L’arte di Acaye a New York

Per apprezzare le creazioni di Acaye Kerunen Elizabeth, in esposizione all’institute of Fine Arts di New York 1246 Days Around the Sun, occorre scomodare, seppur metaforicamente, la Fisica Quantistica con le sue interpretazioni stupefacenti e recondite del mondo, e questo descrive la complessitá della sua arte, solo in apparenza semplice. Indispensabile poi accantonare la concezione di Friedrich Nietzsche sull’arte, il quale nel suo Origine della Tragedia scrisse al proposito: “[…scopo supremo e attivitá metafisica specifica della vita umana è l’arte, “….e anche: “l’uomo vede ora soltanto l’orrore dell’essere o la sua assurditá. Nel supremo pericolo che corre la volontá si avvicina come maga salvatrice e sanatrice l’arte, essa sola puó cangiare di corso a quei pensieri di disgusto suscitati dall’orrore e dall’assurditá dell’esistenza…e mutarli in rappresentazioni che rendono tollerabile la vita…]
Nulla di tutto questo nell’arte di Acaye Kerunen, che è anche esplosione di colore, geometrie e di forme, e incredibile vivacitá di tessuti. Serbatoio di “conoscenza nascosta della terra e delle ecologie”.

Non si attagliano alle sue opere le analisi di Nietzsche e neppure i significati delle ipnotiche maschere rituali africane fanno qui testo; per comprendere le sue creazioni occorre un’ampia e profonda destrutturazione e rivisitazione del concetto di arte: il mondo rappresentato da Acaye Kerunen e quello occidentale, con le sue osmosi ontologiche, i ripensamenti radicali sui fini ultimi dell’uomo, le stratificazioni concettuali sull’umano e, tanto per citare, l’eterna simbologia del conflitto Dioniso Apollo, non sono evidentemente conciliabili, salvo prova contraria. Per analizzare le opere della creatrice multimediale ugandese, è indispensabile contestualizzarle considerando, ad esempio, i materiali usati, il luogo di produzione, il significato che l’artista ha inteso attribuire loro, e la Tradizione. La loro rustica semplicitá inganna. Sono fatte di fibre vegetali ossia destinate al dissolvimento e giá questo fa pensare, l’oggetto simbolo-significante non è destinato all’eterno, come si vorrebbe nelle nostre statue classiche, ma al quotidiano. Non si proiettano nel dopo, non tramandono ideali di purezza apollinea, ma vivono il presente nella tradizione e lo simboleggiano. La loro semplicitá “domestica” promuove riflessioni che coinvolgono il sociale, la denuncia, l’ecologia, la Tradizione, e, direttamente, la filosofia di vita.

Recita il comunicato relativo alla mostra: “Le opere di Kerunen sono composte da piante provenienti dagli ecosistemi delle zone umide di Nalubaale (Lago Vittoria) e dalla regione dei Grandi Laghi dell’Africa orientale. Quattro di queste opere di grandi dimensioni saranno esposte, sospese negli interni Beaux-Arts della Marica Vilcek Great Hall. Per realizzare queste opere, Kerunen si avvale della collaborazione, della competenza e dell’abilità artistica della tessitura femminile per trasformare materiali organici in un nuovo linguaggio scultoreo. La sua pratica coinvolge sia le strutture matematiche del pattern e dell’architettura, sia i cicli temporali di crescita, raccolto, creazione ed esposizione. L’arte di Kerunen si colloca all’interno di tradizioni che mettono in risalto il “lavoro femminile” come luogo di importante trasmissione intergenerazionale. La sua pratica affonda le sue radici nel cucito, nell’annodatura, nella tessitura e nell’intreccio a mano di fibre naturali. Tali abilità sono state a lungo svalutate sotto il patriarcato, ma sono in realtà un sofisticato linguaggio di sequenze matematiche, reso visibile nei frattali intrecciati che attraversano le superfici delle sue sculture.
Fra le opere in mostra:

Tong Lengu (Uova di Bellezza) (2024), Pok Lengu (Involucri di Bellezza) (2024), Poluutingu (I cieli l’hanno sollevata) (2023) e Nyingati (La moglie di qualcuno) (2023) – sono intitolate in alur, una lingua parlata principalmente nell’Uganda nordoccidentale. Insieme, articolano ciò che l’artista definisce la “conoscenza nascosta della terra e delle ecologie”, smantellando creativamente i sistemi coloniali basati sul maschilismo. Mettendo in primo piano diverse eredità, Kerunen rivendica l’artigianato come atto di resistenza. La pratica dell’artista incentra l’ambiente sia come fonte di materiale artistico che come deposito collettivo di saggezza. Il suo utilizzo di obuso (rafia), byayi (fibra di banana), mutuba (la cui corteccia produce l’olubugo, noto anche come tessuto di corteccia) ed ensansa (foglie di palma), tra gli altri tessuti vegetali, è influenzato dalla disponibilità di risorse e dai ritmi mutevoli delle stagioni.
Le sue collaborazioni in tutta l’Africa orientale sono plasmate dalle ecologie locali: cosa cresce e dove, quando può essere raccolto e chi lo trasforma in forma. L’attenzione di Kerunen all’ambiente complica le nozioni romantiche di “natura” come incontaminata o separata dall’intervento umano, rivelando invece l’ecosistema dei Grandi Laghi come un luogo di coinvolgimento plasmato dalla crisi climatica e dall’estrazione coloniale.

Acaye Kerunen è scrittrice, poetessa, attrice, performer, artista di installazioni e attivista artistica ugandese. È la direttrice e fondatrice del forum KEBU. È stata protagonista del padiglione inaugurale dell’Uganda alla 59a Biennale di Venezia insieme all’artista Collin Sekajugo in Radiance – They Dream in Time (2022) e ha curato il padiglione nazionale per la 60a edizione, WAN ACEL|TULIBAMU|TURIBAMWE|WE ARE ONE (2024). Kerunen ha tenuto mostre personali presso l’Afriart Gallery di Kampala (2021), la RAM Galleri di Oslo (2023), il BLUM di Los Angeles (2023), la Galerie Kandlhofer di Vienna (2024) e la Pace di Londra (2024), ed ha partecipato a mostre collettive presso l’Ars Belga di Bruxelles (2023) e il Barbican Centre di Londra (2024). Kerunen sta inoltre lavorando a una produzione teatrale musicale, I HAVE A DRUM (IHAD), una performance a base di percussioni che celebra e documenta Ingoma Nshya, le percussioniste ruandesi di fama mondiale.
Ritratto di Acaye Kerunen. Per gentile concessione della Pace Gallery.
Fotografia in alto a sinistra di Damian Griffiths.
La mostra è stata resa possibile grazie al generoso supporto di Valeria Napoleone.

New York University’s Institute of Fine Arts to present
Acaye Kerunen: 1246 Days Around the Sun
Great Hall Exhibition Series Fall 2025
The Institute of Fine Arts, New York University
The James B. Duke House, 1 East 78th Street
Opening: November 12 at 6:00 PM
On View: November 12, 2025 – May 22, 2026
Public Program: November 17 at 6:00 PM












c’era sua Maestà il re Ooni?

Straordinaria, altre parole sarebbero limitative e non riuscirebbero a definirla. Dorme a occhi aperti? Sogna? Medita? O è semplicemente trasognata? Tutto questo, insieme. È la sua espressione assorta a suggerirlo. Forse attende visite e noi non possiamo deluderla. E così ci rechiamo a trovarla, attirati dal suo fascino, quasi dovessimo rispettare un impegno, come se fosse una persona vivente ad attenderci e non una statua, rendendo omaggio alla sua eccezionale avvenenza, alla sua fascinosa maestà, alla squisita fattura e all’enignatica espressione del volto. La nostra visita al British Museum non è casuale, ma un pellegrinaggio continuativo verso una meta precisa: un soggetto che incarna la pura Bellezza, insieme alle altre due meravigliose ancelle. Si tratta della Regina Madre del sedicesimo secolo esposta al British Museum. Una scultura in bronzo di eccezionale fattura che mai ci stancheremo di ammirare e considerare sotto molteplici aspetti. Insieme a un “lotto” di sculture bronzee che coprono un’intera parete, gli arcinoti bronzi del Benin che, reclamati legittimamente a viva voce, dovrebbero rientrare in patria, nella loro Nigeria natale. Sin qui l’omaggio scontato e dovuto e il riconoscimento di una bellezza misteriosa e senza tempo, ma volendo prendere spunto da ciò che la regina rappresenta e ispira e per approfondire un tema importante che ci sta a cuore, occorre riferirsi anche alla diversa origine, significato e interpretazione della Bellezza nella sua patria d’elezione (riconosciuta): Grecia e Italia. Punti di riferimento indispensabili per capire l’arte dell’altrove.

Se fascino e bellezza da millenni si esprimono in Europa attraverso statue di marmo, bronzi, legno e creta riscuotendo ammirazione ovunque, è altrettanto vero che l’arte africana nelle sue espressioni più alte, come dimostra la testa della regina nigeriana, allude con tutta evidenza a un’idea di bellezza universale e comprensibile da tutti e ovunque come si trattasse di una Venere greca o una Venere del Botticelli, ovvero si supera il soggetto significante rimanendo inalterato il comune significato: l’incantamento che emana dalla Bellezza. Non è ozioso pensare che l’artista nigeriano dei secoli scorsi, agendo sotto gli stimoli delle medesime pulsioni creative dell’omologo europeo sia stato “facitore di bellezza” ossia di un linguaggio universale comprensibile da chiunque. Non c’è alcun dubbio. La regina qui incarna anche la Bellezza universale, al di là del significato intrinseco dell’opera d’arte, in Europa la nostra Afrodite, in Africa regine, re e guerrieri e animali rituali.
Da rimarcare che in alcune maschere, come la Maschera-pendente della regina madre, Edo, scolpita nell’avorio risiedono altri significati, esse suggeriscono infatti lo sconfinamento in un mondo sicuramente spirituale, trascendente, dislocato al di là della dimensione realistica, un mondo fascinoso, ipnotico, pertinente al magico, annidato nella mente umana: Maschere e sculture nigeriane sono a testimoniarlo. La Bellezza nei suoi esiti più alti, come nel caso dei Bronzi del Benin, ha una funzione di estremo rilievo, una funzione catartica, rassicurante, se vogliamo, non pertinente ai capitoli artistici dell’arte europea. Ci suggerisce che arte e bellezza fanno parte di patrimoni indistinguibili, “fluidi”, comuni a tutte le genti. Patrimoni fruibili da ognuno, pur nella diversità dei significati, dei luoghi e delle tecniche di produzione. “Fruire” per così dire, o apprezzare “quella” bellezza, ovvero quella emanante da realizzazioni di altri popoli e culture che poco hanno da spartire con la nostra, significa avvicinamento, comunione nel sentire, e soprattutto comprensione dell’altrui. La funzione della Bellezza è dunque medicamento insostituibile, significa parlare una stessa lingua, esprimersi e comprendere attraverso le stesse emozioni, lo stesso stupore e desiderio di capire l’Altro. Per questo fra una statua di Afrodite e un bronzo nigeriano c’è davvero poca differenza.

Ma quella Bellezza occorre che si faccia linguaggio. Che interpreti  il presente per edificare il futuro della Nigeria e dell’Africa tutta che non può e non deve essere “solo” economico. Un linguaggio ispirato  che restituisca l’unicità rinnovata di questo Paese. Un linguaggio osmotico, ponte tra popoli, civiltà e culture assai diverse fra loro. Quella nuova lingua deve poter escludere le trascorse sopraffazioni, mettendo all’indice le umiliazioni del passato. Senza acrimonia deve esigere il dovuto non solo in termini economici per cancellare gli odiosi, barbarici colonialismi di cui è stata vittima. E per impedire il risorgere di altri più subdoli. Un linguaggio, infine, originato dall’emozionante  vista della testa della Regina Madre (XVI sec.) Benin-Nigeria, delle due teste Oba che le fanno da ancelle. E della testa del re (Ooni-14-early 15 sec.) Un nuovo idioma per il popolo nigeriano alla ribalta del futuro. Il nuovo Rinascimento africano, come quello verificatosi in Italia, e poi in Europa, oggi sulle rive del Niger? Perché no? 

c’era l’alba?

Ripropongo un post di Paolo Novaresio tratto dai suoi quaderni africani, pubblicato anni fa

CANTO PER L’AFRICA

1.

È l’alba. Le piccole orme della volpe pallida spiccano nitide sulla sabbia gialla. È venuta nell’ora più buia della notte, ha bevuto l’acqua e mangiato le noci di cola, poi si è trattenuta a lungo all’interno del riquadro sacro, spostando gli stecchi di divinazione sistemati dall’indovino. Per suo volere, dalla polvere prenderanno forma i disegni divini, così svelati agli uomini. Fu Volpe a fecondare per la prima volta la Madre Terra, sola e senza il conforto vitale della parola, dando forma e contenuto al vuoto immobile in cui giaceva il mondo. La domanda è stata posta nel modo giusto, il responso è stato chiaro: col consenso degli antenati presto cadrà la pioggia e l’acqua riempirà i canali di irrigazione fra i campi di miglio e cipolle, salvando il raccolto. Il vecchio indovino Dogon scruta l’orizzonte polveroso verso il Sud, oltre la grande piana di sabbia ed erba gialla. Le nuvole nere, cariche di pioggia, verranno di laggiù, annunciate da un odore pungente di terra e alghe. Il sole si alza lentamente nel cielo lattiginoso. Le prime luci proiettano sulle rocce l’ombra dei tetti appuntiti dei granai in terra cruda. Anche le voci dei bambini sembrano zampilli d’acqua fresca stamattina, tra le case del  villaggio di Irelì, Falaise di Bandiagara, Mali.
2.

novaresione 1

Fa troppo freddo, stamattina è un giorno crudele. Per tutta la settimana il termometro è sceso sotto lo zero, ogni giorno. Le Colline dell’Acqua Bianca sono coperte di brina e sopra la città incombe una nube di fumo denso e nero: laggiù, fra le distese senza fine di baracche di legno e lamiera, si brucia di tutto per scaldarsi, anche i copertoni. Questo inverno sembra non finire mai, se non si ha una casa. Sylvia una casa ce l’ha, o almeno una parte: manca il tetto. Ci sono voluti due anni di attesa, fasci di documenti in tre lingue diverse, code interminabili: poi, improvvisamente, l’assegnazione. Ma dei soldi stanziati dal governo non restava più nulla: spariti nelle tasche di qualche funzionario disonesto. Niente soldi, niente lamiera ondulata, niente tetto. Equazione elementare, sorry. Solo quattro muri di cemento grezzo e, sulla testa, il cielo. Un uomo in giacca e cravatta, dietro il vetro di un ufficio polveroso, le ha detto che deve attendere ancora, ma è questione di poco.  Quanto?  pensa Sylvia  Quanti giorni, o mesi, o forse anni? E con uno stipendio da donna delle pulizie, ottocento rand al mese per tre giorni alla settimana di lavoro garantito, due figli e un marito disoccupato, riuscirò a pagare l’affitto? I cumuli di detriti minerari, colline squadrate di polvere giallo limone, sembrano blocchi di ghiaccio. Il taxi collettivo abbandona il confine di Soweto per inoltrarsi fra i viali alberati dei sobborghi residenziali di  Johannesburg, Gauteng, Sud Africa.

3.

I leopardi stanno in cima alle colline, ma ne sono rimasti pochi per fortuna. Con la guerra sono arrivati i kalashnikov dall’Angola, un fucile per due vacche, e gli Himba ne hanno approfittato per far fuori i predatori. A dire il vero, oltre alle loro mandrie, nella boscaglia è rimasto ben poco su quattro gambe. La guerra è finita da un pezzo ormai, e i due bambini ne hanno solo sentito parlare dai genitori. Quattro anni uno e sette anni l’altra: sono stati lasciati qui, presso la sorgente, a sorvegliare gli agnelli. Il posto più vicino con una parvenza di civiltà è ad Epupa Falls, quattro ore di cammino tra pietraie insensate. Non ci sono capanne, né ripari provvisori, né ombra degna di questo nome: appesi ad un alberello senza foglie alcuni vasi per la mungitura, una cetra, un coltellaccio nel fodero di legno, una zangola e pochi altri utensili. I pastorelli dormono con gli animali, all’aperto, su due stuoie di pelle di capra. La bambina non sorride mai, parla sottovoce e si muove con passi di danza. E’ bellissima. Guarda con indifferenza i miei scarponi da montagna, grossi e pesanti. Camminare è un’arte di leggerezza quaggiù, nella valle del Kunene, Kaokoveld, Namibia.

4.

William Lepukei è uomo di due mondi. E’ un Turkana ma capisce i wazungu, i bianchi, e da anni lavora con loro, accompagnandoli lungo i sentieri impervi del deserto di lava e assistendoli nelle loro occupazioni. Alcuni cercano gli animali-pietre, i fossili di cui la zona è ricchissima, altri vengono a censire gli uccelli migratori  che fanno sosta sul lago, altri ancora semplicemente a fare i turisti. C’è chi ha i soldi e chi no, Lepukei ha imparato anche questo durante gli anni: i wazungu non sono tutti uguali. Gli anni passano, Lepukei ha le tempie grigie e sempre lo stesso problema: come sbarcare il lunario. Oggi, per esempio, non sa cosa mangerà. Solamente pensare al pesce, l’unico cibo sempre disponibile, gli dà la nausea: vorrebbe della carne, ma al solito ha le tasche vuote quanto lo stomaco. I bei tempi dei grandi safari a piedi sembrano essere tramontati; il Grande Progetto annunciato, che dovrebbe cambiare la sua vita e portare nuova linfa a tutta la regione, non arriva mai. I soldi degli aiuti per l’Africa sono bloccati in Europa da anni, nessuno sa perché. E’ un mondo di iene e nessuno meglio di Lepukei sa cosa ciò significhi. Le cose sono peggiorate, tutto costa ogni giorno di più, tirare avanti è sempre più difficile nella maledetta Loyangallani, sponda orientale del lago Turkana, Kenya.

5.

Un piede davanti all’altro, quarto della fila. Sessanta dromedari, sei uomini, tre tonnellate e mezzo di sale in pani a forma di cono. Assenza totale di paesaggio, niente a cui lo sguardo esausto possa aggrapparsi. Alla sete non bisogna pensare. E’ il lavoro dei Tuareg, la carovana. Il sole scompare, ingoiato dall’ orizzonte piatto. Calano le ombre della sera. Oltre il cerchio di luce del fuoco, nel buio nulla, danzano i djenoun, gli spiriti del deserto, burloni e maligni. Suo padre ci credeva e li temeva. Lui, Mamoudane, non ne é più sicuro: la terra scricchiola e si muove la notte, questo è vero, e all’orecchio non si può mentire. Ma saranno davvero i djenoun? Suo figlio, che ha studiato e lavora alle miniere di uranio di Arlit, gli ha spiegato che quei rumori sono provocati dalla differenza di temperatura tra il giorno e la notte. La terra si contorce, allora, come fosse viva. E non è la stessa cosa? Sia quel che sia, conclude Mamoudane, non ci sono buone ragioni per lasciare il campo e addentrarsi nel vuoto minerale dell’Adrar Bous, deserto del Tenerè, Niger occidentale.

di Paolo Novaresio

L’uomo con la valigia

le foto sono del sottoscritto