“Com’era nel primo Ottocento la metropoli che ha fagocitato il mondo?!” Dovresti scorrere le pagine di un libriccino introvabile per saperlo: “Viaggio a Londra di anonimo.” pubblicato da Il Polifilo. Annotava Lorenzo Ferrara.“Alzi la mano chi non conosce l’“officina delmondo”. Scrive. “E chi non è stato colpito dalla mescolanza di razze, tradizioni, stili e costumi provenienti da ogni dove. Vivendoci da tanti anni Londinium non finisce di stupire. Secondario l’abbigliamento bizzarro, esibizionista o provocante, dark o heavy metal, c’è chi si acconcia come per impersonare Mohicani, Marziani, pagliacci o il Nulla.”
Per amore o per convenienza: “Da Londra è partita una colonizzazione “culturale” globale senza precedenti. La sua cifra identificativa nel mondo: l’accoglienza e la promozione delle diversità, che assomigliano piuttosto a un diktat auto imposto, ovvero va bene qualsiasi stile di vita, per necessità, convenienza o manifesto opportunismo, perché gli affari lo impongono. Londra è la vera Babele dei tempi moderni.” Era il 1834, e c’è da crederlo.
Nel 1947 gli hanno meritatamente conferito, anche il premio Nobel per la Letteratura con questa motivazione: “for his comprehensive and artistically significant writings, in which human problems and conditions have been presented with a fearless love of truth and keen psychological insight“.
Ti ricordi dell’emozione che davano le sue pagine quando André Paul Guillaume Gide scriveva: Mucchi di grano, canterò le vostre lodi. Cereali; grano fulvo; ricchezza in attesa; inestimabile provvista. Si consumi pure il nostro pane! Granai, ho la vostra chiave. Mucchi di grano, voi pure siete là. Sarete tutti mangiati prima che la mia fame sia saziata?….chicchi di grano, conservo di voi una manciata, la semino nel mio fertile campo e poi, a proposito di latte e formaggio: ...Quiete; silenzio; sgocciolio senza fine dai graticci su cui si riducono i formaggi…l’odore del latte cagliato pareva più fresco e più scipito…di un’asprezza così discreta e slavata che non la si sentiva che in fondo alle narici e gia più gusto che profumo….La crema affiora lentamente; si gonfia e si increspa e il latticello se ne spoglia…
Non mi è mai piaciuto riportare gli scritti di altri autori, ma quanto srive Gide in Nutrimenti terrestri andrebbe detto e ripetuto e insegnato nelle scuole, adottando l’opera come testo obbligatorio, anche se i cattolici avrebbero da ridire. Le sue affermazioni su Dio fanno riflettere anche se non posseggono la virulenza iconoclasta di quelle di Nietzsche: –la-responsabilità dell’uomo aumenta col diminuire di quella di Dio…La crudeltà è il principale attributo di Dio….. Comandamenti di Dio, avete reso dolente la mia anima…Fino a che punto ridurrete i vostri confini? Insegnerete forse che sempre più numerose sono le cose proibite?…Comandamenti di Dio, avete reso la mia anima malata, Avete cinto di muri le sole acque per dissetarmi…
Gide è un autore che andrebbe riscoperto, non tanto perché abbia avuto il coraggio durante un viaggio in Tunisia, Algeria e Italia, di portare avanti la sua liberazione morale e sessuale (lo ha già osannato la critica) ma per la sua sincerità e il suo ascoltare l’ultima parte di mondo che parla ancora di semplicità, autenticità, di nutrimento rustico, di cibo intatto da millenni e di cui l’uomo di allora poteva ancora disporre, ma non quello di oggi. ...Ogni fecondazione s’accompagna a voluttà. Il frutto s’ammanta di sapore; e di piacere il perpetuarsi della vita. Polpa del frutto, prova sapida dell’amore…e, a proposito delle fonti: Vi sono fonti che zampillano dalle rocce; Ve ne sono che si vedono sgorgare di sotto ai ghiacciai; Ve ne sonono di così azzurre che paiono piu profonde. …Piccole fonti assai semplici, che languiscono fra i muschi e i giunchi…Vi sono straordinarie bellezze nelle sorgenti; …vi sono straordinarie delizie a berle: sono pallide come l’aria, incolori come se non fossero, e senza gusto….Le gioie più grandi dei miei sensi sono state seti appagate. Gide è uno dei miei autori preferiti, soprattutto in Nutrimenti terrestri, per vari motivi. Gide, senza comprenderlo, vede un mondo che ha i giorni contati, le sue illuminazioni, la comunione con paesaggi naturali genuini e incontaminati è commovente, corrispondono a liberazioni ma noi oggi possiamo solo verificare la perdita di quel mondo da lui percepito e goduto, di quelle fragranze che ormai ci paiono sepolte, distrutte, perdute. Il nostro nuovo mondo si è riempito di pattume sintetico, indistruttibile, mortifero per la stessa nostra vita. Oggi Gide non potrebbe più scrivere il suo capolavoro. Perché oggi Gide, tanto per dirne una, non potrebbe piu scrivere : Ho bevuto dell’acqua quasi disteso sulla sponda dei ruscelli in cui avrei voluto tuffarmi, Acque che mai non han visto la luce; Acque straordinariamnete trasparenti, e che avrei voluto azzurre, meglio verdi…O campi bagnati d’azzurro! O campi imbevuti di miele! Prova a pensarci, dove sono oggi quelle acque e la loro purezza? Dove quei sapori antichi, intatti da secoli?
Quello che Gide non conoscerà mai, è la turpe. sistematica devastazione del nostro suolo, delle fonti, della ancora intatta natura di cui lui può disporre e godere a sazietà. La rivoluzione industriale con le sue scorie e detriti bussa freneticamente alle porte e il suo pattume non cessa nemmeno oggi di essere prodotto e diffuso, tutt’altro, esso sta crescendo a livello esponenziale. Ora, non dico che non ci siano più oasi sulla faccia della terra, zone franche o desertiche, campi incolti perché inservibili o abbandonati, o aree montagnose non calcate dall’uomo, ma certo non più incontaminate, quello che vedrà e sublimeà a Gide nessun uomo dopo di lui potrà farlo, così naturalmente, semplicemente. Oggi gli sarebbe impossibile scrivere: Scorta inesauribile! Zampillare d’acque. Abbondanza d’acqua nel profondo delle sorgenti…i paesi aridi si faranno ameni e tutta l’amarezza del deserto fiorirà. Scaturiscono più sorgenti dalla terra di quanta sete abbiamo per berle...Quanto si sbagliava Gide! E a te bastano questi dati? Sono del 22 marzo 2016 (non ho motivo di credere che il rapporto dopo 8 anni sia meno desolante, anche se posso ovviamente sbagliarmi)- Dati più che allarmanti direttamente dal Ministero della Salute: in Italia esistono ben 44 aree inquinate oltre ogni limite di legge, in cui l’incidenza di tumori sta aumentando statisticamente a dismisura. Nelle zone maggiormente contaminate, le malattie tumorali sono aumentate anche del 90% in soli 10 anni. Amen.
Vita sventurata quella di Poe, se si pensa che, a ventisette anni sposa la cugina tredicenne che muore a 25 anni. La morte della moglie Virginia Eliza Clemm lo angoscia mortalmente: “Ogni volta subii tutti gli strazi della sua morte e a ogni ritorno del male l’amavo sempre di più e mi afferravo alla sua vita con ostinazione sempre più disperata. Diventai pazzo con lunghi intervalli di orribile lucidità.” Così scrive da New York il 4 gennaio 1848 a George Eveleth chiedendo nelle tre righe finali della stessa lettera aiuto economico. Questo figlio della notte amava disperatamente la vita e fra le eccellenti manifestazioni della vita amava al sommo la creatura femminile e la sua Bellezza.
“Fra tutti gli argomenti melanconici, qual è, secondo il concetto universale dell’umanità, il più melanconico? -La Morte- fu l’ovvia risposta. E quando è più poetico questo argomento, fra tutti il più melanconico? Dopo quanto ho già abbondantemente spiegato, la risposta fu ovvia: Quando è più strettamente congiunto alla Bellezza, dunque la morte d’una bella donna è il tema più poetico del mondo e le labbra più adatte a tale argomento sono quelle di un amante orbato dell’amata”. Dalla FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE di E. A. Poe.
Scrivendo a H. D. Chapin – Fordham, 17 gennaio 1848: “Mio caro signore, qualche tempo fa la signora Shew mi fece capire che forse voi mi avreste aiutato nel tentativo di riprendere il mio posto nel mondo letterario; e ora questo aiuto mi arrischio a chiedervelo…La difficoltà per me sta nel pagamento anticipato della sala e io non ho denaro. Credo che il prezzo sia quindici dollari. Penso, senza essere troppo ottimisti, di poter contare su un pubblico di tre o quattrocento persone…Se avrete la gentilezza di concedermi l’aiuto che chiedo, vorrei prendere in affitto la sala … Ringraziandovi, credetemi il vostro Edgar A. Poe” La conferenza di Poe si tenne davanti a un pubblico esiguo, riunito nella biblioteca della Società Storica di Nuova York, giovedì 3 febbraio 1848 Scrivendo a Charles Astor Bristed chiede amicizia e ancora…danaro: – Fordham, 7 giugno 1848: “…La mia unica scusa è questa, che mi trovo condizioni disperate, in amarissima angoscia di mente e di corpo, e che mi sono guardato attorno invano, in cerca di un amico che possa e voglia soccorrermi…con pochissimo aiuto tutto andrebbe bene per me, ma non posso procurarmi nemmeno quel poco; lo sforzo per superare una difficoltà serve solo a sprofondarmi in un’altra. Mi perdonerete, dunque, se vi chiedo di prestarmi il denaro per andare a Richmond?…mia suocera vi spiegherà in quale condizione mi trovo.
Sinceramente vostro Edgar A.Poe”
Un mendicante patetico, ubriacone, spesso bugiardo, proprio lui, il grandissimo poeta visionario, invocato da Baudelaire, il finissimo psicologo, l’investigatore degli abissi dell’anima, per tutta la sua vita vide qualcun altro, assai inferiore al suo genio, arrivare prima di lui per rubargli l’ammirazione della folla e la riuscita nella vita. Dalla prefazione di Henry Furst dell’EPISTOLARIO: “…le brame appassionate della sua anima verso il bello e il vero lo resero assolutamente inadatto ai rozzi urti e alla feroce concorrenza del mercato letterario…le caverne dell’oceano, il disfacimento e il mistero che abitavano gli antichi castelli, il tuono del vento attraverso le navate della foresta, gli spiriti che cavalcavano l’uragano non visti da nessuno se non da lui e le profonde creazioni metafisiche che si libravano attraverso le camerate della sua anima, erano la sua unica ricchezza…nato sotto una cattiva stella, la sfortuna lo perseguitava anche morto. Ma la sua opera resisterà nei secoli finché durerà la civiltà nata dalla gloria che fu Grecia e la grandezza che fu Roma.
Ti ricordi quando, mezzo secolo fa, le scrivevi lunghe lettere d’amore fino a farti indolenzire la mano? Carissima, ti penso sempre con affetto crescente, e non vedo l’ora di rivederti…Sceglievi un pennino nuovo, con la punta morbida. Così ti sembrava che il messaggio scorresse più fluido, e che le parole fossero più convincenti. Fantasie, certo, ma era l’impressione che contava. Quello che preferivi era fatto a forma di cuore, brunito, flessibile, scricchiolava sulla carta. Nella cartoleria di fronte alla scuola facevano bella mostra, tutti in fila, i pennini. Quello più flessibile, quello rigido, azzurrato addirittura, alcuni scolpiti, ma quelli erano da collezione.
Degni del negozio di un antiquario. Ce n’erano di super rigidi, d’acciaio. Tutti recavano un forellino per lasciare scendere l’inchiostro. E le boccette dell’inchiostro Pelikan, blu, nero, e perfino verde e rosso, e di altri colori, te le ricordi? Se eri diligente avevi sottomano la carta assorbente, per evitare irreparabili sbavature, quella bianca e spessa era la migliore. Comunque c’era sempre la gomma in tuo aiuto, ma si vedeva che avevi grattato. Attento a non grattare troppo, puoi fare un buco! e allora dovevi rifare tutto daccapo! La carta assottigliata avrebbe comunque denunciato il misfatto. Troppe cancellature non erano ammesse. Guardavi soddisfatto le tue dichiarazioni d’amore, mentre asciugavano lentamente fra le righe del foglio. Ti ricordi quando intingevi il pennino nelll’inchiostro? Ti macchiavi sempre l’anulare, sempre quello.
Ti ricordi quando arrivava la bidella col grembiule nero, che passava fra i banchi con l’ampolla dal beccuccio sottile e ricurvo, a riempire i calamai? Fermi e composti, se no succedeva il disastro e la bidella avrebbe versato l’inchiostro dove non doveva. Ci voleva perizia a versarlo, arrivata all’ultimo banco senza intoppi tirava un respiro di sollievo. Compiti, lettere, semplici biglietti di invito. Scrricch! faceva la punta di metallo sulla carta. A volte l’inchiostro stentava, il pennino era troppo nuovo. Ci mettevi del tuo a scrivere, era una attività più complessa delle apparenze, la tua calligrafia rifletteva il tuo umore, e se eri calmo o nervoso. Anni avevano impiegato i maestri a insegnarti come tenere la penna in mano. Tu, bambino, bambina, col colletto di plastica, bianco e rigido, o il fiocco e poi le palline che descrivevano la tua età. Ti ricordi quando rosicchiavi la punta dell’asticciola perché non ti veniva in mente subito quanto faceva la sottrazione: tredici meno sette. Quanto fa? Quanto fa? Ti ricordi quando capivi a colpo d’occhio chi ti stava scrivendo dalla calligrafia sulla busta? E di quando innestavi l’altro pennino d’acciao, più rigido di quelli bruniti, scivolava via sulla carta senza scricchiolii, era un pennino più “serio”, non c’era da scherzare con quello. Munito di stilo e rotolo di papiro, scolaro nell’antico Egitto e poi allievo nella scuola dei Greci e dei Romani, e infine amanuense, monaco benedettino, che, in bello stile, produceva capolavori miniati trascrivendo preziosi manoscritti del passato. Caro amico ti scrivo come recita Lucio Dalla nella sua bella canzone. Quanti proclami d’amore, e laconici addii e inviti imploranti, scritti col pennino intinto nell’inchiostro. Non c’era altro modo di comunicare, a parte la macchina da scrivere, ma quel modernissimo aggeggio ancora in pochi se lo potevano permettere.
Ti avevano insegnato la scrittura, a tenere la penna in mano, e quello dovevi imparare, l’arte antica di comunicare attraverso segni, disegni, lettere, cifre e simboli. La scrittura diventava parte di te. Un’arte, una dedizione, una passione. Ma non dovevi raggiungere la perfezione e il fascino sprigionato da certi codici miniati. No, solo “belle lettere”: un piacere scriverle, un piacere leggerle. La bella calligrafia: La penna e la parola devono servire all’umanitàper portare un raggio di luce piùbrillante alla coscienza umana per portare un rivolo di più al grande oceano delle idee. Sta scritto su un documento ingiallito del primo giugno 1922, in la Scuola di una volta. Bello, eh? Ma poi qualcosa è cambiato. Ti ricordi quando riempivi pagine intere di vocali e consonanti? Dovevi migliorare i tuoi geroglifici incomprensibili, non scrivere in gotico su carta pergamena. Se ti ci mettevi di impegno ce la potevi fare, prima di andare a giocare in cortile. Ti ricordi quanto andavi fiero della tua bravura? Avresti scritto giorno e notte e crampi addio! Era il tuo primo romanzo, e non potevi certo fermarti a pagina 52. Non era uno scherzo saper tenere la penna in mano. Eri responsabile e conoscevi tutto del tuo strumento per comunicare. Anche perché c’era davvero poco da sapere. Pennino, inchiostro, un po’ di pazienza e via! E oggi? Apparati, sistemi, aggeggi dalla tecnologia impenetrabile, che non recano la tua impronta, che non rivelano se quel giorno di maggio in cui ha scritto Ti amo! eri teso, affannato o triste perché lei ti voleva lasciare. Nulla ti rammentano, alla memoria del tuo passato e non necessitano della tua perizia. Premi un tasto e via, tutti uguali, tutti analfabeti ad un tratto. Le macchine nulla sanno di te, e nulla tu sai di loro. Se non che devi aggiornare il programma proteggendolo dai virus se non vuoi vedere il tuo video riempirsi di scarafaggi vaganti. Ma devi farlo in fretta, sei a pagina 58 del tuo romanzo. Qualcuno ha deciso di farti dipendere dalla macchina! I brividi ti vengono se leggi certi articoli. Ma c’ è di peggio perchéoltre a dipendere in toto dalla macchina, l’analfabetismo invece di diminuire cresce, sotto altre forme come nel caso dell’ analfabetismo funzionale. Ma risulta ancora peggiore, come si legge su uno sconsolante articolo di Repubblica; accade a proposito del nostro antico pennino intinto nell’inchiostro che: “….Lavoriamo pigiando tasti di un computer, scriviamo e-mail e non più lettere, usiamo carte di credito e sempre meno assegni, inviamo sms, la materialità e la fisicità della scrittura si sta dissolvendo nelle specchio liquido di un display, la complessità del pensiero è ridotta ad un copia-incolla, così, giorno dopo giorno, assistiamo ad un passaggio epocale, ad una regressione generazionale, ad una trasformazione del pensiero…. Ma dai!
Dal passato o dal futuro remoto, una lezione di vita: Milano-castello Sforzesco-dicembre 2009. Tre unghie di luce le piovono addosso. Le minitorce illuminano il suo corpo pingue, alieno, dai fianchi enormi; le mammelle sembrano bisacce.
Sono andato a vederla quella mostra, e sono rimasto a bocca aperta. Te ci sei andato? È la Venere paleolitica di Dolni Vestonice. Ha ventisettemila anni e sembra che arrivi dal futuro. Due tagli obliqui rappresentano gli occhi, nessun altro segno sul volto. La Venere non è sola, è in compagnia di altre sorelle che hanno ventitremila anni di meno. Le statuine di terracotta provengono dalla Moravia, insieme a ciottoli antropomorfi, vasellame di stupefacente finezza. Le compagne della sala accanto hanno pose e espressioni di incredibile modernità, dee madri, o sacerdotesse, simboli rappresentanti il legame col sacro, col divino, con l’ultrauomo, lanciano unala loro sfida dalla profondità del tempo.La suggestione è tale da suggerire la loro provenienza da un futuro remoto. Non dal passato. Ma, in fondo che differenza fa? Trentamila anni sono un attimo, un breve segmento che ci collega col passato futuro. Alcune tendono le mani nella posa di chi offre, sedute o in piedi, hanno seni minuscoli, ginocchia aguzze, l’espressione stupita, probabilmente utilizzate per riti sacri o propiziatori. Dee madri, divinità delle acque, dei boschi, delle pietre, della pioggia, simboli di uno spirito immanente in cui si ripetevano necessariamente il rito, la cerimonia propiziatoria per la fertilità dell’uomo e della terra, l’invocazione per il buon raccolto e per la fortuna durante la caccia al mammut. C’è un elemento che colpisce in tutti questi ritrovamenti.
Le armi sono completamente assenti. Perché al di là dell’aspetto “puramente” scientifico sono così importanti questi reperti? Perché narrano di un vivere armonico, pacifico, in accordo con le forze della natura, temute, rispettate e blandite; manifestano la perfetta sintonia e la partecipazione totale dell’uomo di allora in seno alla natura. Natura figlia, madre, spesso matrigna. Nel più ovvio e necessario rispetto. Comunque. Puoi dire dell’oggi la stessa cosa? No, non puoi dirla, vedi un po,’ ma e solo un esempio fra i tanti, cosa succede in Amazzonia e dell’inquinamento mortifero dei mari. L’aspetto saliente nasce proprio dal loro significato e dal messaggio che l’uomo moderno può, se vuole, scorgervi e cogliere osservando queste statuine. Non c’è ombra di armi di offesa, né tracce di riti cruenti nei reperti raccolti in piu siti. Quelle civiltà perdute vivevano pacificamente, in armonia e hanno qualcosa di fondamentale da insegnarci. A cominciare dal rispetto dell’ambiente. Te non pensi la stessa cosa?