posavi il pennino sulla carta?

Ti ricordi quando, mezzo secolo fa, le scrivevi lunghe lettere d’amore fino a farti indolenzire la mano? Carissima, ti penso sempre con affetto crescente, e non vedo l’ora di rivederti…Sceglievi un pennino nuovo, con la punta morbida. Così ti sembrava che il messaggio scorresse più fluido, e che le parole fossero più convincenti. Fantasie, certo, ma era l’impressione che contava. Quello che preferivi era fatto a forma di cuore, brunito, flessibile, scricchiolava sulla carta. Nella cartoleria di fronte alla scuola facevano bella mostra, tutti in fila, i pennini. Quello più flessibile, quello rigido, azzurrato addirittura, alcuni scolpiti, ma quelli erano da collezione.

Degni del negozio di un antiquario. Ce n’erano di super rigidi, d’acciaio. Tutti recavano un forellino per lasciare scendere l’inchiostro. E le boccette dell’inchiostro Pelikan, blu, nero, e perfino verde e rosso, e di altri colori, te le ricordi? Se eri diligente avevi sottomano la carta assorbente, per evitare irreparabili sbavature, quella bianca e spessa era la migliore. Comunque c’era sempre la gomma in tuo aiuto, ma si vedeva che avevi grattato. Attento a non grattare troppo, puoi fare un buco! e allora dovevi rifare tutto daccapo! La carta assottigliata avrebbe comunque denunciato il misfatto. Troppe cancellature non erano ammesse. Guardavi soddisfatto le tue dichiarazioni d’amore, mentre asciugavano lentamente fra le righe del foglio. Ti ricordi quando intingevi il pennino nelll’inchiostro? Ti macchiavi sempre l’anulare, sempre quello.

Ti ricordi quando arrivava la bidella col grembiule nero, che passava fra i banchi con l’ampolla dal beccuccio sottile e ricurvo, a riempire i calamai? Fermi e composti, se no succedeva il disastro e la bidella avrebbe versato l’inchiostro dove non doveva. Ci voleva perizia a versarlo, arrivata all’ultimo banco senza intoppi tirava un respiro di sollievo. Compiti, lettere, semplici biglietti di invito. Scrricch! faceva la punta di metallo sulla carta. A volte l’inchiostro stentava, il pennino era troppo nuovo. Ci mettevi del tuo a scrivere, era una attività più complessa delle apparenze, la tua calligrafia rifletteva il tuo umore, e se eri calmo o nervoso. Anni avevano impiegato i maestri a insegnarti come tenere la penna in mano. Tu, bambino, bambina, col colletto di plastica, bianco e rigido, o il fiocco e poi le palline che descrivevano la tua età. Ti ricordi quando rosicchiavi la punta dell’asticciola perché non ti veniva in mente subito quanto faceva la sottrazione: tredici meno sette. Quanto fa? Quanto fa? Ti ricordi quando capivi a colpo d’occhio chi ti stava scrivendo dalla calligrafia sulla busta? E di quando innestavi l’altro pennino d’acciao, più rigido di quelli bruniti, scivolava via sulla carta senza scricchiolii, era un pennino più “serio”, non c’era da scherzare con quello. Munito di stilo e rotolo di papiro, scolaro nell’antico Egitto e poi allievo nella scuola dei Greci e dei Romani, e infine amanuense, monaco benedettino, che, in bello stile, produceva capolavori miniati trascrivendo preziosi manoscritti del passato. Caro amico ti scrivo come recita Lucio Dalla nella sua bella canzone. Quanti proclami d’amore, e laconici addii e inviti imploranti, scritti col pennino intinto nell’inchiostro. Non c’era altro modo di comunicare, a parte la macchina da scrivere, ma quel modernissimo aggeggio ancora in pochi se lo potevano permettere.

Ti avevano insegnato la scrittura, a tenere la penna in mano, e quello dovevi imparare, l’arte antica di comunicare attraverso segni, disegni, lettere, cifre e simboli. La scrittura diventava parte di te. Un’arte, una dedizione, una passione. Ma non dovevi raggiungere la perfezione e il fascino sprigionato da certi codici miniati. No, solo “belle lettere”: un piacere scriverle, un piacere leggerle. La bella calligrafia: La penna e la parola devono servire all’umanità per portare un raggio di luce più brillante alla coscienza umana per portare un rivolo di più al grande oceano delle idee. Sta scritto su un documento ingiallito del primo giugno 1922, in la Scuola di una volta. Bello, eh? Ma poi qualcosa è cambiato. Ti ricordi quando riempivi pagine intere di vocali e consonanti? Dovevi migliorare i tuoi geroglifici incomprensibili, non scrivere in gotico su carta pergamena. Se ti ci mettevi di impegno ce la potevi fare, prima di andare a giocare in cortile. Ti ricordi quanto andavi fiero della tua bravura? Avresti scritto giorno e notte e crampi addio! Era il tuo primo romanzo, e non potevi certo fermarti a pagina 52. Non era uno scherzo saper tenere la penna in mano. Eri responsabile e conoscevi tutto del tuo strumento per comunicare. Anche perché c’era davvero poco da sapere. Pennino, inchiostro, un po’ di pazienza e via! E oggi? Apparati, sistemi, aggeggi dalla tecnologia impenetrabile, che non recano la tua impronta, che non rivelano se quel giorno di maggio in cui ha scritto Ti amo! eri teso, affannato o triste perché  lei ti voleva lasciare. Nulla ti rammentano, alla memoria del tuo passato e non necessitano della tua perizia. Premi un tasto e via, tutti uguali, tutti analfabeti ad un tratto. Le macchine nulla sanno di te, e nulla tu sai di loro. Se non che devi aggiornare il programma proteggendolo dai virus se non vuoi vedere il tuo video riempirsi di scarafaggi vaganti. Ma devi farlo in fretta, sei a pagina 58 del tuo romanzo. Qualcuno ha deciso di farti dipendere dalla macchina! I brividi ti vengono se leggi certi articoli. Ma c’ è di peggio perché oltre a dipendere in toto dalla macchina, l’analfabetismo invece di diminuire cresce, sotto altre forme come nel caso dell’ analfabetismo funzionale. Ma risulta ancora peggiore, come si legge su uno sconsolante articolo di Repubblica; accade a proposito del nostro antico pennino intinto nell’inchiostro che: “….Lavoriamo pigiando tasti di un computer, scriviamo e-mail e non più lettere, usiamo carte di credito e sempre meno assegni, inviamo sms, la materialità e la fisicità della scrittura si sta dissolvendo nelle specchio liquido di un display, la complessità del pensiero è ridotta ad un copia-incolla, così, giorno dopo giorno, assistiamo ad un passaggio epocale, ad una regressione generazionale, ad una trasformazione del pensiero…. Ma dai!

c’era Venere sulla terra?

KURGAe 6

Dal passato o dal futuro remoto, una lezione di vita: Milano-castello Sforzesco-dicembre 2009.
Tre unghie di luce le piovono addosso. Le minitorce illuminano il suo corpo pingue, alieno, dai fianchi enormi; le mammelle sembrano bisacce.

Sono andato a vederla quella mostra, e sono rimasto a bocca aperta. Te ci sei andato? È la Venere paleolitica di Dolni Vestonice.
Ha ventisettemila anni e sembra che arrivi dal futuro. Due tagli obliqui rappresentano gli occhi, nessun altro segno sul volto. La Venere non è sola, è in compagnia di altre sorelle che hanno ventitremila anni di meno. Le statuine di terracotta provengono dalla Moravia, insieme a ciottoli antropomorfi, vasellame di stupefacente finezza. Le compagne della sala accanto hanno pose e espressioni di incredibile modernità, dee madri, o sacerdotesse, simboli rappresentanti il legame col sacro, col divino, con l’ultrauomo, lanciano unala loro sfida dalla profondità del tempo. La suggestione è tale da suggerire la loro provenienza da un futuro remoto. Non dal passato. Ma, in fondo che differenza fa? Trentamila anni sono un attimo, un breve segmento che ci collega col passato futuro. Alcune tendono le mani nella posa di chi offre, sedute o in piedi, hanno seni minuscoli, ginocchia aguzze, l’espressione stupita, probabilmente utilizzate per riti sacri o propiziatori. Dee madri, divinità delle acque, dei boschi, delle pietre, della pioggia, simboli di uno spirito immanente in cui si ripetevano necessariamente il rito, la cerimonia propiziatoria per la fertilità dell’uomo e della terra, l’invocazione per il buon raccolto e per la fortuna durante la caccia al mammut. C’è un elemento che colpisce in tutti questi ritrovamenti.

Le armi sono completamente assenti. Perché al di là dell’aspetto “puramente” scientifico sono così importanti questi reperti? Perché narrano di un vivere armonico, pacifico, in accordo con le forze della natura, temute, rispettate e blandite; manifestano la perfetta sintonia e la partecipazione totale dell’uomo di allora in seno alla natura. Natura figlia, madre, spesso matrigna. Nel più ovvio e necessario rispetto. Comunque. Puoi dire dell’oggi la stessa cosa? No, non puoi dirla, vedi un po,’ ma e solo un esempio fra i tanti, cosa succede in Amazzonia e dell’inquinamento mortifero dei mari. L’aspetto saliente nasce proprio dal loro significato e dal messaggio che l’uomo moderno può, se vuole, scorgervi e cogliere osservando queste statuine. Non c’è ombra di armi di offesa, né tracce di riti cruenti nei reperti raccolti in piu siti. Quelle civiltà perdute vivevano pacificamente, in armonia e hanno qualcosa di fondamentale da insegnarci. A cominciare dal rispetto dell’ambiente. Te non pensi la stessa cosa?