’immaginario italiano), recita il sottotitolo, di Gianfranco de Turris. Il volume è stato appena pubblicato da Oaks editrice. L’opera sfugge a ogni seppur volenterosa classificazione, se mai ci fosse bisogno di inquadrarla in un genere letterario. Si legge come un romanzo, ma romanzo non è, e neppure saggio o antologia, quello che sicuramente fa è fornire gli strumenti a chi intenda inoltrarsi nell’intricato dedalo della genesi della fantascienza italiana. Sotto il segno di Urania  riserva sorprese a non finire, appassiona e intriga, attraverso la formidabile messe di nomi, date, riferimenti storici, sociali, politici e culturali. La sua equilibrata prosa trascina comunque spingendo a leggere ancora e ancora, fino all’appendice, anch’essa di rilievo. L’opera soddisfa gli appetiti degli appassionati di fantascienza e non. I primi scopriranno la ricchezza racchiusa in una miniera di informazioni e dati tutti godibili, i secondi saranno tentati di sondare l’universo fantastico italiano dischiuso dall’opera. Basta lasciarsi trasportare dal racconto (forse abbiamo trovato il termine appropriato) da rimandi, annotazioni e confronti per scoprire una verità parallela e affascinante. Sotto il segno di Urania suscita anche interrogativi: la davvero impressionante marea di titoli, autori, editori che si sono cimentati nell’offrire supporto e nutrimento alla nascita e al prodigioso sviluppo del fantastico italiano, conduce a un dubbio: e se la vera realtà, la più autentica, genuina e spontanea non fosse quella quotidiana, ma quella descritta nelle opere? onirica e imaginifica, grottesca e formidabile, spesso eccessiva e sbalorditiva proprio come il pensiero dei suoi creatori? La vera vita, insomma, sarebbe quella immaginata/immaginaria, col corredo dei suoi ambienti e invenzioni fantastiche, riedificata infine dalla Fantascienza. Ovvero la dimensione virtuale onirica che diventa autentica vita, in sostituzione di quella assai più piatta del quotidiano. Essa realizza il pensiero senza limite, dando corpo all’incubo o al sogno di un mondo migliore. 
Sarebbe poi eresia includere negli autori del fantastico quello più spettacolare e grande del mondo, interprete del fantastico allegorico teologico, ma sì, l’insuperato Dante Alighieri? A mio avviso scrittore fantastico per eccellenza. Una cosa appare fuori di dubbio: il termine “fantascienza” con la sua osmotica natura e le innumerevoli sfumature e contaminazioni appare sfuggente, pregnante, penetrabile al massimo grado; indica una morfologia concettuale e creativa vastissima e Gianfranco de Turris in questa opera, ce ne fornisce ampia dimostrazione. Qui di seguito alcuni suoi interventi più significativi: 

Pag. 144 “(…) La parabola di Luigi Capuana sembra quasi quella di Sir Arthur Conan Doyle che passò dal razionalismo assoluto di uno Sherlock Holmes allo spiritismo di cui divenne famoso sostenitore e divulgatore. Un aspetto dello scrittore siciliano che è come una filigrana sottotraccia della sua sterminata narrativa e che sarebbe il caso di riscoprire e studiare finalmente e in modo organico per fargli assumere il posto che gli compete alle origini del fantastico e della fantascienza italiani…”


Pag. 160: “(…) Verne e Salgari sono
riusciti a ben individuare quali sarebbero stati i lati negativi, gli errori del “mondo moderno”, del brave new world: il progresso vertiginoso che immaginavano ai loro tempi non avrebbe portato soltanto benefici materiali, ma anche effetti nefasti sull’umanità che non sarebbero riusciti a ripagare del tutto il benessere fisico. È una critica, anche abbastanza esplicita, a quella che oggi viene definita l’“americanizzazione del mondo”, non tanto in termini di super tecnologia alla portata di tutti, quanto di come l’American way of life ha profondamente modificato il nostro modo di vivere e di essere, quindi la nostra mentalità: ricerca disperata della prosperity a ogni costo, efficientismo, velocità, spasmodico arrivismo, commercializzazione di tutto (compresa l’istruzione e la cultura), ogni cosa ridotta a merce, declassamento dell’umanesimo, trionfo dello scientismo, dittatura delle banche e della finanza. È lo Specchio Oscuro della Modernità in cui noi oggi ci riflettiamo. Basti osservare l’umanità odierna che in tutto il mondo cammina, mangia, conversa, lavora, gioca con in mano cellulare e smartphone che guarda o maneggia incessantemente, always connected con tutto il mondo...Quello di Verne e Salgari era un mettere in guardia i contemporanei nei confronti di un futuro negativo che non volevano si realizzasse. Hanno fallito, non ci sono riusciti, si deve dire, ma così hanno scritto entrambi delle vere, piccole distopie anticipandone i dettami concettuali: società che paventavano e che noi viviamo in pieno sulla nostra pelle…”

Pag. 199: “ (…) L’Italia non ha una “tradizione” fantastica e fantascientifica vasta come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna: il “fantastico” si bloccò con l’Orlando furioso dell’Ariosto, e dal Cinquecento in poi praticamente nulla apparve, imperando l’Umanesimo prima, l’Illuminismo poi (le eccezioni– Carlo Gozzi, ad esempio – confermano la regola). Per di più, il Romanticismo italiano fu essenzialmente “politico” e “civile”, impegnato come fu nelle Guerre d’indipendenza…”

Dalle note dell’autore: “ (…) Uno dei temi che più mi ha interessato nella mia vita di critico e antologista è stato, dal momento in cui ne ho avuto consapevolezza, quello del nostro immaginario, delle origini e dello sviluppo nel corso dei decenni della narrativa fantascientifica, fantastica e orrorifica italiana, e che penso di essere stato uno dei primi, se non forse il primo, a indagare con una certa metodicità, insomma, la cosiddetta “protofantascienza”. 

nelle immagini: la copertina, l’autore Gianfranco de Turris, la città di Antonio Sant’Elia.

scriveva il grande Ernest?

Non so se hai mai letto ISOLE NELLA CORRENTE del grande Ernest, ultima sua opera prima del suicidio. Opera minore che parla di un pittore, dei suoi figli e delle relazioni fra lui e loro, di bevute stratosferiche seduti al bancone di un bar, di una battuta di pesca, probabilmente una delle migliori che siano mai state scritte, della morte tragica dei figli, e anche della caccia a una combriccola di soldati crucchi. Il racconto, come ti ho detto, non pè dei migliori, ne parlo tuttavia perché ti “costringe” a leggerlo fino alla fine, questa è la magia della scrittura di Hermingway. Sarà il mito che H. seppe nutrire o subire? Sarà il personaggio fragile e malato, a detta del suo amico Orson Welles, Hemingway: aspirante rodomonte dai piedi d’argilla. I personaggi ricorrenti a bevute dall’alto tenore alcolico per sopportare l’onere della loro esistenza, sono individui “provvisori” , spacconi, o aspiranti grandi artisti, percorrono esistenze senza sbocco né costrutto, Ma se vuoi sapere come si pesca e si perde un pesce gigantesco nell’oceano e i “fragli” rapporti fra padre e figli il libro fa per te. In molti personaggi avverti la loro inconfondibile natura americana, che è quasi un leit motiv, riscontrabile anche in altri autori, una navite, una fanciullezza dello spirito, il loro stupore davanti alla natura e al mondo in genere. Quello che mi preme sottolineare è che in un libro come questo, forse un po’ noioso, dove le vicende sono vissute da perdenti vive quella scrittura che ha reso grande lo scrittore americano. Quanto il mito di H. pesi sui suoi lavori influenzando i lettori è evidente. Lo sai scritto da lui, per cui predisponi la tua attenzione. Tanto basta a seguirlo fino alla fine, che in questo caso non prevede un finale eclatante, né eroico, né tantomerno da vincente.

Hai letto H. e tanto deve bastare. Per dirla come il mito del personaggio sopravanzi o confonda il vero valore della sua opera. Il suo “marchio” comunque lo avverti, fatto di disperazione, depressione, e fallimento esistenziale sottotraccia,. Se malato, come davvero lo è stato, un grandissimo malato, un fragile logorroico, reduce dalla vita come molti dei suoi personaggi, nato con la penna in mano, e morto con la penna in mano. Uno che aveva conosciuto e ammirato non poco Gabriele D’annunzio e i suoi Arditi, per poi rimangiarsi l’ammirazione scrivendo a Chicago nel 1922 a proposito del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” . Effettivamente di noi gli Americani capiscono pochino.

c’era l’America?

Si fa presto a dire: America. Ma quale America?! subito uno si chiede. Il gran continente suscita sentimenti contrastanti da subito, pro e contro, amore odio, senso di superiorità verso il paese fanciullo, o ammissione di inferiorità della vecchia Europa, eccetera. Non è questo il punto. Se penso però a quello che gli USA ci hanno dato in termini di scrittori, registi, attori, scienziati allora la testa mi gira e mi unisco al coro di chi ama e ammira quel Paese riconoscendone la superiorità e unicità.
Gente del calibro di Poe, Lovecraft, Steinbeck, London, Miller, e poi Marlon Brando, Bogart, Orson Welles e Papa Hemingway, meglio che non mi faccia prendere la mano, l’elenco è interminabilie. Tutta gente genuinamente ed esclusivamente americana che ha fornito interpretazioni e rappresentazioni inedite di sé e del proprio tempo. Per cui evviva l’America! Dicevo di big Papa Hemingway, ci ho messo due mesi a pensare a cosa scrivere perché i fiumi di inchiostro su di lui non si contano e poi su Orson Welles che merita un discorso a parte, trattandosi di genio allo stato puro.

Tra l’altro i due, erano amici, anche se Welles era estraneo al clan di Hemingway, come si evince da un video in cui il grande Orson parla del grande Ernst dicendo anche che lo scrittore era molto malato e che ha calcato inevitabilmente le orme del padre, morto suicida. Di Hemingway è stato detto sin troppo, e oggi si fatica ancora a distinguere la grandezza indubbia della sua scittura dal mito che ancora aleggia attorno a lui. Si sentiva spiato (ed era vera la cosa) dall’ FBI ed era arrivato a scambiare per agenti segreti due becchini che bevevano una bibita seduti al bar, dopo il lavoro. L’America lo utilizzava come informatore mentre lo sospettava di simpatie comuniste vista la sua amicizia con Castro. Insomma, incognite e guai hanno costellato la sua esistenza.

Quand’ero all’Havana mi sono imbattuto in alcune sue tracce e le ho seguite. Non è stato difficile. Floridita, Bodeguita del medio, la sua casa Finca Vigia, raggiunta inutilmente perché la casa era chiusa e così ho potuto solo sbirciare dalla finestra. Allora lavoravo per l’ente del turismo cubano come fotografo per cui mi hanno fatto scorrazzare in lungo e in largo per l’intera isola; l’autista mi ha condotto fino a Cojimar a incontrare Gregorio Fuentes ispiratore del VECCHIO E IL MARE. Cosa pensi che mi abbia detto il vecchio Gregorio che portava Hemingway a pescare marlini? “He was a great gay” e poi si è fermato coi ricordi come era solito fare con tutti quelli che lo visitavano, andando poi, come da copione, a prendere ‘l’album delle foto. Che Papa Hemingway avesse conosciuto, apprezzato e poi criticato il nostro Gabriele D’Annunzio e i suoi Arditi è cosa assodata, magari riprenderò l’argomento in altri post. Passo e chiudo.

Se vuoi leggere qualche mio scritto

Philip Marlowe indagava?

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Se anche te, come me ti abbandoni alle delizie del brivido e del giallo qui c’è una cosetta mica male; un capolavoro. Fiumi di inchiostro versati per elogiare la grandezza di questo autore gattofilo e con la pipa in bocca e le sue opere, divenute ormai un classico della letteratura. Chi dice: crimine, pistole fumanti, bionde favolose e conturbanti e America anni Quaranta dice Raymond Chandler. Un ambiente fascinoso e violento e di grande presa sul lettore.

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Interpretazioni sociologiche e corsi universitari sull’opera di Chandler. Ne avevo seguito uno anch’io all’università Palazzo Nuovo di Torino. Maestro del giallo e inventore del celebre investigatore Philip Marlowe. Perché ne parlo? Perché ho riletto per la quarta volta, a distanza di anni, Blues Bay City e ancora ho scoperto cose nuove. Come se fosse un vero classico.
Chandler ha scritto opere in cui psicologia e azione si intrecciano, ricchi di ritratti d’ambiente, suggestivi nella loro veridicità. Ma non solo, tralasciando l’aspetto meramente poliziesco, questi noire ci parlano di un’America segreta, notturna, di luoghi in cui il crimine appare così ovvio e connaturato con l’ambiente e coi personaggi da sembrare come evento ed epilogo naturali, quasi scontati.
Un unico modo di concepire l’esistenza: all’insegna della violenza, pieno di omicidi, abiti scintillanti, donne strepitose e cappelli flosci Borsalino. come fossero stelle cadenti.
È un’America assonnata, notturna, quella che Chandler tratteggia, popolata da bionde ubriache dalle curve mozzafiato, poliziotti ambigui che la sanno lunga, da gorilla guardaspalle grandi come montagne, da baristi e portieri di notte, sempre al corrente di misfatti, occultamenti e fughe. Fra ville misteriose e strade male illuminate, dottori equivoci alle prese con siringhe di morfina, il crimine dilaga; questa è l’America che in Blues di Bay City prende il sopravvento; gente con la pistola facile che usa il cloroformio come acqua di colonia e lo sfollagente come fosse un pettine. Una scialba umanità sconfitta, dedita al delitto come unica soluzione di vita. Di onesti ce ne sono davvero pochi in circolazione, e se ci sono, sembrano comunque coinvolti (poliziotti in primis) in un fango indigesto che porta un solo nome: vizio senza riscatto. Col suo strascico di morti ammazzati. Scotch a fiumi, per sciacquarsi denti e budella. Pistole che spariscono e ammazzano, informatori e loschi camerieri che raccolgono sui divani di night club aspiranti cadaveri.  E la trama? Il meccanismo è sempre il medesimo. Tutto comincia da una telefonata di Violetta Mc Gee della squadra omicidi. Per simpatia, affetto o altro, avvisa il nostro detective. Il quale spesso esce con le ossa rotte e senza intascare i soldi nemmeno per un panciotto usato. Ma lui chi è?

Certo John Dalmas, padre di Philip Marlowe, un individuo che deve possedere un fascio di neuroni concentrati sulla meccanica dei crimini e sul modo per dipanarli. Uno che poteva fare solo quello nella vita: fiutare, come un segugio implacabile, spiegando nauseato, amareggiato e senza trionfalismi, la trama dei delitti. Dalmas si dedica ai crimini come un maestro delle elementari cura i propri scolaretti, con la stessa partecipazione. E il paragone finisce lì perché i maestri non vengono cloroformizzati né trattati con lo sfollagente. Quello che invece succede a ogni pagina al nostro detective. Grande Chandler.

UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI Blues di Bay City
e altri racconti di Raymond Chandler.
Traduzione dall’inglese di Attilio Veraldi. Con una copertina dell’ufficio grafico Feltrinelli assai suggestiva.
Nel 1980 l’avevo pagato 3500 lire. Non si può dire che fosse proprio a buon mercato.

c’erano i pellerossa?

Colonizzazioni, sfruttamento, repressione indiscriminata, persecuzioni e stermini sono termini che trovano sicuro e immediato riscontro nel panorama della storia degli ultimi secoli. Ma prima di offendere la reputazione di inglesi, spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi e alla fine anche italiani, (il ruolo dei giapponesi merita un discorso a parte per via del loro abominevole sadismo durante gli ultimi conflitti) dicendo che siamo stati assassini feroci e stupratori di popoli, voglio darti prima qualche notizia, dopo aver curiosato qua e là in vari siti.

Le informazioni sono provate da fatti, documenti e dati alla mano e non ci sono state obiezioni contrarie al riguardo, se mai ammissioni. In quattro secoli si ritiene che tra i 55 e i 100 milioni[1] di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano difese immunitarie, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari. (Mao tse Tung era riuscito a sterminare “solo” settanta milioni di cinesi, ma lo ha fatto a casa sua, Stalin e Hitler una quindicina di milioni mal contati.) Altre fonti sostengono che lo sterminio in cinque secoli riguardasse 114 milioni di “barbari.” Solo nel Nord America i morti furono 18 milioni. Ossia sotto Manhattan, la Casa Bianca, Seattle e Los Angeles e via discorrendo si trovano più ossa di indiani massacrati e deportati che altro. Ho il macabro gusto delle metafore. Ma detto così fa più effetto. Altre notizie dicono: Vennero ridotti in schiavitù moltissimi nativi e utilizzate le ricchezze del loro territorio fertile e dal sottosuolo ricchissimo, favorendo di fatto lo sviluppo economico in tutta l’Europa, e non solo in Spagna e Portogallo.

I maggiori sostenitori e beneficiari di questa politica di sfruttamento furono infatti il Regno Unito, Spagna, Portogallo Francia e i Paesi Bassi. Sostanzialmente, i colonizzatori crearono un continente dal quale attingere oro, argento (utilizzando la manodopera dei nativi ridotti in schiavitù) e prodotti agricoli da monocolture (installate bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell’arrivo di Colombo)….Ben presto però, fra tutti i coloni, prevalsero gli inglesi che giunsero a dominare l’intera fascia costiera, dove un po’ alla volta si formarono 13 colonie, il nucleo fondamentale di quelli che un secolo più tardi divennero gli Stati Uniti d’America (1776).[2] Nel 1864, durante la guerra di secessione americana, avvenne una delle battaglie indiane maggiormente degne di infamia, denominata non a caso il Massacro di Sand Creek. Una milizia locale, al comando di John Chivington (il quale sosteneva l’eliminazione dei nativi, e che essi andavano «scalpati tutti, grandi e piccoli»[24]), attaccò un villaggio Cheyenne ed Arapaho situato nel sud-est del Colorado ed uccise e mutilò indistintamente uomini, donne e bambini. I soldati, molti di loro ubriachi, stuprarono le donne e fecero il tiro al bersaglio con i bambini. Penso che basti, altre amenità  le puoi rinvenire nel sito Genocidio dei nativi americani. Queste le sommarie notizie di un massacro dell’altro ieri.
Quello che voglio dire senza poter essere smentito e che allo sviluppo europeo e americano ha contribuito in modo determinante l’attività  predatoria di ieri, su popolazioni che stavano a casa loro, indisturbate e che, prendendo a pretesto la lori inferiorità (presunta) l’Europa, culla di civiltà  antica li abbia massacrati, depredando la loro terra, impunemente. Non sono passati millenni, ma due secoli, una inezia nella Storia.

Nella storia vince il più forte? Sì, sempre, anche se il vero barbaro è quello con la maschera del civilizzatore che sta “educando” i barbari. Come si chiamano i più forti? spagnoli, portoghesi, americani, inglesi, e francesi. I cinesi han fatto le cose in casa liquidando decine di milioni di persone, ai russi, e ai tedeschi si sa come è andata. Il nuovo mondo, se guardi bene la faccenda, è stato edificato su sterminati cimiteri dove i cadaveri erano fitti come spighe di grano. Insieme agli uomini e donne Navajo, Sioux, Cherokee è stata distrutta la loro spiritualità, che avevano in abbondanza, Non so cosa sia rimasto del Grande Spirito o Wakan Tanka, so cosa abbiamo fatto noi del nostro. Perché indignarsi davanti a una realtà di fatto? Accusare Inglesi, Spagnoli, Francesi e Americani? A che pro? Sarebbe velleitario, antistorico. Ci ha provato anche Marlon Brando e qualcuno ha detto che era una trovata pubblicitaria. Perché l’attore disse: “Per 200 anni abbiamo detto al popolo indiano, che si batteva per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere liberi: ‘Deponete le armi, amici, e potremo vivere insieme’. Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito loro. Li abbiamo truffati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘i trattati’, che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita”.

Questo disse il grande divo e io che non ho nessuna voce in capitolo e che mi manca un’audience planetaria come era la sua, ma che posso vantare ben 44 followers! dico: Le nazioni più potenti del mondo sono state edificate sulle ossa di montagne di cadaveri, beh, nemmeno tanto originale, ti pare? Allora cosa resta? non credere ai titoli dei giornali, non indulgere ad analisi preconfezionate e di parte, ma informarsi, andare a vedere come trattavano i pellerossa i soldati con la giubba blu e grigia. E cosa facevano i coloni vomitati dall’Europa, che gli era diventata stretta, eccetera, per creare l’ultimo o il primo dei mondi indesiderabili. Vedi tu come considerarlo. Per informazioni di prima mano ti consiglio di leggere Tropico del Capricorno e Il giorno della locusta. Ma questa è un’altra storia.

c’era la grande foresta?

La Grande Foresta

C’è un libro che non mi stanco di rileggere, è La Grande Foresta. Ogni volta le sue pagine suggeriscono un fascino diverso, nuove avvincenti emozioni, mondi scomparsi, inghiottiti dal progresso febbrile e dai singulti di una nazione neonata.

Parliamo del rito della caccia, simile a un’iniziazione sacrale, il gusto del sangue versato dal gigantesco Ben, del silenzio, dell’attesa, della paura e della fatica. Quel libro l’ha scritto un gigante della letteratura. Il grande William Faulkner.  Spiega Mario Materassi, nella bella edizione di Adelphi  che LA GRANDE FORESTA, magistralmente tradotto da Roberto Serra, è un capolavoro poco conosciuto.  Frettolosamente catalogato dalla critica come storia di caccia, così scrissero Michael Millagate, Malcom Cowley, Martin Pedersen. La morte di un orso e l’agonia di un cane, entrambe speciali, entrambe simboli di una terra mitica, destinata a essere inghiottita da pionieri ruggenti di scrittura protestante che bevevano whisky bollito e che trascinavano nella foresta infestata la moglie gravida.

Il selvaggio Algonchino e Choctaw e Natchez. Mille spagnoli e poi francesi e inglesi, poi ancora spagnoli e ancora inglesi. Definitivamente.Vengono alla memoria le carabine arrugginite e i negri pieni di sonno, i tronchi morti della foresta, l’uomo che mangiava formiche e ancora l’orso mitico, il vecchio Ben, al di fuori di ogni regola e che viveva col piombo in corpo di cento pallottole e poi l’indiano Chickasaw col cuore di un cavallo e la mente di un bambino, con occhi piccoli e duri come bottoni e poi cacciatori, abili nel sopravvivere, e i cani e l’orso e il cervo messi fianco a fianco, trascinati dalla foresta. Nella ricca terra alluvionale nera e profonda che faceva crescere il cotone più alto della testa di un uomo a cavallo. Un’unica rete commerciale avrebbe presto venato come una ragnatela il subcontinente abbracciato dal Mississipi, cancellando per sempre la foresta.

Un finto libro sulla caccia che invece scava nella geografia, nel mito di una natura ancestrale, prossima a dissolversi. È un racconto senza trame dichiarate ma con una solida ossatura e una trama interiore precisa e incalzante. Ho trovato LA GRANDE FORESTA ogni volta diverso, suggestivo, profondo, in quella prosa modernamente piana, ripetitiva quanto mai, e anticipatrice di Faulkner. Mi piace pensare che il fascino ipnotico e intriso di analitico rigore narrativo farà guadagnare nuovi lettori al libro. A volte certi capolavori, come questo, non se ne conosce il motivo, giacciono inesplorati, lontani dal clamore pubblicitario e dalla gogna o enfasi della critica letteraria, per rilasciare molto tempo dopo un fascino e una crudezza fuori del comune. È il caso de LA GRANDE FORESTA. Sorta di denuncia radicale, attualissima, e condanna senza remissione contro la furia cieca e devastatrice del progresso che sopprimerà creature uniche come il cane, l’orso primordiale e il loro ambiente. Decisamente attuale, non ti pare?


Il mio insopprimibile desiderio di scrivere su Amazon.

leggevi il Grande Gatsby?

Il Grande Gatsby

Ci metti le mani dentro e trovi solitudine, smarrimento, incomunicabilità e morte. E anche sacchi di denaro appartenente a gente abituata a vivere sopra le righe, fra ville sontuose, automobili mozzafiato e idrovolanti.

E quella prosa didascalica, colloquiale e pacata, come se si stesse redigendo un normale resoconto di fatti con persone che si danno appuntamento ai bordi di piscine mentre la musica jazz suona, inducendo smarrimento e facendoti arrivare alla fine di quei nove capitoletti con un senso di amara impotenza, sotto le insegne dell’ineluttabile. Era l’America, sognata, inseguita, il sogno che solo a pochi riusciva di realizzare, sogno amaro e talora mortifero, ovvero la ricchezza. Il Grande Gatsby si dipana fra feste, inviti, amori impossibili e arrivismo sfrenato, l’epilogo sarà una tragedia multipla con effetto domino e una solitudine senza rimedio.
E quella luce verde, poi, simbolo struggente e negato, alla fine del libro. Storia di ordinaria follia? No, non è follia, è qualcos’altro. Si può dire ancora qualcosa sul Grande Gatsby dopo le centinaia di recensioni, critiche e incensamenti? Vediamo se occorre. Dentro il Grande Gatsby c’è tutto quello da cui decenni dopo, Kerouac, i motociclisti di Easy Raider e Hemingway tentavano di fuggire. Il sogno infranto, la coscienza del dopo, la pochezza dell’esistenza senza radici, il malessere delle nuove generazioni, lo smarrimento esistenziale, e il vuoto assoluto di valori. Dietro una gran vetrata si agitano, soffrono e soccombono donne fascinose e fragili, certamente diverse da quelle intraviste ne IL GIORNO DELLA LOCUSTA di West. (Non che quelle fossero migliori). Ma cos’è che sognava ancora l’americano degli anni Venti? E soprattutto: aveva ancora qualcosa che assomigliasse a un sogno? Secondo me non ce l’aveva più.
L’americano aveva smesso di sognare molto prima, quando, finito di colonizzare quella terra vergine con le sue smanie di possesso e di sfruttamento, ne prendeva le misure, considerandone la vastità e quindi la finitezza. LA GRANDE FORESTA di Faulkner insegna. E ne erano passati di anni. Aveva smesso di sognare quando, steso l’ultimo tratto di ferrovia coast to coast si era guardato intorno considerando che non c’erano più territori vergini da ammansire, riempiendoli con sbornie, progetti, evangelizzazione e intenzioni di progresso.
Interrotti i sogni, aveva smesso vagabondaggi e conquiste di praterie (perché non c’erano più nuove praterie) sostituendo carabina e cavallo col sigaro, gilet e cappello a cilindro, ancora La Grande Foresta. Nuove città sfavillanti avevano soppiantato la provvisorietà di saloon e baracche di legno. Stavano nascendo gli Stati Uniti moderni. E con essi le classi del nuovo potere.

I thought of Gatsby’s wonder when he first picked out the green light at the end of Daisys dock. his dream must have seemed so close that he could hardly fail to grasp it. He did not know that it was already behind him, somewhere back in that vast obscurity beyond the city, where the dark fields of the republic rolled on under the night. Gatsby believed in the green light, the orgiastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but thats no matter to-morrow we will run faster, stretch out our arms further.  Sogni, appunto, ma vissuti in dolorosa solitudine, senza più né praterie né fertili pascoli da strappare ai pellerossa. 

Rape, sesso, Dio e l’auto nuova

La via del TabaccoLe rape fanno gola a molti. Cosa c’è di più succulento? Per le rape si arriva alla zuffa, del resto è l’unico cibo reperibile nel raggio di 20 miglia

Il loro legittimo e momentaneo proprietario vorrebbe legare al letto la sua sposa dodicenne, ritrosa bambina dai cappelli d’oro, spaurita al punto da negarsi ai desideri legittimi del marito. Così egli viene a chiedere consiglio allo suocero il quale, attirato dalle rape, gli piomberà addosso per divorare quel bendidio. Nel frattempo la cognata del proprietario delle rape, orrida maschera dal labbro spaccato, dà spettacolo, strofinandosi addosso a costui, affamata di sesso e rape. Intanto c’è qualcuno che spara pallonate contro una parete, schiodando le tavole di casa sua. È il fratello della bambina sposa e della ragazza dalla faccia di coniglio.  Si chiama Dude, è un po’ tonto e verrà sposato a forza a una predicatrice mignotta e senza naso. Gli altri personaggi non si elevano al di sopra di questi disperati senza futuro e nemmeno l’incendio finale riuscirà a purificare la prospettiva di quelle vite miserrime.

La storia l’ha scritta il grande Erskine Caldwell.

LA VIA DEL TABACCO è il ritratto duro e inesorabile di una parte d’America in panne, ai tempi della grande crisi. Campi di cotone della Georgia ormai abbandonati, miseria sociale, umana, futuro negato e fame. Perché è importante riparlarne? Perché nei mattoni che hanno fatto la grandezza dell’America odierna ci sono anche o soprattutto loro, disperati e perdenti, appartenenti a livelli psicologici sub umani. Risulta quindi talvolta arduo rintracciare i semi generativi della grandezza di quella nuova civiltà. Soprattutto se pensiamo a UOMINI E TOPI, a IL GRANDE GATSBY, all’inarrestabile opera di devastazione che si avverte ne LA GRANDE FORESTA di Faulkner, o al GIORNO DELLA LOCUSTA. Una crisi di valori, sociale, umana e psicologica senza precedenti accompagna e (inquina?) la fondazione dell’impero a stelle e a strisce. E sotto questa luce che intendiamo, ad esempio, ricercare la figura di Dio in questo libro. Se ne parla spesso, viene tirato in ballo a sproposito, ci si riempie la bocca col suo nome; mal compreso e usato per secondi fini. Dio esce piuttosto malconcio dalla vicenda, subendo un declassamento significativo. Il Dio de LA VIA DEL TABACCO è un’entità funzionale, figura da esortare e da rimbrottare se le cose non vanno per il verso sperato. Un Dio elementare, scevro di profondità. Entità alla portata di tutti che permette ingiustizie e soprusi e che include, fra i suoi infimi ministri, figure come sorella Bessie, predicatrice ninfomane che impalma il ragazzo un po’ tonto, promettendogli che gli farà suonare la tromba della sua nuova auto.
Esempi eloquenti del declassamento di Dio ce ne sono in abbondanza:

Il Signore dovrebbe dire al diavolo di andarsene e di smettere di tentare i buoni…

Forse se parlassi io stessa a Pearl invece di raccomandarla a Dio, dormirebbe con suo marito nel letto. Forse io so più di Dio quello che conviene dirle.

Il Signore mi diceva che dovrei trovarmi un altro marito….Il Signore potrebbe trasformare anche mio marito in un predicatore e si viaggerebbe tutte e due diffondendo il Vangelo…il Signore ed io potremmo insegnargli come si predica. Non è difficile, quando ci si è fatta la mano.

Dovrai aspettare che domandi a Dio se vai bene. Dio è un po’ difficile quando si tratta dei suoi predicatori, specie se devono sposare le sue predicatrici.

Il Signore aveva maledetto questa casa disse Bessie. Non ha voluto che rimanesse ancora in piedi. Benedetto sia il Signore….

Ma ci sono altri protagonisti sulla VIA DEL TABACCO ormai dismessa. Protagonisti muti, come la vecchia nonna che sarà uccisa dall’improvvisa retromarcia dell’auto guidata dal nipote. Una morte che corrisponde perfettamente alla sua vita: silenziosa, condotta in solitudine nel mutismo totale. La nonna: non conosciamo nulla di lei, sappiamo solo che ha fame, che vede, sente, soffre e osserva come tutti gli altri, e che anche lei ama l’auto; la nonna è quasi un oggetto a cui nessuno bada, tanto grande è la sua retrocessione esistenziale nell’ambito della comunità; deve badare a se stessa, senza un lamento. Alla nonna, corrisponde in positivo un altro soggetto, una protagonista non umana, di grande spicco e provvista di vita autonoma. È una Ford sportiva da 800 dollari, concupita da tutti. L’auto è l’oggetto meraviglioso che affascina. Nera, nuova, fiammante, simbolo verace della nuova America. L’auto verrà, dopo alcuni giorni di vita, guastata per imperizia, dopo essere stata lucidata con le lunghe gonne da tutte le donne.
Nulla e nessuno si salva su LA VIA DEL TABACCO. Con le balestre malandate, la carrozzeria ammaccata, la tappezzeria strappata, l’auto rappresenta il vero e unico futuro per quei disgraziati. Catalizzatrice di sogni e aspirazioni. Dea concupita al culmine del desiderio. Vero e unico simbolo al cui richiamo nessuno resiste.
E se il suo destino fosse quello di sostituire Dio?

Ho scelto un’edizione vintage, che cade a pezzi,  Mondadori su licenza di Einaudi, del 1960. I libri del Pavone. Traduzione di Maria Martone. Costava 250 lire! e fra le perle della collana cui appartiene ci sono i 49 RACCONTI di Hemingway e IL MAGO di Maugham.