faceva a pugni il grande Jack?

Non so se hai presente quel fanciullone di Jack London, lo scrittore mito, osannato dal pubblico, meno dalla critica del tempo, un “eroe” da strada, con un talento letterario naturale, autodidatta, costretto a rapporti omosessuali durante un breve “soggiorno” in carcere; venuto dal niente e tornato a soli quarant’anni nel grembo del niente. Una meteora, un fulmine. Americano verace insaziabile di emozioni, innamorato del socialismo di Marx e della vita, fino a sfidarla di continuo e, la vita, a soli quarant’anni gli presenta il conto. Unico, intrattenibile, entusiasta e assetato di vita Jack, stroncato dalla morfina, e da uremia gastrointestinale, ma l’ipotesi del suicidio pare che non regga molto, ucciso senz’altro dagli eccessi di una esistenza vissuta all’eccesso sul filo del rasoio. In bilico instabile fra Marx e Nietzsche non è facile procedere. Su un post bene informato si legge: L’epica di Jack London è costruita intorno a molte contraddizioni. Al tempo in cui incominciò a desiderare di diventare scrittore, era socialista. Scrisse articoli in favore delle lotte operaie e degli oppressi, arrivando a giustificare atti di terrorismo, ma la sua versione del socialismo, oltre che radicalmente individualistica, vedeva nella lotta di classe una legge di natura, la lotta per la vita dove a prevalere è sempre il più forte. Il darwinismo sociale, divulgato negli Usa dal filosofo Herbert Spencer, sanciva nel predominio del più forte, più che nella difesa del debole, la regola a cui tutto si piega. London amava la boxe e scrisse contro il razzismo, ma anche sulla differenza naturale, e ineliminabile, tra le varie razze umane. Parlò di «pericolo giallo» e scrisse contro la naturale indolenza degli immigrati italiani che, una volta diventato ricco, aveva assunto nel suo ranch. Ingaggiò battaglie contro il maltrattamento degli animali nei circhi, ma fu ammaliato e attratto dalle lotte tra i cani.

Scrisse di lui George Orwell: «Ma per temperamento era molto diverso dalla maggior parte dei marxisti. Con il suo amore per la violenza e la forza fisica, la sua fede nella “naturale aristocrazia”, la venerazione per gli animali e l’esaltazione del primitivo, aveva in sé quella che si potrebbe a buon ragione chiamare una tendenza fascista».
Te ne parlo perché sto rileggendo le sue storie di boxe, tre autentiche perle, capolavori di scrittura esemplare, il meglio della letteraura di London. A mio giudizio il semiautobiografico Martin Eden non è, infatti, la sua opera meglio riuscita. Grado Zero riporta l’intero racconto dell’anziano pugile suonato che ti raccomando di leggere: straziante e crudele come spesso la vita sa essere. Se non è alta letteratura quella dimmi te cos’è. Esuberante, fascinoso, intrattenibile trionfo vitale. London dà il meglio in queste schegge di realtà, in questi quadri che ritraggono situazioni e uomini normali eppure “al limite” Ti ricordi dell’anziano pellerossa abbandonato dalla sua tribù con qualche stecco e fiammifero in mano rimasto da solo a fronteggiare lupi famelici? O dell’altro racconto breve che narra di un’altra caccia (quella all’uomo) di una vedetta a cavallo, inseguita e uccisa da una pallottola sparata con grande precisione da un gelido tiratore infallibile. Vita e morte, la sottile soglia che le divide. Il grande Jack sa cogliere nel segno, fruga nella materia confusa della vita per individuare il punto di stacco, la demarcazione che spesso mirabilmente individua e descrive, ma i suoi risultati vanno ben oltre delle sue intenzioni.

Nelle tre storie brevi sulla boxe, ad esempio, dà sfoggio di una acutezza psicologica rara, mi viene in mente l’innamoramento progressivo e tenerissimo di una commessa di pasticceria e il suo pugile, un capolavoro di introspezione psicologica, quasi commovente, tanto ti fa percepire il pudicissimo moto dell’animo dei due innamorati, e il dolore “assente” della giovane nel vedere il suo innamorato in coma cerebrale, steso al tappeto da un crudele avversario. E poi il ring con la sua spietata legge, con incontri talvolta truccati, come nel caso de Il messicano o il memorabile incontro del vecchio King con un pugile giovane e fresco.

Un incontro in cui il pugile anziano combatte per una bistecca e per sanare i debiti E perde. Dei tre racconti sulla box ti riporto solo un brano tratto da Il gioco: “Lei non aveva l’occhio dell’esperto per apprezzare la profondità del petto, le narici ampie, i polmini capaci, e i muscoli sotto le loro guaine satinate-cripte di energia in cui si annidava la chimica della distruzione...”

scriveva il grande Conrad?

CUORE DI TENEBRA. Sostengo da sempre che alcuni libri andrebbero resi obbligatori nelle nostre scuole, come sussidiari, testi su cui far riflettere i nostri giovani , fra questi e alcuni altri, insieme a Memorie di un pazzo di Flaubert, di Nutrimenti terrestri di Gide e Verso Damasco di Strindberg c’è anche Cuore di tenebra di Conrad insieme a Orgoglio tricolore, del mio amico Lorenzo Fornaca.

Propaggini del tempo, residui fossili del nostro passato e della nostra mente. Sono le foreste del primordio, ultime aree momentaneamente risparmiate dagli obbrobri della devastante civilizzazione. Perché ne parliamo? Sono bastati un’ottantina di anni, forse meno, un niente se confrontato alla storia, e tutto è successo, irreversibilmente, irreparabilmente. La capacità di incidere e stravolgere il territorio, di deviare fiumi, cementificare, creare immense alienanti periferie metropolitane ha stravolto e inquinato ambienti e habitat che perduravano da millenni, e con essi la loro storia, cioè la nostra. Non diciamo nulla di nuovo, parole superflue perché inutili. Ne siamo coscienti. Agli spazi metropolitani, alle aree occupate dall’industrializzazione, sottratte alla selva, alla stessa montagna, con l’edificazione di villini a schiera e di condomini, ai paesaggi pesantemente modificati e sfigurati, per ottemperare alle esigenze, spesso fittizie, dello sviluppo, si oppongono ancora alcune (non molte) aree off limits dove la natura detta legge ristabilendo rapporti psichici, fisici e primordiali con abitanti e visitatori. È il caso della foresta fluviale del Congo, in CUORE DI TENEBRA, quella di Conrad, per intenderci o quella delle Isole Salomone di Jack London ne L’AVVENTURA e, ancorché devastata dai coloni inglesi, spagnoli, e francesi sul Mississipi, quella di Faulkner ne LA GRANDE FORESTA, in cui viveva l’orso primordiale, per far posto alla ferrovia e alla città. Sono le foreste tenebrose, territori impraticabili, ma indispensabili oggi, e che ci diamo briga di distruggere (guarda quello che sta succedendo in Amazzonia) insegne di una sovranità che è pericoloso guastare. La foresta (quella foresta) è lo spazio in cui l’uomo perde il senso del tempo, paesaggio onirico eppure reale, pericoloso e talvolta letale.

Un paesaggio che è prima di tutto dentro l’uomo. E perciò insopprimibile. Quindi stiamo uccidendo pezzi di noi. Basta leggere alcuni brani da CUORE DI TENEBRA per capire di cosa stiamo parlando: a pagina 55: dell’edizione FELTRINELLI economica con prefazione di Anna del Bo Boffino: …Le grandi mura della vegetazione (una massa esuberante ed intrecciata di tronchi, rami, fronde, festoni, immobile sotto la luce lunare) erano simili all’invasione riottosa della vita silente, ad un’ondata rotolante di piante ammucchiate, un’ondata che si gonfiava… a pagina 60: Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel corso del tempo, ritornare ai primordi, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un fiume, un deserto, un silenzio solenne, una foresta impenetrabile… a pagina 63: Eravamo come i visitatori di una terra preistorica su una terra che aveva gli aspetti di un pianeta sconosciuto. Avremmo potuto immaginare di essere i primi uomini che prendevano possesso di un’eredità maledetta che bisognava sottomettere a costo di grandi dolori e di fatiche a pagina 116: a proposito del misterioso Kurtz: La sua era una tenebra impenetrabile. E io lo guardavo così come si potrebbe guardare, giù, un uomo che giace nel fondo di un precipizio dove non brilla mai il sole…(come una foresta?) Ricettacolo di paure, aggiungiamo noi, inquietudini, insondabili misteri, fascinosa e impenetrabile in cui l’uomo smarrisce valori e misura. Ma quella foresta è nell’uomo e dell’uomo. È in questo tipo di ambiente che si dissolvono le smanie civilizzatrici, ultimo brandello di natura che esige rispetto, incute timore, respingendo l’intruso. La foresta selvaggia sta alla metastasi urbana come l’antidoto sta al male incurabile, viva, terribile e potente, luogo d’elezione perché non coercibile e cieca. Non madre, anzi, creatrice di incubi, non culla, tuttavia capace di suscitare riflessioni sull’aberrante devastazione cui l’uomo ha dovuto ricorrere per realizzare i suoi ultimi sogni. Foreste africane, asiatiche, dell’Amazzonia, di sperdute isole, ultimi spazi sovrani dove la mente può soccombere, ma in cui può comunque riconoscersi accettando la superiorità della natura. London, Faulkner, Conrad ne avevano rilevato il potere, l’avevano capito, trascrivendone la forza simbolica e il mistero, riuscendo a farne percepire la vita oscura, insopprimibile, perché dentro l’esperienza umana (oggi addormentata) che in essa si celava. Se ti ricordi di cosa scriveva Conrad allora non tutto è definitivamente perduto. Se mi dici cosa ne pensi te ne sono grato.

c’era il popolo dell’abisso?

IL POPOLO DELL’ABISSO. Cosa c’entra Jack London con Engels, Marx e Stephen Crane? Cos’ha a che fare l’East End londinese di primo Novecento con il Manifesto del Partito comunista? Vediamolo. Il Popolo dell’abisso è uno dei racconti meno accattivanti e meno suggestivi del grande Jack, forse anche un po’ noioso, ma sicuramente fra i più impegnati socialmente.

Lui ci teneva in modo particolare al suo impegno sociale, avendo a cuore la sorte degli infimi. Ma non ce la fa Jack London a calarsi completamente nella disperazione e nel degrado degli slum londinesi per diventare uno degli ultimi della terra. Ha bisogno di respirare. Ha bisogno di un pasto caldo, di un letto, ogni tanto. L’identificazione coi disperati non gli riesce del tutto. Ma ci ha provato, volendo vedere, capire e denunciare. Il degrado spaventoso, l’abiezione, la miseria anche dell,anima senza appello. Occorre dargli merito per questo scandaglio. A pag 85 si legge: …O voi fortunati della terra, che potete mangiare a sazietà, che vi crogiolate pigramente, tutte le sere, nel vostro letto dalle lenzuola bianche, nelle vostre camere spaziose, sempre pronte ad accogliervi, potete voi soltanto comprendere con precisione quale sarebbe la vostra sofferenza, uguale in tutto a quella di questa gente, se doveste passare, per le strade di Londra, tutta una lunga notte? …. A pag 89: Sul marciapiede viscido, macchiato di sputi, raccattavano delle bucce d’uva, che mangiavano… Raccoglievano ancora, qua e là, delle briciole di pane, della grossezza d’un pisello, dei torsoli di pomo, così neri e disgustosi che non somigliavano più a niente…Colle viscere annerite dai rifiuti del pavimento, essi invocavano tempestosi sommovimenti. Si esprimevano da anarchici, da fanatici, da pazzi! …. Jack London scandaglia il degrado londinese, Stephen Crane fa lo stesso, con la sua prosa tagliente come un coltello, facendo morire quella sua smarrita protagonista Maggie, suicida nel fiume. Entrambi gli scrittori puntano il dito su una condizione che di umano possiede assai poco. Ma c’era stato qualcuno che 50 anni prima aveva lavorato per porre fine a questa condizione, elaborando una dottrina che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto elevare e portare quella plebe subumana al governo. Marx e Engels mettono al centro del loro interesse anche quei diseredati. Fra le pieghe del più vasto e potente impero del mondo odierno i paria di Londra, sull’ultimo gradino del sottoproletariato urbano rappresentano una condizione sociale, umana, psicologica devastata. Sarà proprio a Londra che Engels, al di fuori di metafora, incontrerà Maggie, John, Lucy, gli esseri subumani, aspiranti suicidi. Nel grembo dell’impero più grande e ricco di tutti i tempi, i semi della rivoluzione social comunista trovarono terreno fertile. L’impero saprà modificarsi e rigenerare quei suoi figli che agli inizi del ‘900 pullulavano nell’atroce ventre di Londra. Ci vorranno decenni e ai primi del ‘900 poco è ancora mutato. La denuncia del grande Jack, in un libro dal soggetto nauseante, coglie nel segno e rende ancora più grande, se possibile, l’autore. Se proprio dobbiamo fare un confronto fra London e Crane, quest’ultimo privilegia il vissuto e il parlato attraverso una crudezza di linguaggio e con un verismo inediti, che lasciano sbalorditi. Joseph Crane, il cronista, supera in questo confronto il mitico Jack, l’americano fanciullo. La sua è denuncia senza commento né rimprovero. Per questo ancora più efficace. Engels fa un ritratto ancora attuale dell’«ondata di terrore» che pervase la borghesia di Manchester con l’avvicinarsi di un’epidemia di colera: “Improvvisamente si ricordarono delle insalubri dimore dei poveri e rabbrividirono nella certezza che ognuno di quei miseri quartieri avrebbe costituito un centro di infezione dal quale il morbo si sarebbe diffuso rovinosamente, in tutte le direzioni, verso le case della classe possidente. Venne nominata sull’istante una commissione di igiene per ispezionare questi quartieri e fare un preciso rapporto al consiglio comunale sulle loro condizioni.. “Ogni grande città, prosegue Engels, ha uno o più “quartieri brutti” nei quali vive la classe operaia, sono questi i quartieri che ospitano “i membri più poveri, più disperati, più avviliti della popolazione”, sono le “fonti di quelle spaventose febbri epidemiche” che periodicamente nascono e si diffondono; sono zone “sporche, strette e già da sole sufficienti ad abbreviare la vita degli abitanti, particolarmente dei bambini piccoli”. Engels scrive in quegli anni, (era il 1845 per l’esattezza) ne:

LA SITUAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA IN INGHILTERRA scritta a Manchester: …Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta, quaranta ore di seguito, e ciò parecchie volte alla settimana. Le conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe Cinquant’anni dopo, ai primi del ‘900, Jack London si cala nell’inferno dell’East End londinese per verificare che assai poco era cambiato. Il terremoto che avrebbe sconvolto il mondo non era ancora iniziato.