L’ America di Trump e noi

L’onnisciente Artificial Intelligence, se consultata in rete, alla voce William James, recita: “L’utile è il criterio del vero, e il valore di ogni concezione, perfino metafisica, risiede nelle sue conseguenze pratiche.” secondo alcune fonti di psicologia e filosofia e www.filosofico.net. Questa frase riassume il nucleo del pragmatismo, una corrente filosofica che secondo alcune fonti enfatizza l’importanza delle conseguenze pratiche e dell’utilità nell’individuare la verità. In altre parole, una credenza o un’idea è considerata vera se porta a risultati positivi e funzionali nella vita reale, indipendentemente dalla sua corrispondenza con una realtà oggettiva. Questo approccio si applica anche a concezioni più ampie, come quelle metafisiche, che vengono valutate in base alla loro capacità di guidare l’azione e di portare a un miglioramento della condizione umana.”  Ci pare che questo basti per porre sotto la lente di ingrandimento il luogo in cui queste idee abborracciate hanno attecchito più che altrove. Lo facciamo attraverso le tesi di due grandi pensatori del secolo trascorso, e, per quanto riguarda l’odierno, con l’ausilio di

Gillian Tett, famosa columnist del Financial Times. Nel vivo dell’America desacralizzata, ex gendarme del mondo. Soggetto di scottante attualità e di contrasti smarrenti. 

“(…) Anche l’America ha creato una civiltà che rappresenta la precisa contraddizione dell’antica tradizione europea. Essa ha introdotto definitivamente la religione della pratica e del rendimento, ha posto l’interesse al guadagno, alla grande produzione  industriale, alla realizzazione meccanica, visibile, quantitativa, al di sopra di ogni altro interesse. Essa ha dato luogo ad una grandiosità senz’anima di natura  puramente tecnico collettiva, priva di ogni sfondo di trascendenza e di ogni luce di interiorità e di vera spiritualità…
Nella foto in alto Gillian Tett e in bianco e nero William James

Così se l’America non ha, come il comunismo, messo ufficialmente al bando l’antica filosofia, ha fatto qualcosa di meglio: per bocca di William James ha dichiarato che “il valore di ogni concezione, perfino metafisica, va misurato dalla sua efficacia pratica, la quale, nel quadro della mentalità americana, finisce quasi sempre col voler dire economico sociale…Tutti possono diventare tutto alla condizione di un certo addestramento, l’uomo in se’ e una sostanza informe plasmabile, cosi come il comunismo vuole che egli sia, quando, in biologia, considera come antirivoluzionaria  e antimarxista la teoria genetica delle qualità innate…Il comunismo sovietico professa ufficialmente l’ateismo. L’America non giunge a tanto, ma, senza accorgersene, essendo anzi spesso convinta del contrario, corre lungo la china in cui nulla più resta di quel che negli stessi quadri del cattolicesimo aveva significato di religione…La sola vera religione americana è il calvinismo, come quella concezione per cui la cellula vera dell’organismo non è l’individuo ma il gruppo. Agli occhi di un Americano puro l’asceta non è che un perditempo, un parassita della società; l’eroe, nel senso antico, non è che  una specie  di pazzo pericoloso da eliminare  con opportune profilassi pacifiste e umanitarie, mentre il moralista puritano fanatico viene circondato da una fulgida aureola….Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo “nomade dell’asfalto” realizza la sua nullità dinanzi al regno immenso della quantità, ai gruppi, ai trust, e agli standard onnipotenti, alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche, mentre i dominatori sono incatenati alle cose stesse che essi dominano, in tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più, in una forma ancor più senza volto, che nella tirannide del regime sovietico. La standardizzazione intellettuale, il conformismo, la normalizzazione obbligatoria  e organizzata in grande sono fenomeni tipicamente americani, ma pur collimanti con l’ideale sovietico.
Nulla di più falso che l’anima americana sia aperta, spregiudicata: non ve n’è altra che abbia tanti tabù. Ma essa li ha fatti propri in tal guisa, che non se ne accorge nemmeno. Lo standard morale corrisponde a quello pratico dell’americano. Il comfort alla portata di tutti e la superproduzione nella civiltà dei consumi che caratterizzano l’America sono stati pagati col prezzo di milioni di uomini ridotti all’automatismo nel lavoro, formati secondo una specializzazione ad oltranza che restringe il campo mentale ed ottunde ogni sensibilità…Stalin e Ford si danno la mano e, naturalmente, si stabilisce un circolo: la standardizzazione inerente ad ogni prodotto meccanico e quantitativo determina e impone la standardizzazione  di chi lo consuma, l’uniformità dei gusti e così via. (…) “(*)
Dalla rete si evince anche: “Marx sosteneva che nel capitalismo i mezzi di produzione (come le fabbriche e le macchine) tendono a diventare un fine a sé stante, anziché rimanere semplici strumenti per la produzione di beni utili. In altre parole, l’accumulazione di capitale e la crescita della produzione diventano obiettivi prioritari, spesso a scapito del benessere dei lavoratori e della società nel suo complesso. Questo processo, secondo Marx, porta a una serie di contraddizioni e squilibri nel sistema capitalistico. 

E per quanto concerne l’oggi: Una giornalista indaga affondando il suo scandaglio nel magma desacralizzato del sistema capitalistico a stelle e a strisce, e nei complessi meccanismi politico finanziari della “civiltà” d’oltreoceano. 
Lucidità e competenza delle sue analisi, profondità nella disamina e acume nell’interpretazione di dati ed eventi caratterizzano il suo lavoro spesso associato a indubitabili doti di “preveggenza” dei fenomeni. Gillian Tett è fra le voci più significative nel sondaggio del cosiddetto sogno americano. Columnist del Financial Times, la giornalista si occupa eminentemente di finanza di quel paese, (ma non solo) correlata alla politica.
Debito pubblico, asset, bond, investimenti, mercati e stagnazione costituiscono solo alcuni dei temi che sono pane quotidiano per i suoi articoli, capaci di interessare anche i non addetti ai lavori. Fra i temi privilegiati dei suoi articoli gli accadimenti e le ripercussioni economico-politiche finanziarie del gran paese, fino a poco tempo fa, gendarme del mondo. Qui di seguito un brano di un suo recente articolo: 

Financial Times, 4 luglio 2025 
The Lunar Society is a cautionary tale for Trump’s America
When political populism collides with scientific innovation, there is usually only one winner
“Questa è la storia della Lunar Society, una rete di imprenditori, scienziati e cittadini curiosi, nata a Birmingham a metà del XVIII secolo. Si basava su cene tenute durante la luna piena per favorire i viaggi (da cui il nome). Nel corso di diversi decenni, questa rete ha dato il via a invenzioni che hanno accelerato la rivoluzione industriale, tra cui la scoperta dell’ossigeno e dell’acqua gassata (di Joseph Priestley), motori a vapore avanzati (James Watt) e ceramiche innovative (Josiah Wedgwood). Consideratela una versione settecentesca della Silicon Valley, un luogo in cui l’innovazione è esplosa perché gli individui chiave erano vicini gli uni agli altri e operavano in una comunità intellettualmente diversificata e libera con molti meno controlli politici rispetto a luoghi come Londra. Nel 1791 la Gran Bretagna sperimentò un’ondata di polarizzazione politica e populismo. I gruppi attaccarono i laboratori della Lunar Society, innovatori come Priestly emigrarono e la rete crollò. “Il danno è andato oltre la distruzione fisica”, osserva David Cleevely, un imprenditore britannico, in un nuovo libro, Serendipity. “Le rivolte hanno inviato un chiaro messaggio sulla vulnerabilità delle reti intellettuali alle pressioni politiche . . . e si è diffuso un clima di paura”. Questo risuona 234 anni dopo. Ad Harvard, ad esempio, 2 miliardi di dollari di finanziamenti per (principalmente) la ricerca medica sono a rischio a causa della vendetta politica del presidente contro l’università. Alla Nasa, metà del budget per la ricerca scientifica è a rischio in base ai piani di finanziamento di Trump per il 2026. Si prevede che miliardi di dollari verranno cancellati anche dai bilanci della National Science Foundation e del National Institutes of Health. In effetti, Cassidy Sugimoto, professore di politiche pubbliche al Georgia Institute of Technology, ha suggerito questa settimana a Londra che la totalità delle mosse di Trump significava che la scienza avrebbe dovuto affrontare un “taglio del 50%” in tutti i finanziamenti del governo americano per la ricerca. “Trump ha tagliato i finanziamenti alla scienza ai livelli più bassi degli ultimi decenni”, ha lamentato. Ma ciò che è notevole quanto questi numeri è la paura suscitata dagli attacchi politici di Trump alle cause “svegliate” (come la diversità) e alla scienza che i suoi sostenitori populisti non amano (come la ricerca sui vaccini). La Casa Bianca insiste inoltre sul fatto che le strutture di finanziamento scientifico erano così gonfiate da richiedere una revisione per innescare una nuova “età dell’oro” della scienza. Inoltre, non vi è alcun segno che questo attacco abbia effettivamente danneggiato la macchina dell’innovazione in luoghi come la Silicon Valley – o almeno non ancora. Forse questa non è una sorpresa. In campi come l’intelligenza artificiale, una quota crescente della ricerca avviene ora nel settore privato. E molti innovatori in California stanno cercando di isolare il baccano proveniente da Washington e concentrarsi invece sui propri progetti. “È una tattica di coping”, mi dice uno. Ma la morale della saga della Lunar Society è che nessuna rete di innovazione è sicura. Questo attacco è follemente autodistruttivo. Quindi, questo 4 luglio, speriamo che lo scioccante attacco di Trump alla scienza venga invertito. Nel frattempo, i leader aziendali e i politici del Paese devono urgentemente sostenere gruppi di lobby come 314 Action, che si oppongono ai piani di Trump, e far sentire la propria voce. Pensaci la prossima volta che vedrai una bottiglia di acqua frizzante e poi ricorda il 1791”. 

Ignoriamo se le conoscenze di Gillian Tett comprendano le pagine di (*) Rivolta contro il mondo moderno e le critiche di Karl Marx al capitalismo. E non sappiamo come consideri le convinzioni, per noi nefaste, di William James. 

Nella foto Gillian Tett con Emanuele della Valle (Tods)

te la do io l’America!

Gli articoli di Lorenzo Ferrara molti dei quali inediti, come questo brano, coprivano un vasto range di argomenti. Cronaca, attualita politica, Storia erano fonte di continua “ispirazione”. Dai libri coglieva l’essenziale, come in questo caso:
Pag 44
La sua crescente arroganza, in parte come difesa contro i suoi sentimenti di abbandono e come antidoto alla sua mancanza di autostima, è servita da copertura protettiva per le sue sempre più profonde insicurezze.

Pag 198
La sua vita attuale è simile a quella di quando aveva tre anni: incapace di crescere, imparare o evolversi, di regolare le sue emozioni, moderare le sue risposte o assorbire e sintetizzare informazioni.
Le sue insicurezze hanno creato in lui un buco nero di bisogno che richiede costantemente la luce dei complimenti che scompare non appena li assorbe. Niente è mai abbastanza. Non è semplicemente debole, il suo ego è una cosa fragile che deve essere rafforzata in ogni momento perché sa nell’intimo che non è niente di quello che afferma di essere. Sa di non essere mai stato amato. Non sa nulla di politica, educazione civica o semplice decenza umana; è completamente impreparato a risolvere i suoi problemi. Sembra che ci sia un numero infinito di persone disposte a unirsi alla claque che lo protegge dalle sue inadeguatezze mentre perpetua la sua fiducia in se stesso. 

Pag. 211
Il paese ora soffre della stessa positività tossica che mio nonno ha utilizzato specificatamente per soffocare la moglie malata, tormentare il figlio morente e danneggiare, oltre la guarigione, la psiche del suo figlio preferito.”
Hai certamente capito di chi sta parlando il libro.
L’autrice è Mary Trump, psicologa clinica con un dottorato di ricerca e insegnante di corsi di specializzazione in psicologia dello sviluppo e del trauma. È l’unica nipote di Donald Trump e in passato si è espressa contro lo zio. 

How my family created the world’s most dangerous man recita il sottotitolo, di Mary L. Trump
Oggi Donald regge gli Stati Uniti, democraticamente eletto, oltre ad alzare dazi, fa pappa e ciccia con BIBI the butcher, prolungando la tragica messa in scena di Gaza, per edificare, si dice, un Tigullio medio orientale. Del resto la pulizia (etnica) della zona, con annessa deportazione, l’aveva già pronosticata suo genero, ignoriamo se incoraggiato dalla moglie Ivanka Trump, neo ebrea per vocazione.

Donald trova il tempo di bamboleggiare col criminale russo, e prendersela con due icone sacralizzate del pop rock, definendo Bruce Springsteen ‘Questa prugna secca di un rocker’. The Guardian Ben Beaumont-Thomas, 16 maggio 2025. Donald lo attacca  dopo i discorsi infuocati di Springsteen che aveva detto di lui cose poco carine, quali: “traditore”, “presidente inadatto” a capo di “un governo canaglia”, e di una “amministrazione corrotta, incompetente e traditrice”. Beh Bruce ci va giù duro e Donald risponde per le rime, definendo Springsteen sulla sua piattaforma Truth Social,  “non un ragazzo di talento, altamente sopravvalutato, ma solo uno JERK invadente e odioso”.

Mentre “Trump che detesta chi non lo ama, lancia un nuovo attacco a Taylor Swift The Independent, Inga Parkel, 16 maggio 2025, sostenendo che la soubrette non è più sexy da quando lui ha detto di odiarla. La superstar pop si è trovata dalla parte sbagliata per aver appoggiato Kamala Harris. Donald ha condotto anche altri attacchi contro di lei sostenendo che la superstar “non è più alla moda”, scrivendo dal suo account Truth Social: “Qualcuno ha notato che, da quando ho detto ‘IO ODIO TAYLOR SWIFT’, lei non è più ‘hot?’” dice il sornione Donald con le maniche rimboccate, prima di una seduta di golf. Mentre Harry The british prince se ne sta zitto per via del permesso di soggiorno in bilico che Donald aveva già minacciato di ostacolare per via dell’uso confesso di stupefacenti da parte del principe. Per la serie “ve la do io l’America!”

memorie-polemica-indagine
raccolte in un volume:

Poe mentiva? (3)

A closeup of the bird silhouette on the branch.

“Tutto nella vita di questo poeta è difficile e oscuro; Edgar Allan Poe mentiva come un persiano: non per uno scopo preciso, ma così, a vuoto, per il gusto di mentire o forse nemmeno per quello: così come si respira.” 

Un attore che, rivolgendosi alla sua cara mamma,  scriveva in una lettera a MARIA CLEMM  (*) – New York (Filadelfia) 7 luglio 1849:

«Mia cara, cara mamma, sono stato tanto malato, ho avuto il colera, o le convulsioni, certo qualcosa di ugualmente brutto e ora posso appena tenere in mano la penna…La gioia di vederti ci compenserà quasi dei nostri dolori. Possiamo almeno morire insieme. Inutile discutere con me ora; bisogna ch’io muoia. Non ho nessun desiderio di vivere da quando ho terminato Eureka…per amore tuo sarebbe dolce vivere, ma bisogna che moriamo insieme…Sono stato portato in carcere una volta da quando sono venuto qui per ubriachezza: ma quella volta ero ubriaco. Fu per Virginia.”
Nessuna firma


(*) Sorella del padre di Edgar Allan Poe, David Poe, Jr., Maria Poe, nata il 17 marzo 1790, fu ben più di una zia per Edgar, tanto che il poeta la considerò sua madre, chiamandola affettuosamente  “Muddy”. Il 16 maggio 1836 Maria divenne anche suocera di Edgar, quando egli sposò sua cugina Virginia.
Giovanissimo, Poe si invaghì di Elena Stannard, madre di un suo compagno di studi.
Inconsolabile per la precoce morte della donna, dalle lettere si desume che per parecchi mesi si recò solo, di notte, anche sotto la pioggia, a piangere sulla tomba di lei. Ma non è certa la lunghezza del cordoglio, alcuni dicono che sulla tomba si recò solo un paio di volte.  
In una lettera dell’11 settembre 1835 scritta a John P. Kennedy, Richmond, uno dei pochi suoi ammiratori: “…Scusatemi caro signore, la confusione di questa lettera. I miei sentimenti in questo momento sono davvero degni di compassione. Soffro per un profondo abbattimento spirituale  come non mi è mai accaduto in passato. Ho lottato invano contro questa malinconia. Sono misero e non so perché.   Consolatemi se potete…convincetemi che vale la pena, che almeno è necessario vivere… , e vi sarete davvero dimostrato mio amico…”

L’estrema povertà in cui viveva, lo costrinse addirittura ad usare le lenzuola del corredo matrimoniale (portate in dote dalla sposa) come sudario per la moglie stessa. Chiede danaro, amicizia, favori, cibo e impieghi di lavoro. Rifiuta inviti a pranzo chiedendo in prestito al suo stesso ospite 20 dollari per potersi presumibilmente abbigliare con decenza onde accettare il suo invito, scrive a Giovanni P. Kennedy – Baltimora, domenica 15 marzo 1835:“Caro signore,
Il vostro gentile invito a pranzo oggi mi ha ferito sino al cuore. Non posso venire, e per ragioni di una natura molto umiliante per via del mio aspetto. Potrete immaginarvi la mia profonda mortificazione nel rivelarvelo ma è stato necessario. Se volete essere mio amico sino al punto di prestarmi venti dollari vi farò una visita domani, altrimenti sarà impossibile, e mi piegherò al mio destino.
Sinceramente vostro
E.A. Poe

Lo cacciano da West Point per insubordinazione.
“Sono abbandonato interamente alle mie risorse, senza professione e con pochissimi amici. Peggio di tutto sono senza un soldo” scrive da Baltimora a John P. Kennedy nel novembre del 1834.  Da Richmond scrive ancora a John P. Kennedy il 7 giugno 1836 a proposito di una nuova casa: “Caro signore,
Mi trovo temporaneamente in una piccola difficoltà e mi permetto di ricorrere ancora una volta a voi per aiuto. ..Vi sarei assai obbligato se poteste prestarmi la somma di cento dollari per sei mesi, sarei così in condizione di far onore alla cambiale che matura fra tre mesi.”
In una lettera a Giovanni Allan, (padre adottivo) Richmond, martedì 20 marzo 1827
Caro Signore,
Abbia la gentilezza di inviarmi il mio baule col mio vestiario. …Non avendo ricevuto né il baule né una risposta alla mia lettera ne desumo che lei non l’abbia ricevuta.  Mi trovo nella più dura necessità, non avendo toccato cibo da ieri mattina. Non ho un posto dove dormire di notte, girovago per le strade, sono quasi esausto. La supplico, come non vorrà che si compia la sua predizione sul conto mio  mi mandi senza indugio il baule che contiene i miei vestiti e mi presti, se non vuole darmelo il danaro per le spese di viaggio a Boston (dodici dollari)…”
Dopo la firma una postilla: “Non ho un centesimo al mondo con cui procurarmi del cibo.”


La sua sete di attenzione e la mancanza di soldi sono croniche. Non si fa scrupolo di chiedere danaro ad amici e parenti, professando amicizia e affetto. Scrivendo a Frederich Thomas, New York , 4 maggio 1845: “…Da tre o quattro mesi lavorato quattordici o quindici ore al giorno, sempre a sgobbare…Non ho mai saputo prima che cosa sia essere schiavi. Eppure Thomas, non ho guadagnato…Dì a Dow da parte mia che non ho mai avuto la possibilità di rimborsarlo…Nemmeno il diavolo in persona è stato così povero. ” E scrivendo da Fort Moultrie, porto di Charleston il 1 dicembre 1828 a John Allan: “…Sono stato nell’esercito americano per tutto il tempo consentito dal mio scopo e dalla mia inclinazione, adesso è ora che ne venga via… Aiuti pecuniari io non ne chiedo a meno che non vengano dalla sua decisione libera e imparziale…I miei più affettuosi saluti alla mamma….”
Da Fort Monroe, Virginia, 22 dicembre 1828: “…Se desidera dimenticare che sono stato suo figlio, io sono troppo orgoglioso per rammentarglielo nuovamente… padre mio non mi respinga come un essere degradato, Voglio essere l’onore del suo nome… Disprezzato, sarò doppiamente ambizioso, e il mondo sentirà parlare del figlio che lei ha ritenuto indegno della sua attenzione…” anche a questa lettera il padre adottivo non risponde. E poi: da Baltimora,  20 maggio 1829:
“ Caro babbo,
Ho ricevuto stamane la tua lettera con accluso un assegno di cento dollari e di questa generosa somma puoi essere sicuro che sarò riconoscente…Sono riuscito a trovare la nonna e i miei parenti, ma il fatto che mio nonno era quartiermastro generale  di tutto l’esercito degli Stati Uniti durante la guerra della Rivoluzione è nettamente dimostrato…”

Sotto il segno di Urania

Ci sono opere delle quali si apprezzano anche i punti e le virgole, è il caso de Sotto il segno di Urania  (per una storia dell’immaginario italiano), recita il sottotitolo, di Gianfranco de Turris. Il volume è stato appena pubblicato da Oaks editrice. L’opera sfugge a ogni seppur volenterosa classificazione, se mai ci fosse bisogno di inquadrarla in un genere letterario. Si legge come un romanzo, ma romanzo non è, e neppure saggio o antologia, quello che sicuramente fa è fornire gli strumenti a chi intenda inoltrarsi nell’intricato dedalo della genesi della fantascienza italiana. Sotto il segno di Urania  riserva sorprese a non finire, appassiona e intriga, attraverso la formidabile messe di nomi, date, riferimenti storici, sociali, politici e culturali. La sua equilibrata prosa trascina comunque spingendo a leggere ancora e ancora, fino all’appendice, anch’essa di rilievo. L’opera soddisfa gli appetiti degli appassionati di fantascienza e non. I primi scopriranno la ricchezza racchiusa in una miniera di informazioni e dati tutti godibili, i secondi saranno tentati di sondare l’universo fantastico italiano dischiuso dall’opera. Basta lasciarsi trasportare dal racconto (forse abbiamo trovato il termine appropriato) da rimandi, annotazioni e confronti per scoprire una verità parallela e affascinante. Sotto il segno di Urania suscita anche interrogativi: la davvero impressionante marea di titoli, autori, editori che si sono cimentati nell’offrire supporto e nutrimento alla nascita e al prodigioso sviluppo del fantastico italiano, conduce a un dubbio: e se la vera realtà, la più autentica, genuina e spontanea non fosse quella quotidiana, ma quella descritta nelle opere? onirica e imaginifica, grottesca e formidabile, spesso eccessiva e sbalorditiva proprio come il pensiero dei suoi creatori? La vera vita, insomma, sarebbe quella immaginata/immaginaria, col corredo dei suoi ambienti e invenzioni fantastiche, riedificata infine dalla Fantascienza. Ovvero la dimensione virtuale onirica che diventa autentica vita, in sostituzione di quella assai più piatta del quotidiano. Essa realizza il pensiero senza limite, dando corpo all’incubo o al sogno di un mondo migliore. 
Sarebbe poi eresia includere negli autori del fantastico quello più spettacolare e grande del mondo, interprete del fantastico allegorico teologico, ma sì, l’insuperato Dante Alighieri? A mio avviso scrittore fantastico per eccellenza. Una cosa appare fuori di dubbio: il termine “fantascienza” con la sua osmotica natura e le innumerevoli sfumature e contaminazioni appare sfuggente, pregnante, penetrabile al massimo grado; indica una morfologia concettuale e creativa vastissima e Gianfranco de Turris in questa opera, ce ne fornisce ampia dimostrazione. Qui di seguito alcuni suoi interventi più significativi: 

Pag. 144 “(…) La parabola di Luigi Capuana sembra quasi quella di Sir Arthur Conan Doyle che passò dal razionalismo assoluto di uno Sherlock Holmes allo spiritismo di cui divenne famoso sostenitore e divulgatore. Un aspetto dello scrittore siciliano che è come una filigrana sottotraccia della sua sterminata narrativa e che sarebbe il caso di riscoprire e studiare finalmente e in modo organico per fargli assumere il posto che gli compete alle origini del fantastico e della fantascienza italiani…”


Pag. 160: “(…) Verne e Salgari sono
riusciti a ben individuare quali sarebbero stati i lati negativi, gli errori del “mondo moderno”, del brave new world: il progresso vertiginoso che immaginavano ai loro tempi non avrebbe portato soltanto benefici materiali, ma anche effetti nefasti sull’umanità che non sarebbero riusciti a ripagare del tutto il benessere fisico. È una critica, anche abbastanza esplicita, a quella che oggi viene definita l’“americanizzazione del mondo”, non tanto in termini di super tecnologia alla portata di tutti, quanto di come l’American way of life ha profondamente modificato il nostro modo di vivere e di essere, quindi la nostra mentalità: ricerca disperata della prosperity a ogni costo, efficientismo, velocità, spasmodico arrivismo, commercializzazione di tutto (compresa l’istruzione e la cultura), ogni cosa ridotta a merce, declassamento dell’umanesimo, trionfo dello scientismo, dittatura delle banche e della finanza. È lo Specchio Oscuro della Modernità in cui noi oggi ci riflettiamo. Basti osservare l’umanità odierna che in tutto il mondo cammina, mangia, conversa, lavora, gioca con in mano cellulare e smartphone che guarda o maneggia incessantemente, always connected con tutto il mondo...Quello di Verne e Salgari era un mettere in guardia i contemporanei nei confronti di un futuro negativo che non volevano si realizzasse. Hanno fallito, non ci sono riusciti, si deve dire, ma così hanno scritto entrambi delle vere, piccole distopie anticipandone i dettami concettuali: società che paventavano e che noi viviamo in pieno sulla nostra pelle…”

Pag. 199: “ (…) L’Italia non ha una “tradizione” fantastica e fantascientifica vasta come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna: il “fantastico” si bloccò con l’Orlando furioso dell’Ariosto, e dal Cinquecento in poi praticamente nulla apparve, imperando l’Umanesimo prima, l’Illuminismo poi (le eccezioni– Carlo Gozzi, ad esempio – confermano la regola). Per di più, il Romanticismo italiano fu essenzialmente “politico” e “civile”, impegnato come fu nelle Guerre d’indipendenza…”

Dalle note dell’autore: “ (…) Uno dei temi che più mi ha interessato nella mia vita di critico e antologista è stato, dal momento in cui ne ho avuto consapevolezza, quello del nostro immaginario, delle origini e dello sviluppo nel corso dei decenni della narrativa fantascientifica, fantastica e orrorifica italiana, e che penso di essere stato uno dei primi, se non forse il primo, a indagare con una certa metodicità, insomma, la cosiddetta “protofantascienza”. 

nelle immagini: la copertina, l’autore Gianfranco de Turris, la città di Antonio Sant’Elia.

scriveva il grande Ernest?

Non so se hai mai letto ISOLE NELLA CORRENTE del grande Ernest, ultima sua opera prima del suicidio. Opera minore che parla di un pittore, dei suoi figli e delle relazioni fra lui e loro, di bevute stratosferiche seduti al bancone di un bar, di una battuta di pesca, probabilmente una delle migliori che siano mai state scritte, della morte tragica dei figli, e anche della caccia a una combriccola di soldati crucchi. Il racconto, come ti ho detto, non pè dei migliori, ne parlo tuttavia perché ti “costringe” a leggerlo fino alla fine, questa è la magia della scrittura di Hermingway. Sarà il mito che H. seppe nutrire o subire? Sarà il personaggio fragile e malato, a detta del suo amico Orson Welles, Hemingway: aspirante rodomonte dai piedi d’argilla. I personaggi ricorrenti a bevute dall’alto tenore alcolico per sopportare l’onere della loro esistenza, sono individui “provvisori” , spacconi, o aspiranti grandi artisti, percorrono esistenze senza sbocco né costrutto, Ma se vuoi sapere come si pesca e si perde un pesce gigantesco nell’oceano e i “fragli” rapporti fra padre e figli il libro fa per te. In molti personaggi avverti la loro inconfondibile natura americana, che è quasi un leit motiv, riscontrabile anche in altri autori, una navite, una fanciullezza dello spirito, il loro stupore davanti alla natura e al mondo in genere. Quello che mi preme sottolineare è che in un libro come questo, forse un po’ noioso, dove le vicende sono vissute da perdenti vive quella scrittura che ha reso grande lo scrittore americano. Quanto il mito di H. pesi sui suoi lavori influenzando i lettori è evidente. Lo sai scritto da lui, per cui predisponi la tua attenzione. Tanto basta a seguirlo fino alla fine, che in questo caso non prevede un finale eclatante, né eroico, né tantomerno da vincente.

Hai letto H. e tanto deve bastare. Per dirla come il mito del personaggio sopravanzi o confonda il vero valore della sua opera. Il suo “marchio” comunque lo avverti, fatto di disperazione, depressione, e fallimento esistenziale sottotraccia,. Se malato, come davvero lo è stato, un grandissimo malato, un fragile logorroico, reduce dalla vita come molti dei suoi personaggi, nato con la penna in mano, e morto con la penna in mano. Uno che aveva conosciuto e ammirato non poco Gabriele D’annunzio e i suoi Arditi, per poi rimangiarsi l’ammirazione scrivendo a Chicago nel 1922 a proposito del poeta calvo: “Mezzo milione di cristi d’italiani morti- che spinte e stimoli per la sua carriera quel figlio di puttana” . Effettivamente di noi gli Americani capiscono pochino.

c’era l’America?

Si fa presto a dire: America. Ma quale America?! subito uno si chiede. Il gran continente suscita sentimenti contrastanti da subito, pro e contro, amore odio, senso di superiorità verso il paese fanciullo, o ammissione di inferiorità della vecchia Europa, eccetera. Non è questo il punto. Se penso però a quello che gli USA ci hanno dato in termini di scrittori, registi, attori, scienziati allora la testa mi gira e mi unisco al coro di chi ama e ammira quel Paese riconoscendone la superiorità e unicità.
Gente del calibro di Poe, Lovecraft, Steinbeck, London, Miller, e poi Marlon Brando, Bogart, Orson Welles e Papa Hemingway, meglio che non mi faccia prendere la mano, l’elenco è interminabilie. Tutta gente genuinamente ed esclusivamente americana che ha fornito interpretazioni e rappresentazioni inedite di sé e del proprio tempo. Per cui evviva l’America! Dicevo di big Papa Hemingway, ci ho messo due mesi a pensare a cosa scrivere perché i fiumi di inchiostro su di lui non si contano e poi su Orson Welles che merita un discorso a parte, trattandosi di genio allo stato puro.

Tra l’altro i due, erano amici, anche se Welles era estraneo al clan di Hemingway, come si evince da un video in cui il grande Orson parla del grande Ernst dicendo anche che lo scrittore era molto malato e che ha calcato inevitabilmente le orme del padre, morto suicida. Di Hemingway è stato detto sin troppo, e oggi si fatica ancora a distinguere la grandezza indubbia della sua scittura dal mito che ancora aleggia attorno a lui. Si sentiva spiato (ed era vera la cosa) dall’ FBI ed era arrivato a scambiare per agenti segreti due becchini che bevevano una bibita seduti al bar, dopo il lavoro. L’America lo utilizzava come informatore mentre lo sospettava di simpatie comuniste vista la sua amicizia con Castro. Insomma, incognite e guai hanno costellato la sua esistenza.

Quand’ero all’Havana mi sono imbattuto in alcune sue tracce e le ho seguite. Non è stato difficile. Floridita, Bodeguita del medio, la sua casa Finca Vigia, raggiunta inutilmente perché la casa era chiusa e così ho potuto solo sbirciare dalla finestra. Allora lavoravo per l’ente del turismo cubano come fotografo per cui mi hanno fatto scorrazzare in lungo e in largo per l’intera isola; l’autista mi ha condotto fino a Cojimar a incontrare Gregorio Fuentes ispiratore del VECCHIO E IL MARE. Cosa pensi che mi abbia detto il vecchio Gregorio che portava Hemingway a pescare marlini? “He was a great gay” e poi si è fermato coi ricordi come era solito fare con tutti quelli che lo visitavano, andando poi, come da copione, a prendere ‘l’album delle foto. Che Papa Hemingway avesse conosciuto, apprezzato e poi criticato il nostro Gabriele D’Annunzio e i suoi Arditi è cosa assodata, magari riprenderò l’argomento in altri post. Passo e chiudo.

Se vuoi leggere qualche mio scritto

Philip Marlowe indagava?

CHANDLER1

Se anche te, come me ti abbandoni alle delizie del brivido e del giallo qui c’è una cosetta mica male; un capolavoro. Fiumi di inchiostro versati per elogiare la grandezza di questo autore gattofilo e con la pipa in bocca e le sue opere, divenute ormai un classico della letteratura. Chi dice: crimine, pistole fumanti, bionde favolose e conturbanti e America anni Quaranta dice Raymond Chandler. Un ambiente fascinoso e violento e di grande presa sul lettore.

CHANDLER16

Interpretazioni sociologiche e corsi universitari sull’opera di Chandler. Ne avevo seguito uno anch’io all’università Palazzo Nuovo di Torino. Maestro del giallo e inventore del celebre investigatore Philip Marlowe. Perché ne parlo? Perché ho riletto per la quarta volta, a distanza di anni, Blues Bay City e ancora ho scoperto cose nuove. Come se fosse un vero classico.
Chandler ha scritto opere in cui psicologia e azione si intrecciano, ricchi di ritratti d’ambiente, suggestivi nella loro veridicità. Ma non solo, tralasciando l’aspetto meramente poliziesco, questi noire ci parlano di un’America segreta, notturna, di luoghi in cui il crimine appare così ovvio e connaturato con l’ambiente e coi personaggi da sembrare come evento ed epilogo naturali, quasi scontati.
Un unico modo di concepire l’esistenza: all’insegna della violenza, pieno di omicidi, abiti scintillanti, donne strepitose e cappelli flosci Borsalino. come fossero stelle cadenti.
È un’America assonnata, notturna, quella che Chandler tratteggia, popolata da bionde ubriache dalle curve mozzafiato, poliziotti ambigui che la sanno lunga, da gorilla guardaspalle grandi come montagne, da baristi e portieri di notte, sempre al corrente di misfatti, occultamenti e fughe. Fra ville misteriose e strade male illuminate, dottori equivoci alle prese con siringhe di morfina, il crimine dilaga; questa è l’America che in Blues di Bay City prende il sopravvento; gente con la pistola facile che usa il cloroformio come acqua di colonia e lo sfollagente come fosse un pettine. Una scialba umanità sconfitta, dedita al delitto come unica soluzione di vita. Di onesti ce ne sono davvero pochi in circolazione, e se ci sono, sembrano comunque coinvolti (poliziotti in primis) in un fango indigesto che porta un solo nome: vizio senza riscatto. Col suo strascico di morti ammazzati. Scotch a fiumi, per sciacquarsi denti e budella. Pistole che spariscono e ammazzano, informatori e loschi camerieri che raccolgono sui divani di night club aspiranti cadaveri.  E la trama? Il meccanismo è sempre il medesimo. Tutto comincia da una telefonata di Violetta Mc Gee della squadra omicidi. Per simpatia, affetto o altro, avvisa il nostro detective. Il quale spesso esce con le ossa rotte e senza intascare i soldi nemmeno per un panciotto usato. Ma lui chi è?

Certo John Dalmas, padre di Philip Marlowe, un individuo che deve possedere un fascio di neuroni concentrati sulla meccanica dei crimini e sul modo per dipanarli. Uno che poteva fare solo quello nella vita: fiutare, come un segugio implacabile, spiegando nauseato, amareggiato e senza trionfalismi, la trama dei delitti. Dalmas si dedica ai crimini come un maestro delle elementari cura i propri scolaretti, con la stessa partecipazione. E il paragone finisce lì perché i maestri non vengono cloroformizzati né trattati con lo sfollagente. Quello che invece succede a ogni pagina al nostro detective. Grande Chandler.

UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI Blues di Bay City
e altri racconti di Raymond Chandler.
Traduzione dall’inglese di Attilio Veraldi. Con una copertina dell’ufficio grafico Feltrinelli assai suggestiva.
Nel 1980 l’avevo pagato 3500 lire. Non si può dire che fosse proprio a buon mercato.

c’erano i pellerossa?

Colonizzazioni, sfruttamento, repressione indiscriminata, persecuzioni e stermini sono termini che trovano sicuro e immediato riscontro nel panorama della storia degli ultimi secoli. Ma prima di offendere la reputazione di inglesi, spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi e alla fine anche italiani, (il ruolo dei giapponesi merita un discorso a parte per via del loro abominevole sadismo durante gli ultimi conflitti) dicendo che siamo stati assassini feroci e stupratori di popoli, voglio darti prima qualche notizia, dopo aver curiosato qua e là in vari siti.

Le informazioni sono provate da fatti, documenti e dati alla mano e non ci sono state obiezioni contrarie al riguardo, se mai ammissioni. In quattro secoli si ritiene che tra i 55 e i 100 milioni[1] di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano difese immunitarie, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari. (Mao tse Tung era riuscito a sterminare “solo” settanta milioni di cinesi, ma lo ha fatto a casa sua, Stalin e Hitler una quindicina di milioni mal contati.) Altre fonti sostengono che lo sterminio in cinque secoli riguardasse 114 milioni di “barbari.” Solo nel Nord America i morti furono 18 milioni. Ossia sotto Manhattan, la Casa Bianca, Seattle e Los Angeles e via discorrendo si trovano più ossa di indiani massacrati e deportati che altro. Ho il macabro gusto delle metafore. Ma detto così fa più effetto. Altre notizie dicono: Vennero ridotti in schiavitù moltissimi nativi e utilizzate le ricchezze del loro territorio fertile e dal sottosuolo ricchissimo, favorendo di fatto lo sviluppo economico in tutta l’Europa, e non solo in Spagna e Portogallo.

I maggiori sostenitori e beneficiari di questa politica di sfruttamento furono infatti il Regno Unito, Spagna, Portogallo Francia e i Paesi Bassi. Sostanzialmente, i colonizzatori crearono un continente dal quale attingere oro, argento (utilizzando la manodopera dei nativi ridotti in schiavitù) e prodotti agricoli da monocolture (installate bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell’arrivo di Colombo)….Ben presto però, fra tutti i coloni, prevalsero gli inglesi che giunsero a dominare l’intera fascia costiera, dove un po’ alla volta si formarono 13 colonie, il nucleo fondamentale di quelli che un secolo più tardi divennero gli Stati Uniti d’America (1776).[2] Nel 1864, durante la guerra di secessione americana, avvenne una delle battaglie indiane maggiormente degne di infamia, denominata non a caso il Massacro di Sand Creek. Una milizia locale, al comando di John Chivington (il quale sosteneva l’eliminazione dei nativi, e che essi andavano «scalpati tutti, grandi e piccoli»[24]), attaccò un villaggio Cheyenne ed Arapaho situato nel sud-est del Colorado ed uccise e mutilò indistintamente uomini, donne e bambini. I soldati, molti di loro ubriachi, stuprarono le donne e fecero il tiro al bersaglio con i bambini. Penso che basti, altre amenità  le puoi rinvenire nel sito Genocidio dei nativi americani. Queste le sommarie notizie di un massacro dell’altro ieri.
Quello che voglio dire senza poter essere smentito e che allo sviluppo europeo e americano ha contribuito in modo determinante l’attività  predatoria di ieri, su popolazioni che stavano a casa loro, indisturbate e che, prendendo a pretesto la lori inferiorità (presunta) l’Europa, culla di civiltà  antica li abbia massacrati, depredando la loro terra, impunemente. Non sono passati millenni, ma due secoli, una inezia nella Storia.

Nella storia vince il più forte? Sì, sempre, anche se il vero barbaro è quello con la maschera del civilizzatore che sta “educando” i barbari. Come si chiamano i più forti? spagnoli, portoghesi, americani, inglesi, e francesi. I cinesi han fatto le cose in casa liquidando decine di milioni di persone, ai russi, e ai tedeschi si sa come è andata. Il nuovo mondo, se guardi bene la faccenda, è stato edificato su sterminati cimiteri dove i cadaveri erano fitti come spighe di grano. Insieme agli uomini e donne Navajo, Sioux, Cherokee è stata distrutta la loro spiritualità, che avevano in abbondanza, Non so cosa sia rimasto del Grande Spirito o Wakan Tanka, so cosa abbiamo fatto noi del nostro. Perché indignarsi davanti a una realtà di fatto? Accusare Inglesi, Spagnoli, Francesi e Americani? A che pro? Sarebbe velleitario, antistorico. Ci ha provato anche Marlon Brando e qualcuno ha detto che era una trovata pubblicitaria. Perché l’attore disse: “Per 200 anni abbiamo detto al popolo indiano, che si batteva per la propria terra, la propria vita, le proprie famiglie e il proprio diritto di essere liberi: ‘Deponete le armi, amici, e potremo vivere insieme’. Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Abbiamo mentito loro. Li abbiamo truffati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti, che abbiamo chiamato ‘i trattati’, che non abbiamo mai mantenuto. Li abbiamo trasformati in mendicanti in un continente che ha dato loro la vita”.

Questo disse il grande divo e io che non ho nessuna voce in capitolo e che mi manca un’audience planetaria come era la sua, ma che posso vantare ben 44 followers! dico: Le nazioni più potenti del mondo sono state edificate sulle ossa di montagne di cadaveri, beh, nemmeno tanto originale, ti pare? Allora cosa resta? non credere ai titoli dei giornali, non indulgere ad analisi preconfezionate e di parte, ma informarsi, andare a vedere come trattavano i pellerossa i soldati con la giubba blu e grigia. E cosa facevano i coloni vomitati dall’Europa, che gli era diventata stretta, eccetera, per creare l’ultimo o il primo dei mondi indesiderabili. Vedi tu come considerarlo. Per informazioni di prima mano ti consiglio di leggere Tropico del Capricorno e Il giorno della locusta. Ma questa è un’altra storia.

c’era la grande foresta?

La Grande Foresta

C’è un libro che non mi stanco di rileggere, è La Grande Foresta. Ogni volta le sue pagine suggeriscono un fascino diverso, nuove avvincenti emozioni, mondi scomparsi, inghiottiti dal progresso febbrile e dai singulti di una nazione neonata.

Parliamo del rito della caccia, simile a un’iniziazione sacrale, il gusto del sangue versato dal gigantesco Ben, del silenzio, dell’attesa, della paura e della fatica. Quel libro l’ha scritto un gigante della letteratura. Il grande William Faulkner.  Spiega Mario Materassi, nella bella edizione di Adelphi  che LA GRANDE FORESTA, magistralmente tradotto da Roberto Serra, è un capolavoro poco conosciuto.  Frettolosamente catalogato dalla critica come storia di caccia, così scrissero Michael Millagate, Malcom Cowley, Martin Pedersen. La morte di un orso e l’agonia di un cane, entrambe speciali, entrambe simboli di una terra mitica, destinata a essere inghiottita da pionieri ruggenti di scrittura protestante che bevevano whisky bollito e che trascinavano nella foresta infestata la moglie gravida.

Il selvaggio Algonchino e Choctaw e Natchez. Mille spagnoli e poi francesi e inglesi, poi ancora spagnoli e ancora inglesi. Definitivamente.Vengono alla memoria le carabine arrugginite e i negri pieni di sonno, i tronchi morti della foresta, l’uomo che mangiava formiche e ancora l’orso mitico, il vecchio Ben, al di fuori di ogni regola e che viveva col piombo in corpo di cento pallottole e poi l’indiano Chickasaw col cuore di un cavallo e la mente di un bambino, con occhi piccoli e duri come bottoni e poi cacciatori, abili nel sopravvivere, e i cani e l’orso e il cervo messi fianco a fianco, trascinati dalla foresta. Nella ricca terra alluvionale nera e profonda che faceva crescere il cotone più alto della testa di un uomo a cavallo. Un’unica rete commerciale avrebbe presto venato come una ragnatela il subcontinente abbracciato dal Mississipi, cancellando per sempre la foresta.

Un finto libro sulla caccia che invece scava nella geografia, nel mito di una natura ancestrale, prossima a dissolversi. È un racconto senza trame dichiarate ma con una solida ossatura e una trama interiore precisa e incalzante. Ho trovato LA GRANDE FORESTA ogni volta diverso, suggestivo, profondo, in quella prosa modernamente piana, ripetitiva quanto mai, e anticipatrice di Faulkner. Mi piace pensare che il fascino ipnotico e intriso di analitico rigore narrativo farà guadagnare nuovi lettori al libro. A volte certi capolavori, come questo, non se ne conosce il motivo, giacciono inesplorati, lontani dal clamore pubblicitario e dalla gogna o enfasi della critica letteraria, per rilasciare molto tempo dopo un fascino e una crudezza fuori del comune. È il caso de LA GRANDE FORESTA. Sorta di denuncia radicale, attualissima, e condanna senza remissione contro la furia cieca e devastatrice del progresso che sopprimerà creature uniche come il cane, l’orso primordiale e il loro ambiente. Decisamente attuale, non ti pare?


Il mio insopprimibile desiderio di scrivere su Amazon.

leggevi il Grande Gatsby?

Il Grande Gatsby

Ci metti le mani dentro e trovi solitudine, smarrimento, incomunicabilità e morte. E anche sacchi di denaro appartenente a gente abituata a vivere sopra le righe, fra ville sontuose, automobili mozzafiato e idrovolanti.

E quella prosa didascalica, colloquiale e pacata, come se si stesse redigendo un normale resoconto di fatti con persone che si danno appuntamento ai bordi di piscine mentre la musica jazz suona, inducendo smarrimento e facendoti arrivare alla fine di quei nove capitoletti con un senso di amara impotenza, sotto le insegne dell’ineluttabile. Era l’America, sognata, inseguita, il sogno che solo a pochi riusciva di realizzare, sogno amaro e talora mortifero, ovvero la ricchezza. Il Grande Gatsby si dipana fra feste, inviti, amori impossibili e arrivismo sfrenato, l’epilogo sarà una tragedia multipla con effetto domino e una solitudine senza rimedio.
E quella luce verde, poi, simbolo struggente e negato, alla fine del libro. Storia di ordinaria follia? No, non è follia, è qualcos’altro. Si può dire ancora qualcosa sul Grande Gatsby dopo le centinaia di recensioni, critiche e incensamenti? Vediamo se occorre. Dentro il Grande Gatsby c’è tutto quello da cui decenni dopo, Kerouac, i motociclisti di Easy Raider e Hemingway tentavano di fuggire. Il sogno infranto, la coscienza del dopo, la pochezza dell’esistenza senza radici, il malessere delle nuove generazioni, lo smarrimento esistenziale, e il vuoto assoluto di valori. Dietro una gran vetrata si agitano, soffrono e soccombono donne fascinose e fragili, certamente diverse da quelle intraviste ne IL GIORNO DELLA LOCUSTA di West. (Non che quelle fossero migliori). Ma cos’è che sognava ancora l’americano degli anni Venti? E soprattutto: aveva ancora qualcosa che assomigliasse a un sogno? Secondo me non ce l’aveva più.
L’americano aveva smesso di sognare molto prima, quando, finito di colonizzare quella terra vergine con le sue smanie di possesso e di sfruttamento, ne prendeva le misure, considerandone la vastità e quindi la finitezza. LA GRANDE FORESTA di Faulkner insegna. E ne erano passati di anni. Aveva smesso di sognare quando, steso l’ultimo tratto di ferrovia coast to coast si era guardato intorno considerando che non c’erano più territori vergini da ammansire, riempiendoli con sbornie, progetti, evangelizzazione e intenzioni di progresso.
Interrotti i sogni, aveva smesso vagabondaggi e conquiste di praterie (perché non c’erano più nuove praterie) sostituendo carabina e cavallo col sigaro, gilet e cappello a cilindro, ancora La Grande Foresta. Nuove città sfavillanti avevano soppiantato la provvisorietà di saloon e baracche di legno. Stavano nascendo gli Stati Uniti moderni. E con essi le classi del nuovo potere.

I thought of Gatsby’s wonder when he first picked out the green light at the end of Daisys dock. his dream must have seemed so close that he could hardly fail to grasp it. He did not know that it was already behind him, somewhere back in that vast obscurity beyond the city, where the dark fields of the republic rolled on under the night. Gatsby believed in the green light, the orgiastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but thats no matter to-morrow we will run faster, stretch out our arms further.  Sogni, appunto, ma vissuti in dolorosa solitudine, senza più né praterie né fertili pascoli da strappare ai pellerossa.