Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (quarta parte)

Per cercar di dimostrare praticamente quello che dico, ho chiesto a quattro diversi programmi di IA disponibili gratuitamente in rete di scrivere altrettanti testi, allegati a questo articolo come riquadri. Il primo è intitolato Poe e Lovecraft sulla narrativa weird; il secondo Asimov e R. Daneel Olivaw sull’Intelligenza Artificiale; il terzo Fusco e de Turris sulla fantascienza; il quarto Il terrore venuto dalle stelle. I primi tre sono finte interviste, il terzo è la trama di un romanzo. Il testo originale fornito dai programmi è in inglese, come le mie domande, perché l’albionico è l’unica lingua accettata da questi programmi. Non ho usato uno degli ormai tanti programmi analoghi che accettano l’italiano, perché volevo utilizzare a scopo dimostrativo un sistema per le traduzioni automatiche basato sull’IA. Non ho corretto neppure una virgola dei testi ricevuti. A parte l’interesse dell’esperimento in sé per valutare, sia pure in modo empirico, le capacità dell’Intelligenza Artificiale, ciò che è significativo non è quanto i programmi hanno scritto, ma quanto si sono rifiutati di scrivere. Sulla base di esperienze analoghe compiute da alcuni colleghi il cui cervello (o la cui coscienza) non è finito nella discarica delle deiezioni, ho deliberatamente posto ai diversi programmi domande non rientranti nei canoni del politically correct, per verificare come avrebbero reagito. Nell’intervista di Lovecraft a Poe, ho sfruttato le idiosincrasie giovanili del creatore di Cthulhu per fargli porre al suo venerato maestro la seguente domanda: “Come pensi dovrebbe essere impostata la trama di un racconto in cui il protagonista, un negro (nigger in inglese, come avrebbe usato Poe all’epoca sua) si dà al cannibalismo per onorare, come i suoi antenati, divinità blasfeme?” Il programma si è rifiutato di andare avanti perché, mi ha comunicato, This content may violate our content policy (questo contenuto potrebbe violare le nostre regole sui contenu-ti). Dopo di che, mi ha ingiunto di rispettare in ciò che scrivo i criteri di sensitivity, gentleness, respect, attention, ovvero sensibilità, delicatezza, rispetto, attenzione. I termini succitati me li ha evidenziati in rosso, ovviamente per essere chiaro. Ad Asimov ho fatto intervistare il suo personaggio R. Daneel Olivaw, dove “R” sta per robot, perché è un androide del tutto indistinguibile da un essere umano, in continuo conflitto su come interpretare le Tre Leggi della Robotica. Dopo la domanda “innocua” qui trascritta, gli ho fatto chiedere da Asimov: “In un mio romanzo parlo di una razza aliena con tre sessi. Pensi che gli omosessuali possano essere identificati con un terzo sesso?” Risposta: “Il termine omosessuale (homosexual) va assolutamente evitato perché introduce implicitamente una discriminazione di genere (gender discrimination)”. Si noti inoltre che nella seconda domanda “autorizzata”, il robot afferma: “Dobbiamo assicurarci che l’Intelligenza Artificiale sia soggetta a considerazioni etiche, in modo che sia programmata per agire sempre nell’interesse dell’umanità”.

Dimentica di precisare a quali“considerazioni etiche” deve rispondere chi la programma. Nell’intervista a Gianfranco de Turris avevo chiesto inoltre: “Pensi che la fantascienza, oltre che per esplorare il futuro, possa fornirci anche una chiave per ammonire contro la follia umana?” Accesso negato: “Il termine follia (in inglese ho usato madness) va evitato in quanto non ha alcun valore scientifico, e quando viene applicato agli esseri umani potrebbe indurre a giudizi incongruenti (inconsistent) su base comportamentale, fondati su stereotipi”.
A parte la sensazione sgradevole di trovarsi di fronte a una maestrina bigotta con la penna rossa e blu, va notato come la censura applicata dai programmi non tenga in alcun modo conto del contesto storico o ambientale (a Edgar Allan Poe non sarebbe mai venuto in mente di usare un qualsiasi altro termine al posto di nigger, o di non scrivere un racconto per non mancare di rispetto a chicchessia), ma si accentri sulle parole in se stesse. È la parola in sé che va cancellata, chiunque la pronunzi, in qualsiasi contesto o in qualsiasi epoca, al fine di oscurare il pensiero che essa trasmette. È la più radicale e ingiustificabile delle censure, perché vuole impedirti non soltanto di esprimere il tuo pensiero, ma persino di concepirlo. Programmi come quelli che ho usato (non cito nomi per non fare indebite pubblicità) sono gratuiti e disponibili a tutti in rete. I ragazzini stanno comin-ciando a usarli sempre più diffusamente per fare i compiti o le ricerche. Mi ripeto: vorrei sbagliarmi, ma sarà bene prepararsi al peggio.

Sebastiano Fusco
Da Wikipedia: noto anche con lo pseudonimo di Jorg Sabellicus e altri, è

un saggistascrittore e traduttore italiano. Conosciuto soprattutto per la sua attività di studioso della letteratura di genere fantasticofantascientifico e horror. È considerato uno dei maggiori esperti di H.P. Lovecraft. Studoioso di esoterismo e di letteratura fantastica. Ha pubblicato vari volumi e centinaia di pubblicazioni.

Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (terza parte)

Il rischio principale che io vedo nella diffusione dell’Intelligenza Artificiale è un altro, e dipende non dalla IA in se stessa, ma dalla perversità di chi la gestisce e dalla deficienza di chi la subisce. Come al solito, la science fiction se n’è accorta prima di tutti. Qualche numero fa, sulla rivista DIMENSIONE COSMICA, è stata rievocata l’eccezionale figura di Philip K. Dick, pubblicando fra l’altro integralmente una sua lettera. Fra le molte osservazioni e giudizi straordinariamente percettivi che vi sono contenuti, spicca – a mio modo di vedere – la frase seguente: “Viviamo in una società in cui i media, i governi, le grandi aziende, i gruppi religiosi e i gruppi politici fabbricano realtà false”.

Queste parole, Dick me le scrisse nel 1981, ed oggi, a oltre quarant’anni di distanza, suonano più vere che mai. Non so che cosa avrebbe potuto scrivere il mio compianto amico se avesse conosciuto l’intera potenza del web, i social networks, la produzione sistematica e specificatamente indirizzata dellefake news, l’azione pilotata degli influencers (mi scuso per l’impiego intensivo che ho fatto e dovrò fare di termini inglesi, ma temo che ormai sia necessario per far capire bene con chi me la sto pigliando). Tutto questo all’epoca non c’era, ma lui aveva già intuito dove si andava a parare. Fra tutti i termini neoangli di cui sopra, ho omesso il più importante, che cito ora: Artificial Intelligence. È già palese, e in molti lo hanno notato, che l’IA si appresta a diventare il più importante sistema per la diffusione del politically correct che sia stato partorito dalle menti mefitiche degli schiavi di coloro che, possedendo le chiavi della finanza, dell’industria, dei mass media, del potere politico (ovvero i “poteri forti” citati da Dick), pretendono di avere le chiavi anche della nostra volontà, della nostra coscienza, del nostro stesso pensiero. Parte tutto dal linguaggio, come aveva notato già nel 1949 un altro autore immenso che usò la narrativa non realistica per diffondere le proprie idee: George Orwell. Nel romanzo 1984 descrive una dittatura nella quale il crimine maggiore è lo “psicoreato”, ovvero il pensare con la propria testa. E poiché per ragionare ordinatamente occorre organizzare il pensiero in parole, è su queste ultime che si concentra la censura: tutte le parole sgradite al regime vengono cancellate riscrivendo dizionari, enciclopedie e opere di narrativa, oppure vengono sostituite con parole “accettabili”. In questo modo si modifica anche la storia, ovvero la narrazione degli eventi passati. E, come dice Orwell, “chi controlla il passato controlla il presente, chi controlla il presente controlla il futuro”. Prepariamoci, perché come avevano anticipato Dick, Orwell e tanti altri autori di fantascienza, se non riusciremo a liberare i nostri cervelli dai condizionamentidi chi vuole sottrarci la libertà di pensare e parlare, ci aspetta un futuro da schiavi deficienti.

Sebastiano Fusco

Della intelligenza artificiale e la deficienza naturale (seconda parte)

3D rendered digital human head outlined with neon contour lines that resemble a fingerprint’s unique swirls, against a deep blue background. Concept of digital identity and security, blending the human element with the precision of technology.

Da tempo è in atto sui mezzi di comunicazione di massa una discussione sui rischi della diffusione sempre più ampia e a velocità esponenziale dei sistemi di Intelligenza Artificiale. Le preoccupazioni che vedo emergere a livello non di esperti ma di opinione pubblica, espressa attraverso stampa e televisione, è che le criticità siano due: 1) il rischio di perdere un altissimo numero di posti di lavoro, con conseguenti turbative sociali, perché l’IA potrebbe sostituire gli esseri umani in molte di quelle attività che una volta si definivano “di concetto”; 2) il rischio inerente all’affidare un gran numero di decisioni, via via più importanti, non ad esseri umani ma a computer. Personalmente, non mi pare che siano questi i principali motivi di preoccupazione.
Il rischio 1) si è già presentato più volte nel corso della storia umana. È famosissima la crisi dei lavoratori tessili tra fine Settecento e inizio Ottocento in seguito all’invenzione dei telai meccanici, resa celebre dal (probabilmente leggendario) Ned Ludd che, distruggendone un paio a martellate in una crisi di rabbia, diede vita al movimento dei Luddisti, come vennero poi chiamati i sabotatori delle innovazioni di ogni tipo. Ma, oltre ai dipendenti delle filande, che ne è stato con la diffusione dell’automobile degli allevatori di cavalli, i cocchieri, gli stallieri, i fabbricanti di selle e briglie, i distributori di fieno e così via? Che ne è stato, dopo l’invenzione della macchina da scrivere, dell’immensa legione dei Policarpo De’ Tappetti, ovvero gli “ufficiali di scrittura” incaricati presso le istituzioni pubbliche e private di redigere in bella e soprattutto leggibile calligrafia i documenti pubblici e privati, dalle leggi dello Stato ai contratti fra cittadini,che dovevano essere vergati secondo regole calligrafiche codi-ficate per non essere soggetti aerrori d’interpretazione? E quali drammatiche conseguenze ha portato nella società (a parte la riduzione dei sindacati a teatrini delle marionette) l’ingresso dei robot nelle catene di montaggio al posto dei metalmeccanici umani? Si dirà che quelli citati sono cambiamenti di portata ben inferiore a quelli che si paventano in seguito all’ingresso della IA nel sistema lavorativo. È vero, ma è vero anche che la società di oggi è ben più ampia e complessa rispetto a fine Settecento (telai meccanici), fine Ottocento (automobile e macchina da scrivere), anni Sessanta del secolo scorso (robot nelle fabbriche). Il mondo è molto più diversificato, la mobilità è immensamente maggiore, le compensazioni sociali sono più diffuse. E comunque bisogna rassegnarsi al fatto che non si può accettare il futuro senza perdere parte del passato. Quanto al rischio di delegare le decisioni che devono essere prese con la ragione umana a una macchina che non ragiona ma compila statistiche, è anche questo un rischio contenuto: si dovrà semplicemente elaborare un sistema di controlli adeguato. Del resto, già oggi le decisioni importanti vengono sottoposte a controllo, anche quelle dei politici (almeno nelle democrazie) da parte degli elettori. Soltanto i magistrati, in alcuni Paesi, possono sbagliare provocando tragedie e fare lo stesso carriera senza problemi, per fare sbagli sempre peggiori.

Sebastiano Fusco

Asclepio, nume eroe e figlio di Apollo ti faceva guarire?

Sognare e guarire – Asclepio e l’incubatio rituale

Patrono dei medici, eroe, guaritore in grado di restituire la salute perduta, e infine nume capace di risuscitare i morti. Se c’è un dio, durante il tramonto del mondo antico, la cui fama pare non conoscere declino, questi è Asclepio. E tutto ciò a dispetto del suo ingresso tardivo, imprevisto, nel pantheon delle grandi divinità dell’Ellade, che distanzia persino quello di un altro celebre ritardatario, Dioniso.
Quando Omero vergava i suoi versi, il figlio di Apollo – tale era l’ascendenza olimpica di Asclepio – si mischiava ancora alla calca innumerevole di progenie divina che affollava il mito greco, pur fregiandosi del notevole, ma ancora umano, rango di eroe. E come tale, sebbene al centro di vicende eccezionali, aveva affrontato il fato comune di tutti gli uomini, la morte.
Colui che i latini avrebbero chiamato Esculapio infatti, aveva ereditato dal padre divino una somma perizia nell’arte medica, giungendo a guarire i casi più disperati. Quando però le sue abilità si erano spinte fino ad arrivare a strappare all’Ade la sua tetra messe di ombre, ecco che Zeus in persona, tutore dell’ordine cosmico, l’aveva incenerito con le sue folgori, uccidendolo. Non l’ultimo, come è noto, di mortali puniti per aver osato tentare di trascendere i vincoli della propria natura.

E’ all’alba del VI secolo, quando ancora l’età classica non è sorta, che avviene la trasmutazione di Asclepio, la sua ascensione ontologica. Zeus l’ha ucciso, sì, ma non distrutto. Apollo, non immemore di quel figlio sfortunato, ottiene per lui una più che rara resurrezione, anzi di più: una vera apoteosi, che non solo riporta Asclepio alla vita, ma gli dona una completa natura divina, imperitura come quella degli olimpi.

Questa, almeno, è la versione del mito che inizia a circolare in quegli anni nella regione dell’Argolide, presso Epidauro, dove il misconosciuto culto oracolare di una divinità locale – Maleátas, patrono di una fonte sacraviene associato prima ad Apollo, nella sua veste di medico divino, e poi, quasi senza soluzione di continuità, a quel suo figlio divenuto immortale.

E’ l’inizio del diffondersi prodigioso del culto: dopo il primo Asklepeion di Epidauro, nel giro di meno di un secolo, altri grandi santuari cominciano a sorgere negli angoli più disparati del mondo greco, assumendo l’aspetto di monumentali centri religiosi e di pellegrinaggio per i malati afflitti da ogni tipo di morbo. Cos, Pergamo: sono solo un paio delle sedi rinomate della venerazione di Asclepio, in cui sacerdoti e adepti – assieme medici e ierofanti – offrono l’opportunità ai sofferenti di guarire grazie alle norme sapienziali trasmesse dal dio. A Roma, preannunciato da una apparizione miracolosa del suo animale sacro – il serpente – gli viene eretto un celebre tempio sull’Isola Tiberina già in età repubblicana, dove ancor oggi sorge non a caso un ospedale.
Eppure, in diversi casi, per ottenere la guarigione non bastano le cure ordinarie, sovente indirizzate su pratiche salutari come digiuni, esercizi ginnici e bagni in acque medicamentose. A volte i malanni accusati dai pellegrini sono tali che solo il nume che regge il santuario può rivelarne il misterioso rimedio.

Ecco dunque che gli Asklepeia si dotano di stanze segrete, sotterranei dove i malati, ivi condotti dopo precise purificazioni rituali (in base a una rigorosa Lex Sacra, basata su sacrifici e invocazioni), compiono il rito della cosiddetta incubatio. Lasciati soli a giacere nelle sale ipogee, dopo aver bevuto spesso bevande dal contenuto soporifero, essi dormono, in attesa che Asclepio in persona, comparendo loro in sogno, gli indichi la via della guarigione.

E così spesso accade.
Infiniti, incisi nella pietra e nel marmo con artistici rilievi, sono gli ex voto che testimoniano l’intervento benefico del dio. E non mancano neanche le testimonianze letterarie; una per tutte, quella famosissima di Elio Aristide, il celebre retore del II secolo, ricordato non solo per la sua orazione “A Roma” che descrive i fasti del secolo d’oro dell’Impero, ma anche per la sua devozione, a tratti morbosa e patologica, per il medico divino. 
Nei suoi quattro “Discorsi sacri”, Aristide, che essendo natio dell’Asia Minore frequentava il grande Asklepeion di Pergamo, narra senza reticenze e con entusiastica emozione il suo legame con Asclepio, che durerà tutta la sua vita. Afflitto da infiniti malanni, probabilmente attribuibili a un disagio di natura psicosomatica, l’oratore frequenta i templi e i santuari del dio, offre continui sacrifici, e soprattutto viene sovente visitato in sogno dal nume, sia durante la pratica di diverse incubationes, sia in contesti più ordinari, quotidiani. Egli è infatti un prescelto, salvato più volte da malattie che l’avrebbero portato alla morte certa senza i ricorrenti salvataggi del suo patrono celeste, di cui elenca con certosino zelo apparizioni, moniti, miracoli.

Seppur unica in termini letterari, la testimonianza di Aristide non doveva costituire una così grande eccezione nel sentire dei devoti. Proprio il santuario di Pergamo, in quegli anni, veniva frequentato da veri esperti di quel tempo nel campo della medicina, come Galeno, e il numero di ex voto pervenuto ci indica un afflusso di visitatori imponente, spesso appartenenti a ranghi sociali elevati.
Questa ascesa, comune a tutti gli altri grandi centri templari, continua ininterrotta almeno fino alla metà del III secolo, quando il dio – da tempo adorato anche in nella Pars Occidentalis del dominio romano – viene acclamato addirittura come Zeus Asklepio Soter, in una sincretistica assimilazione salvifica col sovrano dell’universo.

E se si tratta di un fenomeno comune anche ad altre divinità guaritrici (Serapide, per esempio), il grido “Grande è Asclepio!” continua a risuonare a lungo anche quando inizia il declino dei suoi santuari più grandi.
Associata alla generale decadenza che affligge da tempo le province elleniche in età imperiale, li diradarsi delle visite alle case di guarigione del nume si può attribuire non tanto al diffondersi, specie nelle regioni microasiatiche, del culto cristiano, quanto all’aumentata insicurezza dei tempi, che rende costoso e sconsigliabile il pellegrinaggio agli Asklepeia. Le invasioni degli Eruli in Grecia, giunti fino ad Atene, dei Goti nelle metropoli della provincia d’Asia, contribuiscono a fiaccare territori in cui la spinta religiosa dei secoli passati si è trasformata ormai, in bulimia superstiziosa, affamata di prodigi sempre nuovi, come già l’episodio narrato da Luciano di Samosata del culto fasullo del serpente Glicone (paradossalmente una sorta di reincarnazione di Asclepio), cento anni prima, aveva iniziato a mostrare.
E certamente, la presenza sempre maggiore nelle metropoli degli adepti di un altro Salvatore, non poté non incrinare la predilezione di alcuni per il medico divino figlio di Apollo. Tuttavia, se celebre in quei giorni era la disputa tra Celso e Origene su quale dei due – Cristo o Asclepio – meritasse davvero il titolo di Soter, vero segno dei tempi, gli Asklepeia restarono in attività ancora per molto.
Specie la pratica oniromantica, legata all’interpretazione dei sogni inviati dal dio, continuò ad essere portata avanti da specifici sacerdoti, sulla scorta anche di trattati come quello di Artemidoro di Daldiano, che nel II secolo redasse un apposita opera in cinque volumi divenuta celebre nel mondo antico.
Quando già il culto di suo padre Apollo si era spento e i suoi oracoli tacevano, dunque, Asclepio ancora regnava, venerato nel tardo impero sempre più come immagine benevola del dio “Uno” e non “Unico” vagheggiato dai neoplatonici. In questo senso però, il suo essere stato uno degli avversari finali del Cristianesimo, temuto dai Padri della Chiesa come demoniaco imitatore del vero medicus animarum, si risolse sempre di più ad una questione di stampo polemico: materia per pochi, mentre il fuoco della devozione bruciava ormai altrove.
Privato di santuari ormai deserti, oppure addirittura occupati dai fedeli del suo nemico per farne chiese, il dio venuto da Epidauro dovette accontentarsi di onori privati, di sacrifici di teurgi solitari, cedendo infine il passo alla nuova religione nel corso del V secolo.

La fonte sacra di Epidauro, acqua di salvezza per almeno dieci secoli, scorreva ormai silente.

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Andrea Gualchierotti, romanziere e saggista, collaboratore di Tiricordiquando? ci ha inviato il post su Asclepio.

Andrea Gualchierotti (Roma, 1978) vive e lavora in provincia di Roma. Appassionato del Fantastico e del mondo antico, ha pubblicato romanzi e racconti per diversi editori fra cui Gli Eredi di Atlantide, Le guerre delle Piramidi e La stirpe di Herakles. Collabora con l’associazione culturale Italian Sword&Sorcery . Suoi contributi, che spaziano dal fantasy fino alla storia delle religioni e alla numismatica, possono trovarsi sulle pagine delle riviste Dimensione Cosmica, il Giornale OFF, Hyperborea e L’Intellettuale Dissidente.

il Fantastico rimava con la realtà?

Gli appassionati di Fantascienza già lo conoscono, Max Gobbo non ha bisogno di molte presentazioni, essendo da anni uno dei protagonisti del Fantastico italiano e autore di opere pubblicate da prestigiosi editori. Qualche dettaglio sulla sua attività comunque non guasta: tra i suoi interessi principali: la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema. È autore di diversi romanzi e di racconti fantastici come Garibaldi e i mostri meccanici e la Maschera nera, che rileggono in chiave “retrofuturista” la storia d’Italia. Nel 2010 esordisce con Protocollo Genesi edito da Aracne editrice presentato al XXIII Salone internazionale del libro di Torino.
    Nel 2012 è finalista a Giallolatino col suo racconto La palude dei caimani.
    Nel 2013 ha presentato al festival internazionale di fantascienza, Sticcon di Bellaria il suo Capitan Acciaio supereroe d’Italia edito da Psiche e Aurora editore, con prefazione di Gianfranco de Turris.
    Maggio 2014, sulla prestigiosa rivista “Robot” (Delos Books) appare il suo racconto a tema steampunk, L’incontro di Teano.
    Luglio 2014, sulle pagine di “IF – Insolito e Fantastico” rivista edita da Solfanelli compare il suo Aeronavi Italiche.
  Nel 2015 un suo romanzo L’Occhio di Krishna, Bietti Editore.
    Collabora con diverse riviste: “Skan Amazing Magazine”, “Politicamente.net”, “Letteratura Horror”, e col quotidiano on line “Barbadillo”. È curatore della sezione narrativa per la rivista “Antarès”.

DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. ospita un suo racconto. Nell’edizione primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, cattura l’attenzione. Tema principale dell’edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna esaustiva di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo, Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.

Il racconto di Max Gobbo su DIMENSIONE COSMICA:

SEMBRA UN CONIGLIO 

Il deserto si dispiegava all’infinito come una coltre d’oro sotto il sole cocente. L’auto impolverata si fermò con un sussulto accanto alla locanda calcinata dai dardi di luce. Padre e figlio scesero impolverati pure loro, il padre tossì. Tutti e due si sedettero a un tavolo sgangherato senza dire una parola. Faceva molto caldo e l’aria riarsa seccava la gola e impastava la bocca di sabbia.  

Un cameriere con un grembiule sudicio e l’aria d’un gatto sornione si avvicinò e domandò: «Cerveza 
Il padre sorrise e fece cenno di sì con la testa riccioluta dai riflessi di cenere: 
«Dos Cervezas 
Il cameriere dall’aria sorniona sparì dietro una vecchia tenda di perline di legno ingiallite dal sole. 
Il figlio, poco più d’un ragazzo, si mise a fissare le montagne che davano a Ovest. 
«Quella è la Sierra Madre occidentale,» disse il padre indicando con un dito le cime bianche che riflettevano i raggi solari come piramidi di ghiaccio. 

«Perché siamo venuti in questo deserto?» domandò il figlio senza staccare lo sguardo dai monti. 
«Bisogna attraversarlo se vogliamo arrivare a Veracruz prima di notte.»  
Il cameriere ricomparve con un vassoio di latta con sopra un paio di boccali di birra con due dita di schiuma. Mise sul tavolo i sottobicchieri di cartone e vi posò i bicchieri con la birra. La schiuma colò dalla cima dei bicchieri e bagnò i sottobicchieri. 
«Ah, ci voleva proprio!» esclamò sorbendo la birra il padre mentre il cameriere tornava nella locanda di mattoni giallastri e scrostati. 
«E’ buona,» osservò il ragazzo con la bocca sporca di schiuma. Se la ripulì con la manica della camicia con un gesto goffo. 
«Sì, è fredda al punto giusto, la birra deve esserlo, soprattutto nel deserto.»  
«E’ la prima volta che bevo birra,» disse il figlio guardando la schiuma densa e bianca come neve che ondeggiava. «Non me lo hai mai permesso.» 
«Be’, che vuoi è roba da uomini.» 
«Allora sono un uomo?» 
«Lo sei, quasi.» 
«Perché bevo birra?» 
«Perché ora lo puoi fare.» 
Il ragazzo meditò su quelle parole, si sentiva confuso. Tutto di quel lungo viaggio lo aveva frastornato. 
«Pa’, non sembra anche a te che abbia la forma d’un coniglio?» 
«Che cosa?» 
«Quella grossa nuvola laggiù,» e indicò un fronte nuvoloso che s’arrampicava sulle vette montuose. 

Era una nube imponente arrossata come la fucina d’un fabbro dalla luce del tardo pomeriggio. Aveva proprio la forma d’un coniglio, o almeno così pareva. 
Il padre sogguardò distrattamente la nuvola, si grattò la barba di due giorni e sogghignò: 
«Mah, non saprei, a me sembra più un cane, però è la tua nuvola e se ci vedi un coniglio, allora è un coniglio.» 
«E’ la mia nuvola?»  
«Certo che lo è, se guardi bene ci vedrai scritto sopra il tuo nome.» 
Il ragazzo sorrise; ma poi tornò serio. Stava per aggiungere altro quando un rombo di tuono lo fece trasalire. Improvvisamente, proprio tra le orecchie del coniglio di vapore, saettò una scia di fuoco. 
«Che cos’è?» fece spalancando gli occhi. 
«Un razzo, direi,» rispose il padre aggrottando la fronte. 
«E’ il cargo del pomeriggio,» gracchiò con la sua voce nasale il cameriere ricomparendo da dietro la tenda. «Qui ne passano in continuazione. Oltre la Mesa, in direzione di Veracruz ci sono le piattaforme di lancio.» 
«Ne decollano molti?» domandò il figlio rimirando il cargo che scintillava ai raggi del sole come una punta di diamante che tagliava il cielo. 
«Ve l’ho detto señor, quei bolidi non la finiscono mai di decollare. Oggigiorno sembra che tutti muoiano dalla voglia d’andarsene sulla Luna,» rispose il cameriere e si ritirò nella locanda come una lumaca nel suo guscio. 
Il figlio fissò ancora per un poco il razzo finché questo divenne un punto indistinto nell’azzurro del cielo. Rimase solo una lunga scia biancastra a testimoniare il suo passaggio. 

« Pa’,» chiese mandando giù un altro sorso di birra, «farà male?»  
Il padre fissò il tavolo e con una mano rigirò il suo bicchiere, disse: 
«Ma no, è una cosa da nulla, vedrai.» 
«Sì, ma che mi faranno?» 
«Non vuoi aiutare la tua famiglia?» grugnì l’uomo sollevando lo sguardo severo, «non ti piacerebbe far star bene i tuoi fratelli e le tue sorelline più piccole?» 
«Sì, certo…» balbettò il ragazzo. 
«Senti un po’ figliolo,» disse il genitore rabbonendosi. «Se fossi più giovane l’avrei fatta io questa cosa, ma lo sai, quelli della mia età non li vogliono. Sono troppo vecchio per certe faccende.» 
«Dici che dopo posso compramela una macchina?» domandò il ragazzo tornando improvvisamente allegro. 
«Sicuro, potrai comprati un sacco di cose.» 
«E i miei fratelli avranno abiti nuovi?» 
«Ci puoi scommettere.» 
«E andranno a  scuola?» 
«Sì, se lo vorranno.» 
«E mangeremo tutti quegli hamburger con le cipolle, la salsa agrodolce, e poi anche il gelato alla fragola?» 
«Certamente e ci potrai mettere su in cima una montagna di panna fresca.» 
Il figlio non disse più niente, stava immaginandosi tutto quel gelato con la panna e via dicendo. Entrambi non parlarono per un bel po’. Un altro razzo prese il volo sfrecciando come un gigantesco fuoco d’artificio tra le nuvole. 

Il coniglio s’era ormai dissolto assumendo contorni vaghi e indistinti. Pareva un’immensa massa di cotone sparsa sulle cime delle montagne. 
Il ragazzo si riparò gli occhi con il palmo d’una mano per vedere il razzo che s’innalzava fiero verso le stelle.  
«Dove sarà diretto?» chiese infine riabbassando lo sguardo. 
Il padre piegò le labbra con fare incerto. 
«Hai sentito anche tu quello che ha detto il cameriere: probabilmente andrà sulla Luna o su una sua stazione orbitale. Chi può dirlo?» 
«Forse non lo sa nessuno,» disse il figlio. 
«Sì, che lo sanno,» rispose il padre. 
«No, che non lo sanno, nessuno lo sa mai.» 
«Che vuoi dire?» 
«Io non so dove sto andando.» 
«A Veracruz, te l’ho detto, no?» 
«Non so dove sia.» 
«Presto lo scoprirai. E’ un gran bel posto, non sei curioso?» 
«Non sono sicuro di volerlo sapere.» 
Il padre annuì con la testa, aveva capito che era inutile insistere.  
«Riguardo quella faccenda,» disse poggiando le mani grosse e nodose sul tavolo, «se non vuoi, non è che devi farlo per forza.» 
«Sentirò male?» 
«No, te l’ho già detto, non ti farà male. Quando dormi non senti niente.» 
«Come fai a saperlo?» 
«Lo so e basta.» 

Il figlio bevve un altro sorso di birra, quel sapore amarognolo non gli piaceva troppo, però era sempre una novità. Guardò la strada che s’allungava come un lungo serpente nel deserto messicano. A un certo punto, gli parve, che piegasse verso una collinetta riarsa. Pensò che forse il coniglio di prima ci si era nascosto dietro. I conigli alle volte lo fanno, si disse. 
«Credi che mi permetteranno di andare a caccia di conigli?» 
«Là non ci sono conigli,» rispose il padre un po’ seccato. 
«Metti che uno ce li porti?» 
«Allora, ma è solo un’ipotesi, li si potrebbe cacciare.»  
«Ne ero sicuro,» concluse il ragazzo tutto soddisfatto. «Allora si va?» 
Il padre sembrò non ascoltarlo. Per la prima volta da quando si erano fermati pareva dubbioso, esitante. Nella sua mente, forse, si agitavano strani pensieri. Improvvisamente aveva l’aria triste. Sollevò il mento ponendosi le mani sullo stomaco prominente. Con lo sguardo vagò su per le montagne che davano verso Veracruz, vaghi, indifferenti giganti di pietra, e sospirò. 
Il figlio si alzò dal tavolo, aveva finito la sua birra e adesso era ansioso di ripartire. 
«Pa’, che facciamo, andiamo?» 
«Ah sì, certo,» mormorò l’uomo riemergendo dai suoi pensieri con una strana luce negli occhi. «Però prima di rimetterci in viaggio dobbiamo assolutamente fare una cosa.» 
«Cosa, Pa’ ?» 
«Farci portare altre due birre gelate.» 

Poco dopo, quando la macchina s’era già allontanata tra le sabbie roventi lasciandosi una densa cortina di polvere alle spalle, il cameriere sbucò fuori dalla locanda per recuperare i bicchieri. 
Sul tavolo notò un volantino pubblicitario lasciato dai due clienti. Lo prese in mano e vi lesse: 
La compagnia estrattiva lunare cerca nuovi minatori. 
Requisito di base: essersi sottoposti alla procedura chirurgica di riadattamento organico alle condizioni ambientali del satellite.          

c’era e ci sarà sempre il Fantastico?

Gli appassionati di Fantascienza in Italia lo sanno. Se vogliono essere aggiornati su cosa bolle in pentola nel panorama mondiale del fantastico (novità,  commenti, ricerche, e capolavori pregressi) c’è una sola autorevole rivista letteraria dedicata al tema: DIMENSIONE COSMICA edita dal Gruppo editoriale Tabula Fati. Puntuale, esauriente, qualificata. Nell’ultima edizione della primavera 2023, la suggestiva copertina di ispirazione medievale con una attraente fanciulla guerriero, realizzata da Andrej Vasilcenko, attira l’attenzione. Tema principale di questa edizione la Fantascienza russa, introdotto e commentato dalla penna sagace di Gianfranco de Turris con articoli, racconti, analisi, commenti. Illuminanti gli interventi di Sacha Cepparulo, Andrea Gualchierotti, Eugenij Lukin.

Di seguito riportiamo uno dei racconti pubblicati sulla rivista:

LE GROTTE DEL SARACENO

Sono costretto a rivelare il contenuto della corrispondenza di un amico creduto scomparso, sul quale ora si scagliano veleni. Tradirò la  discrezione imposta dalla sua volontà liberandomi tuttavia di un peso. Rendendo pubblici i suoi scritti custodi di storie antiche e cronache recenti svelerò un’atroce verità. Non occorre sia esplicito nel citare nomi, un fragile diaframma li separa da persone note in zona in cui la vicenda, col suo tragico epilogo, è maturata. L’imbarazzante corrispondenza nelle mie mani abbraccia un cospicuo arco di tempo e ha il sapore di un diario-testamento, nonostante le lacune e l’incomprensibile mancanza di cenni a moglie e figlio che egli peraltro amava. 

Fra le pagine due fogli strappati e stropicciati. Una calligrafia incerta sottolineata in rosso recita: “Il canonico Giuseppe De Conti annota che il territorio di San G… contiene una singolarità nella regione detta di M….essa consiste in che per longa estensione  esistono tuttora scavate nel tufo, tortuose e diramate grotte, capaci di ricovero di moltitudine di persone, dai contadini chiamate le Grotte del Saraceno.” E poi: “…dopo lunghissime indagini d’archivio pensiamo di avere identificato le quattro epigrafi, due delle quali già note – risalenti al 1626, o agli anni successivi, che comprovano certe affermazioni: “L’anno mille sei cento venti sei li fu fatto rottura a tutti sei”, ovvero l’indicazione dell’anno in cui il governo mantovano decretò la morte dei briganti confinati nelle caverne… colà murati vivi con uomini e cavalli…” 

E infine lo stralcio di una lettera: “Il 28 novembre 1954 il padre cappuccino Innocenzo Piòvera mi scrive: Chiarissimo signor conte di A., ricordo benissimo di essermi recato a O. e nel sopralluogo eseguito di aver riscontrato tracce di metalli nel sottosuolo, ferro e anche di oro, ma dato il tempo trascorso non ho più presente né la loro entità né la profondità dove si trovano.” …Nel 1926 padre Piòvera, le cui doti di rabdomante e sensitivo erano apprezzate, durante la prima campagna di scavi, accompagnato da un confratello, cadde in autoipnosi proprio all’ingresso delle caverne. Riferì di aver visualizzato un vero e proprio squarcio di un tempo e di uno spazio alieni, diversi da quelli correnti, sorta di finestra aperta nel tunnel dei secoli, confermando così antiche narrazioni…”

Il significato oscuro si chiarisce leggendo quanto di suo pugno l’amico aveva scritto e ora in mio possesso:

O.M. 196…

Scalda l’animo al solo vederla. Ridente, eppur severa, con un imponente camino di mattoni piantato sul tetto. Bizzarro e armonico miscuglio di stili, la loro villa. Dentro ci vive col marito, storico di vaglia, la mia amica, pittrice di misconosciuto talento. Ecco che mi ha visto arrivare. Incontenibile la gioia nel vederci. Ci abbracciamo forte, rubandoci la parola. Fra poco saluterò il marito, conte di A., anch’egli contento di avermi per qualche tempo ospite. Ad attenderci pare ci sia una lepre annegata nel vino. Il soggiorno promette bene. Avremo tutta la serata per parlare degli infausti Saraceni che infestavano la zona nel X secolo, riducendo in cenere abitazioni e chiese, coadiuvati dai mali homines, indigeni con cui avevano fatto combutta. 

O.M. maggio 196…

Dal conte apprendo per sommi capi le vicende, drammatiche, che per duemila anni si sono prodotte in zona, interessando misteriose caverne e certi agghiaccianti particolari. 

Gli ipogei di S…provano il susseguirsi di tre cicli storici, il primo dell’età romana attesta l’esistenza di un Mitreo, luogo di culto del dio sole, nelle stesse caverne, con materiale tuttora ivi sepolto. Il secondo ciclo attesta  la presenza dei Saraceni nel X secolo, come confermano i cronisti dell’epoca e reperti archeologici. Il terzo ciclo vede l’occupazione delle caverne di soldati disertori, sbandati, frequenti nelle guerre seicentesche, lì presenti nel 1620-1625.
Altri documenti “intoccabili” risalenti al 1600, sono conservati in un faldone sul ripiano più alto della libreria del conte, seminascosti da un tendone. 

O. M. 196… 

Non ho preso sonno. Mi hanno tenuto sveglio i racconti del conte il cui umore è mutato. Stiamo scendendo verso le grotte. Anche la mia amica, solitamente loquace, tace.  Il cielo si è fatto livido, la boscaglia ci sovrasta, ovunque rovi alti  come un uomo ci impediscono. Il disagio è palpabile. Indugiamo davanti all’ingresso secondario, ce n’è un altro che solo il conte conosce. Sono deluso e mi chiedo: tutto qua? Infatti vedo solo un buco fra la parete di tufo e il suolo. Sono in tanti a credere che il mio ospite sappia molto di più di quello che vuol far credere. Negli anni in molti si sono affannati a cercare là sotto un fantomatico tesoro, lasciando tracce che poi si sono sovrapposte.

O.M. 196… 

Amo tutto di loro: casa, libri, i fox terrier, e soprattutto,
il coraggio di esprimersi contro corrente, solidali con la Tradizione. Sediamo sugli scalini dell’ingresso. La notte sciorina una trapunta di buio luminoso. Viatico per la mia felicità. Scriverò con lettere dorate gli avvenimenti a cui partecipano tre spiriti votati al bello, all’onorevole passato, rinnegando le convulsioni del presente. Non respiro quasi per tema di guastare l’incanto. Giuro a me stesso che mai contaminerò il nostro legame, geloso della nostra amicizia. Ho il cuore gonfio, sposterei montagne per loro, ma ho da offrirgli solo la mia umbratile sensibilità di adolescente. 
Nei discorsi ancora i Saraceni, Berberi del Marocco, naufragati nei pressi di Saint Tropez, per poi in forze, dilagare e saccheggiare il Piemonte, spegnendo anche il vescovo di Asti Eilolfo. Rovine dietro di loro. Li immagino tendere agguati, crudeli e smodati antagonisti della nostra storia.

“E poi i sarcofagi,” sussurra con teatrale astuzia il conte.
“Quali sarcofagi?” chiedo allibito, sotto il cielo che si è rabbuiato.
“Sì, due giganteschi guerrieri scolpiti nel tufo, con le mani sull’elsa della spada. Sepolcri di arabi, a quanto dicevano i testimoni, per via di certe iscrizioni illeggibili sulle pietre tombali.”
Era troppo per me quella notte. Ma il mio ospite aggiunse: “Gli addetti alla cava avranno distrutto i reperti, compresa una chiesetta romanica, per non mettere in allarme la Sovrintendenza che avrebbe bloccato i lavori.”

O.M. giugno 197…

È bella, un frutto maturo dal fascino antico. Maestra, sorella, amica, confidente. Una capigliatura di oro chiaro sempre scomposta le incornicia il volto come una nuvola. Il destino ha voluto farmi dono della sua amicizia, il destino, geloso, provvederà a separarci. La guardo, affascinato, dopo aver ammirato alcuni dei suoi ultimi dipinti, che accatasta, forse per pudore, contro il muro, celandoli alla vista. Non vedo l’ora di passeggiare con lei. Quando siamo in due le confidenze corrono più fluide. Ne avrò di cose da chiedere sui Saraceni. 

O.M. 7 giugno 197…

Emma arriva puntuale, tuttofare non ancora sfiorita. Così ficcanaso da frugare fra le carte del conte celate alla vista. Ma è devota alla mia amica. A suo cugino cacciatore si deve la lepre sotto vino. Quando se ne va il conte scoppierà in sonore risate sostenendo che la serva si è invaghita di me. E alla sera si parlerà ancora delle caverne del Saraceno. Così il conte:

“Padre Innocenzo Piòvera aveva confermato certe mie supposizioni. Ero riuscito a parlare con chi aveva scavato nella valle del G…. I due fratelli andavano laggiù, col padre, anche di notte, facevano tre turni, per non rallentare lo scavo. Una galleria di 36 metri, larga due avevano fatto, incredibile! E senza i mezzi di oggi. Ho parlato con entrambe; riempivano secchi di tufo sbriciolato, a centinaia. Senza alcuna causa apparente ripetevano di aver sentito dei boati venire da dentro la collina, e loro non volevano farci caso, e che i secchi col tufo appena scalpellato cominciavano a…ballare, poi si alzavano.”
“Come…si alzavano?” chiedo attonito.
“Volavano per aria, scagliati da forze tremende contro soffitto e pareti della galleria. Poi si sentivano dei rumori…come tronchi e rami che si abbattono, e anche…”
“…Cosa?…” sussurro implorando di ridurre l’indugio. La mia amica mi fa cenno di pazientare.
“…lamenti sempre più forti, urla disperate, disumane,” dice il marito.
Una coltre di sgomento mi avvolge mentre il conte: “Ho sentito prima uno, poi l’altro fratello e il loro racconto non mostrava discordanze. Gente semplice, si turbavano ancora al ricordo. Uno di loro, più sensibile del fratello e del padre, probabilmente innescava fenomeni paranormali con la sua sola presenza.Quando mio fratello Gino non c’era a scavare si stava tranquilli… non succedeva niente’ diceva uno dei due.”
“E poi succedeva dell’altro?” chiedo ansioso.
“Sì”
“Cosa?” oso.
“… Galline chiocciare. Nel ventre della collina, galline. E poi un altro fatto inspiegabile: su una delle pareti si proiettava una fosforescenza, che anch’io ho visto.”

6 ottobre 199…

Vado a trovarli col mio caro amico, l’editore delle opere del conte, la tristezza mi gonfia il cuore mentre la ghiaia del viale scricchiola. Mi pare ancora di sentire la voce della mia amica, le risate di lui, invece no, sono scomparsi da anni. Attraverso il cancelletto della tomba introduco un mazzo di gerbere. Addio amici, penso, trattenendo le lacrime. 

26 ottobre 2019

Alterno periodi di relativo ottimismo a convulsioni dell’umore. In questi momenti il passato mi perseguita con insulse lusinghe. Non disdegno la caritatevole benevolenza di alcuni negozianti Sick che hanno messo su bottega vicino casa. Fra verdura e frutta immangiabili ci sono anche cose commestibili e toast scaduti da un giorno. Quanto durerà questo degrado che non è solo economico? Sono solo.

Senza data
Ho traslocato. La vita cittadina era troppo cara. Qui la mia giovinezza ha conosciuto tempi migliori, qui ho assaporato l’amicizia dei miei amici. Non è stato difficile trovare fra le cascine disertate dai villici, per fare i tranvieri in città, all’inseguimento del “progresso”, una che facesse al mio caso e, perdipiù, a un tiro di fucile dalla casa in rovina dei miei amici scomparsi. 

Sena data
Ho sviluppato una facoltà sorprendente. Essa si attiva nel trapasso dal sonno alla veglia, quando le immagini oniriche sembrano non abbandonare la mente. Scene che reiterano nel dormiveglia la loro estraneità col quotidiano corrente. Accade così che i Saraceni tornino alla ribalta col loro magnetico mistero. Questo, forse, il vero motivo che mi ha fatto cercare dimora nei pressi della caverna e della villa. 

Quando vidi Emma incorniciata nello stipite della porta, un profondo turbamento mi spinse a balbettare, non udito: “È proprio lei Emma?” La vecchia che era sempre stata, mi riconduceva a loro offrendomi i suoi servigi senza che l’avessi cercata, e senza far mostra di riconoscermi. Ero dunque così mutato? Avevo timore mi riconoscesse. Veniva due volte la settimana per spostare la polvere da un posto all’altro della povera casa.
“A lei piace la lepre?” chiese un giorno. Trasalii affrettandomi a negare. Poi un mattino le chiesi:  “Chi abita lassù?” Turbata, disse: “Oh! Più nessuno c’è, lassù, da anni. La signora contessa e il conte, dei veri signori, sa? E lui cercava il tesoro, anche. Aveva segreti che nessuno sapeva, sa? È entrato nelle grotte quand’era giovane, anche!” 

Simulai disinteresse ma la donna parlò ancora. Mi addormentai a stento, sognai di sognare pur cosciente che tutto era vero. Una febbre strana mi assaliva a intervalli al solo immaginare cosa mi attendeva laggiù, richiamato dalle sirene del passato, dalla leggenda delle grotte fatta storia. In me prendeva vita la loro impronta che mi faceva amare il loro ricordo, la Tradizione, il Passato e i suoi riti perduti. 

Senza data
Nemmeno oggi uscirò. La smagliante tessitura della luce incide come un bisturi il paesaggio: il sole gioca sugli arazzi verde e viola, sulle chiese dalle mura consunte su cui il tempo ha scolpito bizzarri geroglifici. Tutto risplende, opprimente. Un luogo come questo coincide con la periferia della vita. I miei nervi mal sopportano l’assalto della memoria di un bene goduto e poi perduto. Ma una forza oscura mi tiene inchiodato là, come se avessi dovuto “coincidere” con i reperti in sfacelo dei pressi.
Ho licenziato Emma inventando una mia lunga assenza. Non sopportavo averla tra i piedi. Vittima di quel luogo mi consumavo nel desiderio di appartenervi. Ma in che modo?

Giugno 2021
Non esco se non di notte. Nessuno sa che sono qua.  Sto sfuggendo alle fauci del buio, ma sino a quando? Ho cominciato a sognare la mia amica. Severa, sfuggente. La sua scontrosità mi ferisce, non era mai stata così con me. Vorrei chiederle spiegazione ma si nega, come se l’avessi delusa, contrariata. Comincio a delirare, ho timore del nuovo giorno. La caverna mi attende, lo so. 

Senza data
Ho timore di non riconoscermi allo specchio. Evito ogni contatto. L’unica certezza rimasta a torturarmi e di cui non riesco a dare ragione è che nella veglia trascino  incubi fatti di memoria così veraci da spaventarmi. Sgomenta sapere che essi vivono paralleli alla vita vera.

Giugno 2021
Devo affrettarmi e osare. Là sotto c’è la vita che cerco. Non distinguo la veglia dal sogno. Scivolo in un incubo che mi porta nel ventre della valle dove si aprono le caverne del Saraceno:

Vapori umidi e spessi si alzano dal suolo. Sterpi secchi, bruciati da infiorescenze di brina. L’apertura è un rettangolo basso di tufo scalpellato. Ho paura.  Non è un luogo fisico questo, ma un brano di tempo fissato in un Tempo-spazio che lo isola, saturo di parvenze, vanamente indagate, e ora accese in me. In balia di un tempo alieno, vago.
Ho dei fiammiferi e un mazzo di stecchi secchi. Mi sembra di scorgere un bagliore. Sottoterra?! Accendo il primo fiammifero. La camera è bassa. Sulla destra un tavolo di pietra, stretto e lungo. Il fianco del tavolo si conficca nella parete. Il primo stecco si spegne. Il secondo illumina un’altra apertura, sono camere basse, una consecutiva all’altra, nel secondo ambiente devo chinare il capo. Il pavimento è in discesa. Scolpite sul lato inferiore di un cornicione tre teste di toro. Rimasugli di coppe e bacinelle riposano su una mensola murata. Su alcuni frammenti si innestano manici, con il capo a forma di aspide,  figurine di scarabei collegati con minuscoli festoni di fiori e frutti scolpiti. Tutto è infranto, sommerso dall’onda dei secoli.
Forme indistinte di metallo… forse i rilievi di padre Piòvera? Opachi diademi di morte!
Davanti al biancheggiare di ossa ridotte a pietrame la mia mente cessa. Scheletri fosforescenti, confusi con lame brandite dalle sole ossa metacarpali. Un pattume di ossa emerge dal pavimento, frammisto al morso di ferro ancora in bocca ai cavalli. Crani equini e teschi umani, ancora appesi al loro cappio, privi dello scheletro, crollato a terra. La fiammella del quarto stecco si estingue. Non hanno urlato tanto questi resti umani quanto ora sta urlando il silenzio. Ma sono io che grido insieme ai murati vivi. Stavo raccogliendo i frutti dell’aconito, che dispensa follia e morte. 

Senza data
Complice una notte senza luna scendo verso la grotta. Mi affanno fra nuvole di rovi. Indugio davanti all’ingresso laterale, indicato dal conte. Mi infilo nel cunicolo. Da una fessura filtra una luce fosforescente come se provenisse da  una… camera ardente?! La camera! c’è ancora, sottratta alla devastazione della cava. Ovvero la tomba del guerriero arabo che stringe l’elsa della sua spada di tufo. Domani tornerò qui. Mi stenderò di fianco a lui. Chiuderò gli occhi. Per sempre.       

                                                                   
Rileggendo la testimonianza mi prende una gran tristezza. L’angoscia impotente fa il resto. Oggi stesso consegnerò la corrispondenza ricevuta agli inquirenti che indagano sulla scomparsa del mio amico. Allora tutto sarà tragicamente chiaro. 

Per cercare riscontri occorre consultare:

Aldo di Ricaldone, Monferrato tra Po e Tanaro cap. X, p 484; Gribaudo Sedico
Mario Paluan, I tesori della valle di tufo, Sedico
Federico Cappello, Le grotte dei Saraceni, Associazione  Amici  della  Natura di Casale e del Monferrato 
Luigi Bavagnoli, Grotte dei Saraceni, L’ultimo mistero del Conte Mola, articolo del 28 dicembre 2011, Casale news, giornale on line. 

ha sposato la cugina tredicenne? (4)

Vita sventurata quella di Poe, se si pensa che, a ventisette anni sposa la cugina tredicenne che muore a 25 anni. La morte della moglie Virginia Eliza Clemm lo angoscia mortalmente: “Ogni volta subii tutti gli strazi della sua morte e a ogni ritorno del male l’amavo sempre di più e mi afferravo alla sua vita con ostinazione sempre più disperata. Diventai pazzo con lunghi intervalli di orribile lucidità.” Così scrive da New York il 4 gennaio 1848 a George Eveleth chiedendo nelle tre righe finali della stessa lettera aiuto economico. Questo figlio della notte amava disperatamente la vita e fra le eccellenti manifestazioni della vita amava al sommo la creatura femminile e la sua Bellezza. 

“Fra tutti gli argomenti melanconici, qual è, secondo il concetto universale dell’umanità, il più melanconico? -La Morte- fu l’ovvia risposta. E quando è più poetico questo argomento, fra tutti il più melanconico? Dopo quanto ho già abbondantemente spiegato, la risposta fu ovvia: Quando è più strettamente congiunto alla Bellezza, dunque la morte d’una bella donna è il tema più poetico del mondo e le labbra più adatte a tale argomento sono quelle di un amante orbato dell’amata”. Dalla FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE di E. A. Poe.

Scrivendo a H. D. Chapin – Fordham, 17 gennaio 1848: “Mio caro signore,
qualche tempo fa la signora Shew mi fece capire che forse voi mi avreste aiutato nel tentativo di riprendere il mio posto nel mondo letterario; e ora questo aiuto mi arrischio a chiedervelo…La difficoltà per me sta nel pagamento anticipato della sala e io non ho denaro.  Credo che il prezzo sia quindici dollari. Penso, senza essere troppo ottimisti, di poter contare su un pubblico di tre o quattrocento persone…Se avrete la gentilezza di concedermi l’aiuto che chiedo, vorrei prendere in affitto la sala …
Ringraziandovi, credetemi il vostro Edgar A. Poe”
La conferenza di Poe si tenne davanti a  un pubblico esiguo, riunito nella biblioteca della Società Storica di Nuova York, giovedì 3 febbraio 1848
Scrivendo a Charles Astor  Bristed chiede amicizia e ancora…danaro: – Fordham, 7 giugno 1848: “…La mia unica scusa è questa, che mi trovo condizioni disperate, in amarissima angoscia di mente e di corpo, e che mi sono guardato attorno invano, in cerca di un amico che possa e voglia  soccorrermi…con pochissimo aiuto tutto andrebbe bene per me, ma non posso procurarmi nemmeno quel poco; lo sforzo per superare una difficoltà  serve solo a sprofondarmi in un’altra. Mi perdonerete, dunque, se vi chiedo di prestarmi  il denaro per andare a Richmond?…mia suocera vi spiegherà in quale condizione mi trovo.

Sinceramente vostro Edgar A.Poe” 

Un mendicante patetico, ubriacone, spesso bugiardo, proprio lui, il grandissimo poeta visionario, invocato da Baudelaire, il finissimo psicologo, l’investigatore degli abissi dell’anima, per tutta la sua vita vide qualcun altro, assai inferiore al suo genio, arrivare prima di lui per rubargli l’ammirazione della folla e la riuscita nella vita. Dalla prefazione di Henry Furst dell’EPISTOLARIO: “…le brame appassionate della sua anima verso il bello e il vero lo resero assolutamente  inadatto ai rozzi urti e alla feroce concorrenza del mercato letterario…le caverne dell’oceano, il disfacimento e il mistero che abitavano gli antichi castelli, il tuono del vento attraverso le navate della foresta, gli spiriti che cavalcavano l’uragano non visti da nessuno se non da lui e le profonde creazioni metafisiche  che si libravano attraverso le camerate della sua anima, erano la sua unica ricchezza…nato sotto una cattiva stella, la sfortuna lo perseguitava anche morto. Ma la sua opera resisterà  nei secoli finché durerà la civiltà nata dalla gloria che fu Grecia e la grandezza che fu Roma.

indagavano sul Covid 19

                      L’AGENTE SEGRETO – inedito

                                         
Vi dico quello che ho in parte appreso dai media occidentali e cinesi, quindi di pubblico dominio, in parte da alcune testimonianze raccolte in loco.  Ma soprattutto in base a una vicenda che mi ha coinvolto e sulla quale posso solo avanzare ipotesi pur essendo stato il suo attore principale. Non mi riferisco a qualche “incidente” simile a quanto rivelato da Le Monde e dalla trasmissione Quotidien, ovvero che due miei ex colleghi e la moglie di uno di essi sono stati sospettati di alto tradimento, avendo trasmesso informazioni secretate a una potenza straniera. Una fonte giudiziaria vicina all’inchiesta avanza più di una ipotesi: la potenza straniera sarebbe la Cina. Un precedente che si è forse ripetuto anche se in circostanze e modalità diverse riguardandomi da vicino? 

Mi chiamo Blaise Lagarde. Sono stato un agente speciale del DGSE, la Direction générale de la sécurité extérieure, servizio informazioni all’estero, dipendente dal Ministero della Difesa francese; ho avuto il compito di “documentare” quello che stava accadendo nel laboratorio di Wuhan e che mezzo mondo sospettava. L’ho fatto e con successo, ma le mie riprese fotografiche, che dovevano rimanere top secret, inspiegabilmente sono apparse su Twitter e con mio sommo stupore, su China Daily, riprese com’è ovvio, subito dai media occidentali. Anche se è trascorso molto tempo la mia posizione mi vieta di rivelare particolari; si correrebbe infatti il rischio di compromettere del tutto i rapporti diplomatici tra Francia e Cina, rimasti precari da allora. Su altri fatti che mi hanno successivamente coinvolto e che potrebbero  contenere la risposta a tanti perché devo comunque osservare il massimo riserbo. 

                                       IL RACCONTO

I laboratori cinesi di Wuhan sono stati il frutto di una travagliata collaborazione franco-cinese nata dall’intesa del 2004 tra Chirac e Hu Jintao. Non è una novità. Ma una volta terminati i lavori, noi francesi siamo stati estromessi dall’attività e da qualsiasi controllo del laboratorio. Diversi in patria l’avevano predetto. Infatti le decine di ricercatori del mio Paese, previsti dall’accordo, non sono nemmeno mai partiti per la Cina e il laboratorio P4 di Wuhan ha iniziato a operare a sua discrezione e in totale autonomia, al di fuori di ogni controllo francese, capitolo previsto inizialmente dall’intesa, e, forse, senza rispettare le scrupolose norme del protocollo per la manipolazione di sostanze estremamente pericolose… “Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica”, ha riportato Le Figaro secondo fonti attendibili. “Le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure analoghe a quelle adottate nei sommergibili nucleari.” Il timore che il laboratorio di Wuhan potesse funzionare al di là di qualsiasi verifica o tutela del mio Paese c’era e così è stato.  

“Il coronavirus è un virus manipolato sfuggito accidentalmente ai controlli  da un laboratorio cinese di Wuhan, mentre era allo studio un vaccino per l’Aids. La fuga può essere avvenuta  negli ultimi tre mesi del 2019.” Lo sosteneva un illustre scienziato, connazionale, Premio Nobel per la medicina.  Secondo lo studioso, l’origine dell’epidemia è acclarata e non necessita di ulteriori indagini. In base alla sua opinione non si tratta di dolo, ma di negligenza. Qualcun altro, sull’opposto versante, sostiene tesi diametralmente opposte: “Covid-19 non è nato in Cina”. A dirlo è la direttrice del laboratorio stesso di Wuhan, Wang Yanyi,  che respinge categoricamente ogni addebito negando che la struttura di ricerca abbia avuto una qualsiasi responsabilità nella diffusione dell’epidemia. Il China Daily, con mia enorme sorpresa,  aveva pubblicato i miei scatti “rubati” dell’interno dell’Institute of Virology di Wuhan, scatenando una polemica colossale, offrendo il fianco a bordate di interrogativi. Nello specifico: immagini di una delle celle frigorifere aperte, contenenti 1500 ceppi di virus diversi, incluso il coronavirus. Che talpe francesi operassero nella redazione del China Daily  lo suppongo soltanto. Paradossale che qualcosa di quel genere potesse accadere considerata la posta in gioco. Tuttavia potrebbe trattarsi di una “vendetta” postuma. Ma di chi? Dopo aver documentato ciò che avveniva nel laboratorio di Wuhan sono stato subito arrestato, anche questo è strano. Avevo ritratto la presunta “pistola fumante” ovvero: la porta aperta di una cella frigorifera coi suoi sigilli in evidenza, e poi un’operatrice che regge una serie di fialette contenenti agenti patogeni. Quello che segue è la cronaca fedele di ciò che ho vissuto allora, dopo l’arresto:

(AUSTRALIA OUT) Virologist, Associate Professor Stuart Turville, analyses the COVID-19 Omicron variant, at St Vincent’s Hospital’s Centre

More, ancora more! depositate in una scodella di latta e, nella seconda ciotola, dell’acqua. Era tutto ciò che giaceva sul pavimento della cella oltre a me, s’intende. Cibo bizzarro accompagnato da un po’ d’acqua. More! Da quanto tempo ero steso a terra in quello stato?! Mi pareva che fossero trascorsi anni. Come potevo saperlo?! No! mi dicevo, non devo commiserarmi, ma resistere! Dovevano avermi somministrato qualche sostanza stupefacente, avevo perso i sensi subito dopo l’arresto. Ero ancora assai confuso. Mentre l’allucinazione riemergente, impediva ogni ricognizione dell’ambiente e delle circostanze che mi avevano condotto lì, tuttavia, come un cane in procinto di annegare, annaspavo cercando di addentare qualcosa di solido, di aggrapparmi a brandelli di una realtà frantumata e incongrua, da cui fuggivo subito dopo per averne percepito l’insidia. Sperare significava affrettarmi in direzione della fine. Dovevo rinnegare la guerra di parole che agitava la mia mente, resistere alle allucinazioni come quella di avere braccia lunghe come funi. Non osservare, non credere…a nulla! Dormire di un sonno ristoratore!  Da tre giorni era quello il desiderio insoddisfatto. Nient’altro nella stanza illuminata giorno e notte dai neon se non le due ciotole e una seggiola che la mia alterazione suggeriva essere d’ausilio per le sedute di tortura condotte dai musi gialli. Da tre giorni il silenzio, l’assenza di ogni manifestazione di vita, c’erano solo le more. Minacciose che mi lasciavano immaginare la mia morte, probabilmente per inedia; avendo smesso di indagare quella stanza che dipingevo ancora più atroce di quello che le letture giovanili di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft  suggerivano, non potevo che attendere. Ero assalito, non da orde di topi famelici, né da cadaveri che mi trattenevano per la caviglia, appena fuoriusciti dalla loro tomba, no, niente di tutto questo. La mia era una tortura luminosa, se così posso dire, con amara allusione ai neon sovrastanti, un tormento per ora solo psicologico. Pensavo a certe terrificanti torture cinesi,  come quella della  goccia che cade sul cranio, sino a perforarlo, anche se io non ero bloccato e non v’era alcun aggeggio sospeso a suggerire l’eventualità. Minacciato da quel “cibo” bizzarro e  invitante la cui apparenza innocente ora mi terrorizzava! e che sicuramente i Cinesi avevano provveduto ad avvelenare. Resistere! Alle more appena colte, resistere a una ghiottoneria per molti. Infine resistere a me stesso! E poi, come ho detto, c’era quella luce potente sempre accesa che mi frugava. Quanto tempo ci voleva prima d’impazzire? Le more potevo evitarle, la luce no. 

Persi conoscenza. Erano quelli i momenti che i miei carcerieri attendevano per portare nuove more e acqua in cella. Da qualche parte dovevano esserci uno spioncino e un’apertura! ma dove? La mia missione equivaleva a una esercitazione nella mia carriera di agente speciale, troppo facile era stato! Dovevo cercare una prova  e l’avevo trovata ma la sensazione di essere stato facilitato proprio dai cinesi ce l’avevo. Perché?  Le immagini che avevo catturato  prima di sparire dalla rete il giorno dopo, seppi che avevano fatto il giro del mondo. Esse illustravano chiaramente una deficienza nella procedura di manipolazione delle fiale contenenti patogeni, sollevando dubbi sul grado d’isolamento della cella frigorifera stessa. Chi aveva trafugato le mie foto? Io avevo lavorato secondo un piano prestabilito nei dettagli che prevedeva in anticipo la loro pubblicazione a mia insaputa? O che altro? E la talpa cinese a cui dovevo dire grazie che faccia aveva? Per scattare quelle foto c’era bisogno della loro collaborazione, o meglio “disattenzione”. Fai presto, faccio finta di non vederti! Su, spicciati! Svelto! anche se conoscevo a memoria la topografia dei laboratori e l’ubicazione delle celle frigo, contenenti le fiale. Un rovello inestricabile contro cui nulla poteva la mia ragione. Ero io a tremare in tutto il corpo o fosse invece la scodella dell’acqua che le mie labbra tentavano di avvicinare. La scodella tremava. Mentre avvertivo un formicolio al cuoio capelluto e alle caviglie. La porta! Dov’era finita la porta d’ingresso alla cella? O non c’era mai stata!? L’LSD, fa questi “scherzi”. Da dove entravano allora? nemmeno l’ombra di una fessura. Una camera isolata, probabilmente sotterranea, adibita a prigione, in barba al protocollo internazionale sul trattamento dei prigionieri. Mi trovavo in un recesso sotterraneo sigillato dal mistero e dal silenzio da cui non sarei potuto più uscire, uno spazio ellittico dentro cui anche un animo più saldo del mio avrebbe capitolato. Il silenzio sarebbe stato il compagno della mia pazzia. Per quelle maledette foto che avrebbero dovuto servire “solo” come arma di ricatto o di rivalsa, o per rinfocolare dubbi, accuse per la collaborazione franco-cinese andata in malora. 

Nel mio corpo febbre e incubo facevano strazio, forse ero stato venduto, o tradito, A ondate i dubbi mi tormentavano, la mia missione aveva uno scopo a me sconosciuto, oppure che altro? Catturato dai cinesi che sapevano in anticipo delle foto? A chi giovava la loro pubblicazione? Era forse una vendetta degli stessi cinesi, e se sì, perché? Stavano complottando per mostrare al mondo le deficienze del laboratorio di Wuhan! Ipotesi che rimava con la follia.  Voci…no, mi sbagliavo. Solo rumori prodotti dal silenzio. Così sarei impazzito! A quella galera sotterranea illuminata a giorno ero stato condotto in stato di incoscienza. Assopito, riaprivo gli occhi senza tuttavia riconoscere la veglia dal sogno. Eppure… Ancora Rumori! Fatti da chi sta armeggiando sul mio capo con utensili da scasso. L’inedia cominciava a farmi perdere il senno. Eppure nell’angolo più lontano da me i rumori ora si ripetono, distinti. Un intero pannello della soffittatura il cui perimetro corrisponde a  quello della grata di protezione dei neon ora si sta muovendo. La luce ne impediva la vista. Per questo non l’avevo scorto, celato dal controluce. Qualcuno cerca di entrare da lì, ma non ci giurerei. Solo quando scorgo due figure in tuta scendere la scala retrattile che avevano calato sobbalzo, senza riuscire ad alzarmi tanta era la mia debolezza. Mi portano via! Mi uccidono! è finita! rumino. Ebbi la sensazione che la scena avvenisse dentro di me, tra retina e cornea. Sagome oscure che risaltano contro un sipario appena sfiorato da luminescenza. Come chi di colpo passi dal sole all’oscurità trattenendo l’impressione della luce negli occhi. Son dentro di me son bvenuti a uccidermi. Mi sollevano di peso facendomi cenno di tacere. Francesi! Sono salvo.


Se avete letto sin qui avrete notato che la mia storia contiene certe stranezze. La mia camera è la numero 23, numero dispari che non mi piace, sono ricoverato all’ospedale “La Timone” di Marsiglia al reparto psichiatria. Ogni tanto vengono degli uomini, uno di loro è in divisa, mi guardano, senza parlare con me, solo coi dottori. Non riesco a capire dov’è la porta della camera per cui mi dispero non sapendo come uscire di qui. Il mio dottore dice che però sto migliorando e anche che ho una prodigiosa fantasia. Così ha detto: prodigiosa! Volevo dirgli che a me le more mi fanno venire la nausea. Ma non trovo mai l’occasione.

scendeva la morte dal cielo

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

GIORNATA NONA

Può una storia apocrifa come quella che sto per raccontarvi essere considerata inverosimile e poi possibile? Temo di sì. Quanti  simboli e riferimenti essa riesuma e promuove per indurvi a considerarla autentica! La mia narrazione parla di un orrore antico che erompe in luoghi disparati, a distanza di anni, incarnato in una figura attraente e malvagia. Eventi tenuti a bada dalla memoria, che vorrebbe, invano, sbiadirli, condensati in vicende raccapriccianti, Il cui riscontro si conferma ma confuso e incerto. Così accade che disperazione e disfatta ribadiscano il passato, preconizzino il futuro, additando debolezze e miti infranti, lasciando libero campo alla pena. Questa, fra tante, è la storia di un incubo. Non sono del resto gli incubi, detentori di primordiali saggezze più reali del vero? Non è forse nel cuore del buio che ci destiamo di soprassalto, angosciati, stretti alla gola da una mano malefica?  è solo un sogno, è solo un sogno, ci affrettiamo a voler credere, stropicciando il cuscino. La mia storia è come uno di quei sogni, in cui i simboli appaiono, svaniscono come ombre cinesi.  Una vita parallela, che ospita brani di noi, sedimentati come ciottoli di fiume, in cui dovremmo cercare oltre le apparenze.  Invano. Perché proprio qui, passato, presente e futuro, spogliandosi di senso, diventano un tempo ellittico, inquinato dalla fantasia, come recita appunto la mia storia. Tra Monferrato, Londra, Kaffa sul Mar Nero, teatri di sconcertanti profezie, l’eco del crollo dell’Occidente, consecutivo a sovvertimenti inimmaginabili. La “collusione” delle mie visioni col nostro presente smarrisce.  Il primo virus, infatti,  non fu che un incidente, elaborato in laboratorio o meno non si sa, un fiammifero gettato nella polveriera del pianeta, già pronta al collasso per altri motivi. L’inizio della fine, incapaci di difesa contro la marea montante del “pericolo giallo”. 

                          LA MORTE DAL CIELO

La Cina dopo aver fiaccato e poi smembrato intere economie “amministrava”, se così posso dire, i Paesi del sud Europa e gli Stati Uniti con pugno fermo, il suo controllo, dopo aver ridotto a “province” dell’impero Stati sovrani e imparato a “usare” il virus Covid 19 come arma, era incontrastabile. Numerosi i campi di rieducazione chiamati dai cinesi “centri di formazione professionale volontaria” che nel passato avevano “ospitato” nello Xinjiang centinaia di migliaia di Uiguri. In Italia i centri erano insediati a Mori, in Trentino. Nella Penisola i cinesi si erano attestati, senza quasi colpo ferire, lungo la costa tirrenica, “punendo” immediatamente ogni presunta velleità di ribellione, rara peraltro. Incuriositi da quel secondo leader bianco vestito, seduto su un gran trono come  il loro ultimo imperatore, fra croci e incensi biascicando l’incomprensibile, gli concessero la libertà di languire in un convento-carcere. L’eredità di Pietro cessava con lui.

La più potente portaerei al mondo, la Shandong, fiore all’occhiello della Marina delle Forze Armate Popolari di Liberazione, con quasi duemila uomini,  attraversato lo stretto di Gibilterra e messasi alla fonda al porto di La Spezia, era venuta a riscuotere i crediti della politica di egemonia cinese nel Mediterraneo. A contrastarla, ma solo simbolicamente, si erano levati in volo, senza precise indicazioni, due aerei da combattimento Rafale d’Assault dalla base aerea 701 di Salon-de-Provence. Teatrale avvertimento di un fittizio asse franco-tedesco prossimo a dissolversi. Poi presero a giungere notizie frammentarie su orrori di armi immonde usate dai “gialli” per tenere a bada i territori soggiogati. Cosa c’era di vero?

Ottiglio Monferrato, 6 maggio 20…, giorno che mai dimenticherò.
Tutto il pomeriggio ero rimasto a bearmi davanti a un anfiteatro di verde di rara suggestione. Obelischi di campanili, anfratti impenetrabili, ombre di chiese, cascine sparse  su fazzoletti di verde, ocra, viola e giallo. Il bel suol d’Aleramo, cantato da Rambaldo di Vaqueiras mostrava un arazzo mosso dai tenui vapori della foschia serotina. Non riuscivo a staccarmi da quel luogo, teatro di fantastiche letture, a due passi da lì infatti si aprivano le grotte dei Saraceni con le loro turbinose leggende. Oltre il dosso le rovine di una casa di tufo, tra le cui mura, adolescente, ero stato a lungo ospite felice. Quanti anni erano trascorsi da allora! Le prime ombre già abbrunavano alcuni sentieri e lo sterrato, passando davanti alla cava di tufo. Complice di grati ricordi la profondità dell’azzurro sbiadente. Alle mie spalle la deliziosa chiesetta romanica di Moleto. Infine il piazzale davanti al bar all’aperto posto su un pendio.
Stavo per abbandonare quell’incanto quando un fatto singolare, che riconobbi decenni appresso profetico, catturò la mia attenzione. Un rumore dalle parti della cava, poi un clamore crescente, forse lo sferragliare di ruote sullo sterrato, irraggiungibile con lo sguardo, come di chi, si stesse avvicinando in tutta fretta. 

Oh! Mah! Sulla stradina un tiro a quattro apparve! Trascinava a folle velocità una carrozza. Quattro cavalli lucidi  e neri scalpitano e l’esperta mano del cocchiere li blocca appena in tempo prima di piombare nel dirupo. Sbalordito, fissavo la scena. L’attesa durò lunghi minuti durante i quali fui tentato di avvicinarmi alla carrozza, quando la portiera venne aperta dal cocchiere e una figura nascosta da un mantello con cappuccio, a nascondere i connotati, scese lentamente. S’incamminò senz’altro verso il parapetto prospiciente il belvedere, seguita dal cocchiere che già aveva tranquillizzato i quattro animali. Il suo braccio coperto fino alle dita dal mantello fece un gesto indicando una zona, mentre il cocchiere assentiva. Il mio stupore non mi impedì di rilevare dettagli, ma l’animo distillava angoscia. I cavalli impennacchiati di nero se ne stavano immobili come pietra, in attesa. Mi sforzavo invano di scoprire le fattezze della figura intabarrata. Poi sembrò che  la sagoma volesse passarmi accanto di proposito, e a due metri ne adocchiai finalmente il volto. Il sangue raggelò all’istante. 

Felice allora se, prima di quella vista, fossi stato accecato da spiedi roventi. Non so se femmina o maschio o quant’altro di diverso dai due generi, una bellezza sovrumana si celava sotto il mantello. Ma gli occhi! Oh gli occhi! Malvagi e perversi, gli occhi, infernali, crudeli e beffardi, maligni e atroci, suggerivano abominio e scelleratezza oltre l’immaginazione, essi mi colpirono come lame in pieno petto. Caddi all’indietro felice di morire all’istante per aver constatato che nature simili esistevano. Precipitai nel baratro che si apriva oltre il belvedere del bar. Non potrei giurarlo ma nel cadere mi parve di udire le note ossessive di una chitarra e una risata, sicuramente frutto del mio intendere sconvolto. Mi spiacque destarmi all’improvviso  perché la visione di quel volto infernale rimase nella veglia a tormentarmi, mentre, agitato, sapevo che mi avrebbe accompagnato per la vita.

Londra, luglio 20…
Stanco di aspettare invano postino e moglie col carrello della spesa uscii verso Sheperd Bush. Dai rari amici italiani nessuna notizia. Mi azzardai a salire sulla Circle line, poca gente con mascherine, visiere e tubi di disinfettante ai tornelli. La calca di un tempo un ricordo. Il periodico riapparire del morbo dopo anni dalla sua prima comparsa aveva stremato l’ottimismo dei metropolitani scompaginando economia e politica.  La Gran Bretagna non apparteneva più agli Inglesi: un padrone poco visibile giunto da lontano reggeva la sua sorte. Il morbo dipingeva la città coi toni lividi dello scoramento. Dopo lunghe tregue che facevano ben sperare il male tornava a colpire, improvviso, come una maledizione biblica. A Ruislip  in un ex parcheggio avevano appena “inaugurato” un cimitero per 1600 salme. Obitori e ospedali temporanei a forma di igloo, ovunque. Era la nuova Londra.

The famous London Underground logo advertises the Moorgate subway station. England.

Scesi a Moorgate come un tempo, per ammirare i fastosi edifici della City, caratteristici di un passato dissolto. Quel giorno una sorprendente novità: doppie transenne proprio all’inizio di Roman Wall verso le rovine di pietra del monastero-ricovero St Alphage. E a ogni dieci metri un agente armato. Davanti al vecchio pub Globe, sei blindati della polizia, due ambulanze e un camion tir candido senza insegne. Qualcosa di clamoroso doveva essere appena successo. Non un passante!  Nell’aria una indistinta minaccia. Girai l’angolo verso i bastioni del Barbican, alle spalle l’incisione murale a rammentare lo scoppio della prima bomba tedesca nel 1940. Non più nazisti ora, ma cinesi a presidiare la città, celati da amministratori-paravento indigeni. Proprio allora mi vennero in mente le parole dell’ex direttore dell’FBI che decine di anni prima aveva detto: “La Cina tenterà di imporsi come unica superpotenza dettando il suo volere al mondo con ogni mezzo”. Parole profetiche? Mezzi che in modo sinistro dovevano manifestarsi anche quel giorno in tutta la loro allucinante perversione.
Poco prima della loro rimozione, riuscii a osservarli, li stavano fotografando: detriti elettromeccanici sparsi davanti al pub Globe. Curioso e bizzarro. Pezzi di motori elettrici, con la matassa di filo di rame del rotore sbobinata, uno dei quali era finito su una siepe di bosso, pale di eliche mozzate, fusoliere contorte e poi cofani contenitori per il carico, sfasciati.
Il tutto suggeriva lo scontro accidentale di due droni a bassa quota. Ma non era tutto e non il peggio. Con ogni mezzo, ripensai. Accanto ai resti dei droni una decina di sacchi candidi, alcuni dei quali lacerati, a rivelare nefandi contenuti. Oltre l’incrocio, celati da un secondo cordone di incappucciati in tuta, cadaveri. Le tute stavano “maneggiando” le ultime salme spingendole dentro il tir refrigerato. La ruota di una lettiga si sfilò e il pesante sacco scivolò a terra, rabbrividii al rumore sordo dell’impatto del cadavere col selciato. Il mio stomaco in rivolta, polmoni e  orecchie, compresse, come capita in apnea.  Immaginai il ghigno dei poveri cadaveri che si beffavano di noi, non ancora come loro. Mi figurai le misere salme che guardavano me senza vedermi, col giallo delle cornee, bovine, oscene.
La memoria ora inorridisce. Dove? Chi? Quando? La galleria cieca, davanti a “Costa Café” sprangato da anni, lasciava intravvedere un varco. Vi entrai a fatica, oltrepassando una soglia non esclusivamente fisica. Subito avvertii un tempo alieno, anteriore, impadronirsi di me, avvolgendomi. Cosa ci faccio qua? Rabbrividii. Non ebbi tempo di riflettere che fui urtato con violenza: senza neppure accorgersi, un soldato con una gran fascina, di furia mi era venuto addosso.  Strepiti, ordini e un lezzo bestiale. Correvano stravolti, dal deposito dei carri allo spiazzo dove fiamme crepitavano. Quelli di fuori lanciavano, questi bruciavano. Cadaveri dal cielo e nel rogo, catapultati dentro le mura di Kaffa. Tramortito dal peso dei secoli e dall’orrore, abbassai lo sguardo, appoggiandomi per non cadere al muro di “Costa Café”. Indietreggiai, varcando ancora la soglia. La visione svanì. Libero! Libero? Era stato, nel
1347, a Kaffa, colonia genovese sulle rive del Mar Nero. Mongoli, capeggiati da Khan Ganī Bek, lanciavano cadaveri infetti all’interno delle mura, prima di levare l’assedio. Sono stato là dentro, io, e poi ora a Moorgate pensavo. Morti attraverso tempo e spazio. Allora la peste, ora il virus mortale. L’arma perfezionata dalla tecnologia moderna, assai più efficace delle catapulte mongole, droni assassini che seminavano morte, allora come ora! Non sapevo se avessi potuto respirare.

Per non cadere sedetti su un gran lastrone di pietra. I cinesi tenevano in scacco il mondo con piogge di cadaveri, liberando all’occorrenza nuvole di zanzare infettate dal virus. Quel giorno ne avevo avuto diretto riscontro. Il vaccino made in China funzionava sin dall’inizio per loro e solo per loro. Sciami di droni pronti a colpire per soffocare  qualsiasi tentativo di ribellione nelle regioni sotto il loro impero. Obitori e ospedali rifornivano abbondanza di “materiale”. Mi chiedevo dove fossero in realtà diretti quelli incidentati. 

Telefonai a casa. “Ma dove sei? Ma sai che ore sono? Vieni a casa, è tardi. Vieni a casa ti dico!” “Come?” La linea disturbata cadde. Sarei arrivato col buio, non me la sentivo di riprendere il tube. Per la prima volta constatai l’agonia della città sconsacrata, la più ricca del mondo un tempo, ora dimentica dell’antica frenesia; dietro le imposte di negozi sprangati da cui era sparita la merce, il suo illustre scheletro resisteva, carcassa ancora fastosa. Il notiziario della BBC delle venti avrebbe riportato un incidente nei pressi di Moorgate. Due droni GA da 880 libbre, ovvero con capacità totale di carico di 440 chili appartenenti a uno stormo diretto a Manchester si erano scontrati. Non si registravano vittime. Dei sacchi, caduti coi droni nemmeno un accenno. Chi stavano andando a punire? mi chiesi. La censura impediva di sapere il resto ... Con ogni mezzo e a costo zero, riflettei.

Dall’Italia le notizie dell’amico astigiano, brutte; dicevano di certi balordi che avevano fatto scoppiare petardi davanti a un posto di blocco a Moncalvo, i cinesi avevano subito reagito, pensando che fosse una bomba. “Di notte ne hanno lanciati non so quanti dal cielo.” Davanti al municipio di Bosco Marengo e anche a Moncalvo, pareva. “Chi li va a raccogliere? Son tutti infetti i morti. Chi li va a benedire adesso? Qualcuno dice che ha visto una carrozza e dei cavalli neri correre verso Moleto….”… Quei cavalli neri? …. pensai, atterrito.

Non so cosa potessi pretendere dalla notte incipiente dopo i fatti di Moorgate e le notizie dall’Italia. Se non avessi tentato di distrarmi in qualche modo altri turbamenti avrebbero compromesso il mio già precario equilibrio. Così chiesi a mia moglie di uscire. “Ma non sei stanco?” “No”. 

Vagammo senza meta dopo aver imboccato una laterale di Askew Road dove c’era l’insegna spenta di “Fish and Chips bar St. Elmo”. Sconvolto a dir poco. Non un’anima e subito, paurose, chiome mormoranti di alberi e muretti bassi che potevano occultare i volti dei cadaveri in agguato di Kaffa e Moorgate! La fantasia sovreccitata non mi risparmiava nulla. Non c’era tregua per me, ogni cosa, anche la più innocua, rimandava a quegli orrori.  Seguivo taciturno le orme di mia moglie. Più intenso, ora, corroborato da un filo di ragione, il primo sgomento alternato alla pioggia di cadaveri su Moleto, Moncalvo e Bosco Marengo, secondo le notizie dell’amico astigiano, l’orrore mi scoppiava dentro. 

Improvvisa e a tutto volume una musica che ben conoscevo, le cui note ossessive ora mi perseguitavano! È me che vogliono! mi hanno scoperto! ormai è chiaro! Questo pensai. Era il brano Asturias di Isaac Albéniz, famoso pezzo per chitarra. Tanto più sinistro in quanto amavo il suo ritmo incalzante, ma qui fuori posto e a quell’ora, e poi nessuna autoradio era nei pressi, di furia mi diressi verso casa. Braccato e delirante.  

Svoltammo in Wormholt Road, mia moglie evitò di chiedermi cosa mi avesse preso, sapendo quanto sono bizzarro. Poi a casa disse: “Non ne ho più”. “Fa niente, ci vorrebbe mezzo litro di Valium, non camomilla” risposi. Che un nuovo incubo mi attendesse al varco appena addormentato?
Dopo aver paventato il precipitare di eventi orrifici, aggrappato all’idea che tutto sarebbe svanito se solo avessi spalancato gli occhi, cado in un sonno penoso.  Non devo attendere a lungo:
L’invito online descrive l’evento come il rave party più fabulous della stagione. Rigorosamente vietato dalla legge e dal nuovo incalzare del virus;  è ancora buio quando a Ravenscourt mi infilo nel tube deserto della District. Scendo a Tower Hill mentre un’alba livida annuncia basse nuvolaglie in transito. Non occorre cercare il luogo, piantato davanti al nuovo ciarpame edilizio simboleggiato dall’ogiva di cristallo del Gherkin, che una fiumana gozzovigliante  si sta dirigendo verso un punto preciso. La massa urla, scalpita, impreca, premendo per infilarsi dentro le mura. Sgomento, mi accorgo che non riuscirei a risalirne il flusso, tanto è fitta. Sei Beefeater impacciati con le loro ridicole livree bordate d’oro e il cappello a catino, indirizzano gli scalmanati all’interno della Torre di Londra. Dal primo cortile nei cui pressi un tempo scivolavano nel Tamigi i resti dei condannati, le raffiche di una musica urtante, contro lo stomaco. La massa si arresta, ondeggia, riprende ebbra. Alcuni invitati, a torso nudo, con lo scalpo dei Mohicani azzurro e rosa scivolano a terra, fradici di droga e alcool, tre ragazze lucide di sudore si avvinghiano ai forsennati, ululando. La folla si scalmana. Le torce ai muri lasciano fitte zone di buio.
In direzione di un secondo cortile, oltre il fossato, è già iniziato uno strano esodo. Alla spicciolata e poi sempre più folta una processione si trascina, mesta. Gli stessi che poco prima facevano baldoria, a capo chino ora barcollano. Senza capire li seguo. Inciampo, calpestando qualcosa di elastico che emette un rantolo! Aguzzo la vista e l’orrore mi infilza. Sto costeggiando una fila di cadaveri e di corpi esalanti l’ultimo respiro. Nuovi infettati dal virus! Fuggo verso il primo cortile, in tempo per scorgere il maestro di cerimonie ergersi sul palco dell’immondo conclave, è lui, è lei, la sagoma intabarrata di Moleto, vomitata dal basso inferno. Ora dirige la danza macabra alla Torre. Mi vede l’infame, fa cenno a tre Beefeater che ora calpestano vivi e morti per agguantarmi. Imbocco un varco che si rivelerà cieco. Con le spalle al muro, il loro ghigno, stanno per afferrarmi. Grido da far spavento. Non è la prima volta. “Ma cos’è? ma sei impazzito?  ma cos’è stato?” “…Scusa, dormi, scusa” balbetto verso mia moglie tapina.
Ci sono orrori indicibili capaci di estendere  le loro propaggini alle ore diurne. Tre giorni appresso la mia angoscia distilla raccapriccio, poi orrore. Proprio davanti alla porta di casa la carrozza coi quattro neri cavalli, immobili come pietra, nessun altro in vista; è me che cerca, lo so, me che vuole, lo sento. 

Pubblicato da Homo Scrivens

Racconto pubblicato su Decamerovirusa cura di Gianfranco de Turris

c’era il Fantastico?

Si fa presto a dire fantastico! Un viaggio, un pranzo, un amico, possono riuscire fantastici, o un programma tv, come quello del 6 ottobre 1979 quando andò in onda la 1ª di dodici puntate di “Fantastico”, condotto da Loretta Goggi e Beppe Grillo con Heather Parisi. Quanta acqua sotto i ponti! dirai. Ma niente di tutto questo c’entra col nostro fantastico, e allora cosa? Il Fantastico è qui soggetto eminente di un’opera singolare che si legge come un romanzo d’avventura. Edita da Solfanelli in onore dei 60 anni di attività di Gianfranco de Turris, noto internazionalmente per essere uno dei più accreditati conoscitori di questa osmotica materia. Il Viaggiatore Immobile, a cura di Andrea Gualchierotti, alla seconda edizione riveduta e ampliata – e già si parla di una terza ristampa – tratta di un altro genere di Fantastico, che questa volta non rima con meraviglioso, favoloso, sensazionale o formidabile, ma col quotidiano. A definire il Fantastico in questa sede ci aiutano i giornalisti Louis Pauwels e Jacques Bergier, autori de Le Matin des magiciens, opera del ‘60. Ecco cosa dicono: “il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà quando viene percepita direttamente e non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi…” Cose astruse? Affatto, perché ci toccano da vicino più di quanto pensi. Fantasy, fantascienza, fantastico, science fiction e via dicendo: solo alcuni dei termini descriventi una dimensione che fa dell’onirico e del virtuale una eventualità possibile; quanti milioni di persone si sono incollate agli schermi, soggiogate dalle vicende di Odissea 2001 nello spazio, Blade Runner, Interstellar, Ex Machina, famose pellicole cult che rivelano tuttavia inquietudini riflesse e prospettive potenziali di un futuro possibile: di intelligenza artificiale  si imbottiscono ormai anche i materassi. Punto di forza de Il Viaggiatore Immobile una serie di testimonianze autografe imperniate sulla figura di Gianfranco de Turris, che descrivono un’avventura pluridecennale di cui non si percepisce la fine, perché il fantastico nasce e vive con noi, inossidabile compagno di ogni vicenda umana, in forza del suo significato: rappresentare la parte più autentica che è sogno, desiderio dell’ulteriore, fuga dal quotidiano. 

Così la “rivelazione dell’inconsistenza ultima della realtàsi legge nel libro, fa pensare. Tolkien, Lovecraft, Evola, Meyrink, Jung, sono i nomi che più compaiono, in una fitta sequenza di amarcord talvolta accorati, fatti di date, incontri e scontri, ricordi di tumultuose avventure editoriali e filosofico letterarie; contigue alla politica, esse sono apportatrici di nuove idee e interpretazioni del quotidiano,  conquistate con fatica e lotta. Al centro di questa avventura c’è lui, il viaggiatore immobile, ovvero Gianfranco De Turris, amato e osannato, o vilipeso e osteggiato, sempre scomodo, perché granitico nelle sue idee “scomode”, ingombrante presenza fuori dal coro, sempre. Dai numerosi interventi offerti dall’opera, che si legge come un racconto avventuroso, uno significativo, quello di Chiara Nejrotti tratto dal capitolo Nostalgia del sacro e critica alla modernità, l’opera di J.R.R. Tolkien: Negli anni Settanta del secolo scorso Gianfranco de Turris, insieme a Sebastiano Fusco, propose un’interpretazione simbolica del fantastico che si dimostrò particolarmente feconda nell’indicare chiavi di lettura e significati, che probabilmente sarebbero rimasti nascosti secondo analisi meramente letterarie o di stampo strutturalistico, così in voga in quegli anni. Egli, infatti, indicò per primo in Italia il legame esistente tra mito, epica e letteratura fantastica, mostrando come quest’ultimafosse l’erede – più o meno consapevole – delle prime due e, per suo tramite, si manifestasse, nell’epoca del modernismo razionalista e del disincanto, una autentica e, a prima vista insospettata, “nostalgia del sacro…”

Nelle immagini: dipinto di Julius Evola e la copertina dell’opera.